Ufficio Stampa

PUBBLICITÀ AL GIOCO D’AZZARDO, GOOGLE E YOUTUBE RESPONSABILI: CAMBIA TUTTO DOPO LE ULTIME SENTENZE

Consiglio di Stato e Tar Lazio hanno confermato le sanzioni Agcom a Google per aver diffuso pubblicità di giochi con vincite in denaro su Google Search e YouTube, contravvenendo al Decreto Dignità. Google è stato considerato un hosting provider attivo, responsabile per i contenuti promossi: un cambiamento significativo nell’interpretazione della responsabilità dei provider
Dall’Italia è partito un nuovo (e in parte rivoluzionario) orientamento giurisprudenziale che ha ridisegnato il ruolo dei provider e, più specificatamente delle piattaforme di condivisioni di contenuti online partendo dalla società di Mountain View.

Gioco d’azzardo, le conferme ai provvedimenti Agcom
Prima il Consiglio di Stato (con la sentenza n. 4277 del 13 maggio 2024 relativamente al servizio di motore di ricerca “Google Search”) e poi il Tar per il Lazio (con l’ordinanza n. 1940 del 16 maggio 2024, relativamente al servizio di condivisione di video “YouTube”) hanno confermato i provvedimenti sanzionatori adottati dall’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (di seguito anche “Agcom”) nei confronti della società Google Ireland Limited in violazione del divieto di pubblicità di giochi con vincite in denaro introdotto dall’articolo 9 del Decreto Legge n. 87 del 12 luglio 2018, convertito con modifiche con la Legge n. 96 del 9 agosto 2018 (di seguito anche “Decreto Dignità”).

Google hosting provider attivo: l’importanza della sentenza
L’importanza di tali pronunce consiste nel fatto che la giurisprudenza italiana ha, per la prima volta, riconosciuto la responsabilità nei confronti di Google relativamente ai propri servizi digitali per la violazione del suddetto divieto di pubblicità di cui al Decreto Dignità.

A differenza della nota pronuncia del 23 marzo 2010 sul caso C-236/08 in cui la Corte di Giustizia dell’Unione europea non aveva rilevato profili di responsabilità imputabili a Google in ragione della funzione “meramente tecnica, automatica e passiva” del servizio Google Ads che escludeva la possibilità di conoscere e controllare i dati oggetto di trasmissione, con la sentenza n. 4277 il Consiglio di Stato ha, invece, qualificato Google responsabile quale hosting provider attivo.

I Giudici di Palazzo Spada nella richiamata pronuncia hanno applicato, all’analisi del ricorso in appello presentato da Agcom avverso la sentenza del Tar per il Lazio n. 11036/2021, i criteri forniti dalla CGUE nonché più di recente dalla Suprema Corte di Cassazione (con la sentenza n. 7708 del 19 marzo 2019) in tema di responsabilità dei provider alla luce del ruolo svolto dalle stesse.

Il quadro normativo di riferimento
Per una maggiore comprensione di tale materia è importante partire dal quadro normativo di riferimento per poi passare ai provvedimenti adottati negli ultimi anni dall’Agcom e, infine, analizzare le pronunce in oggetto.

La materia della responsabilità dei provider è stata disciplinata per la prima volta in ambito europeo dalla Direttiva 2000/31/CE del Parlamento europeo e del Consiglio dell’8 giugno 2000 relativa a taluni aspetti giuridici dei servizi della società dell’informazione, in particolare il commercio elettronico, nel mercato interno (nota anche come Direttiva sul commercio elettronico e anche come Direttiva e-commerce). Giova, al riguardo, ricordare che l’articolo 14 della Direttiva e-commerce, oggi confluito nell’articolo 5 del Regolamento 2065/2022 (di seguito anche “DSA”) prevede che «nella prestazione di un servizio della società dell’informazione consistente nella memorizzazione di informazioni fornite da un destinatario del servizio, il prestatore del servizio non è responsabile delle informazioni memorizzate su richiesta di un destinatario del servizio, a condizione che detto prestatore:

a) non sia effettivamente a conoscenza delle attività o dei contenuti illegali e, per quanto attiene a domande risarcitorie, non sia consapevole di fatti o circostanze che rendono manifesta l’illegalità dell’attività o dei contenuti; oppure

b) non appena venga a conoscenza di tali attività o contenuti illegali o divenga consapevole di tali fatti o circostanze, agisca immediatamente per rimuovere i contenuti illegali o per disabilitare l’accesso agli stessi».

Dunque, il legislatore europeo ha introdotto una esenzione generale di responsabilità dei provider (ossia un «servizio della società dell’informazione consistente nella trasmissione, memorizzazione temporanea o permanente di informazioni fornite da un destinatario del servizio»), ma lo ha sottoposto al rispetto di due specifiche condizioni al ricorrere di ciascuna delle quali diventa responsabile.

Sebbene, come evidenziato dal Consiglio di Stato nella richiamata sentenza abbia escluso che la disciplina del gioco d’azzardo rientri nell’ambito di applicazione della Direttiva e-commerce, l’Autorità ha sempre analizzato “caso per caso” il rispetto o meno di tali condizioni.

Inoltre, la stessa Direttiva e-commerce ha altresì introdotto, al successivo articolo 16 (oggi confluito nell’articolo 8 del DSA) un divieto generale di sorveglianza da parte dei provider relativamente ai contenuti da questa trasportati «1. Nella prestazione dei servizi di cui agli articoli 12, 13 e 14, gli Stati membri non impongono ai prestatori un obbligo generale di sorveglianza sulle informazioni che trasmettono o memorizzano né un obbligo generale di ricercare attivamente fatti o circostanze che indichino la presenza di attività illecite. 2. Gli Stati membri possono stabilire che i prestatori di servizi della società dell’informazione siano tenuti ad informare senza indugio la pubblica autorità competente di presunte attività o informazioni illecite dei destinatari dei loro servizi o a comunicare alle autorità competenti, a loro richiesta, informazioni che consentano l’identificazione dei destinatari dei loro servizi con cui hanno accordi di memorizzazione dei dati».

Responsabilità dei provider: un nuovo approccio dalla giurisprudenza
Tuttavia, se da un lato la normativa europea del 2000 aveva riconosciuto, come detto, una esenzione generale di responsabilità e la mancanza di obbligo generale di sorveglianza da parte dei provider l’evoluzione degli stessi ha, nel tempo, determinato un necessario nuovo approccio alla materia in funzione del ruolo svolto dai provider nel contesto di riferimento. La giurisprudenza ha, quindi, distinto un ruolo attivo di hosting provider ed uno passivo rilevando he l’analisi circa il rispetto delle due condizioni di esenzione di responsabilità fosse ascrivibile sol nel caso di hosting passivo.

Nella nota pronuncia della CGUE (C-324/09) la Corte ha sancito la responsabilità dell’hosting provider per la violazione del marchio L’Oreal da parte di alcuni suoi utenti in ragione dell’attività in concreto di eBay, che si sostanziava in un vero e proprio servizio di assistenza nelle vendite, non configurabile come meramente passiva. Sulla medesima ratio si è basato il ragionamento seguito dal Consiglio di Stato nella recente pronuncia qui richiamata.

L’aspetto dirimente, quindi, che è necessario verificare è la condotta in concreto seguita dal provider in relazione ai contenuti ivi diffusi.

Come si dirà nel proseguo dell’analisi, i provvedimenti adottati dall’Autorità hanno dimostrato in primis che il provider fosse pienamente consapevole circa gli illeciti ivi trasportati.

Inoltre, e ad ulteriore conferma della chiara responsabilità nei provvedimenti adottati da Agcom è emerso comune il mancato rispetto di entrambe le condizioni di esenzione di responsabilità ex art. 5 del DSA.

Il provvedimento sanzionatorio di Agcom
Proprio su detto aspetto si è, pertanto, incentrato il primo provvedimento sanzionatorio adottato da Agcom nei confronti di Google (a cui ne sono seguiti altre 3 per nuove violazioni riscontrate sempre a Google attraverso la piattaforma di condivisione di video YouTube con le delibere nn. 275/22/CONS del 19 luglio 2022, 331/23/CONS del 5 dicembre 2023 e 50/24/CONS del 1° marzo 2024) in merito alla violazione commessa attraverso il servizio pubblicitario Google ADS dell’articolo 9 del decreto-legge del 12 luglio 2018, n. 87, convertito con la legge del 9 agosto 2018, n. 96 (cd Decreto Dignità).

In particolare, con l’articolo 9 del Decreto Dignità, il legislatore italiano ha attribuito un nuovo potere di vigilanza e se del caso sanzionatorio ad Agcom introducendo nel nostro ordinamento un divieto di pubblicità di giochi a pagamento.

Al riguardo, detto articolo prescrive che «al fine di un più efficace contrasto del disturbo da gioco d’azzardo è vietata qualsiasi forma di pubblicità, anche indiretta, relativa a giochi o scommesse con vincite di denaro nonché al gioco d’azzardo, comunque effettuata e su qualunque mezzo, incluse le manifestazioni sportive, culturali o artistiche, le trasmissioni televisive o radiofoniche, la stampa quotidiana e periodica, le pubblicazioni in genere, le affissioni e i canali informatici, digitali e telematici, compresi i social media […]». Al successivo comma 2 viene specificato che il predetto divieto è posto a «carico del committente, del proprietario del mezzo o del sito di diffusione o di destinazione e dell’organizzatore della manifestazione, evento o attività».

La ratio del divieto ivi contenuto è da individuarsi nel contrasto alla ludopatia e nel rafforzamento della tutela del consumatore/giocatore, con particolare riferimento alle categorie vulnerabili (giocatori patologici, minori, anziani).

Con specifico riferimento al caso in oggetto, Agcom, nell’ambito dell’attività di monitoraggio d’ufficio svolta e finalizzata alla verifica del rispetto del divieto di pubblicità relativo a giochi o scommesse con vincite in denaro sancito dal citato articolo 9 del Decreto Dignità, ha contestato a Google la violazione del predetto articolo per la diffusione, sul motore di ricerca www.1d5920f4b44b27a802bd77c4f0536f5a-gdprlock, di pubblicità di siti che svolgono attività di gioco e scommessa a pagamento.

Si osserva che detto servizio consiste in un servizio di posizionamento pubblicitario online interamente gestito da Google Ireland che consente ai vari inserzionisti interessati di pubblicare “link sponsorizzati” verso determinati siti di destinazione o landing page, generalmente a lato o in alto rispetto ai risultati restituiti da Google Search perché associati a determinate parole o chiavi di ricerca.

Ad esito del relativo procedimento, l’Autorità, viste le risultanze istruttorie, ha ritenuto di dover determinare con la delibera n. 541/20/CONS la sanzione amministrativa pecuniaria – nella misura pari a euro 50.000 per ciascuna giornata di rilevazione contestata, secondo il principio del cumulo materiale, per un totale di euro 100.000.

Dunque, il ragionamento seguito da Agcom si è basato sul fatto che il servizio Google Ads non consiste nel semplice immagazzinamento del contenuto pubblicitario creato dall’utente, ma prevede che lo stesso sia elaborato dal sistema, a valle di una specifica verifica, al fine di garantirne l’efficace posizionamento rispetto alle parole di ricerca inserite dagli utenti e alla profilazione della loro navigazione. Ne discende, quindi, che si tratta un servizio, offerto a titolo oneroso, di indicizzazione di siti web su motore di ricerca (Google Search) e di promozione su siti web, volto a garantire un miglior posizionamento dei predetti siti web nei risultati di ricerca dell’utente rispetto a query basate su parole chiave definite dall’inserzionista.

Le pronunce di Tar e Consiglio di Stato
Avverso tale pronuncia Google ha presentato ricorso al Tar per il Lazio che con la sentenza n. 11036/2021 ha annullato la predetta delibera; Agcom su tale sentenza ha presentato ricorso in appello su cui il Consiglio di Stato si è definitivamente pronunciato con la sentenza n. 4277 del 13 maggio 2024.

In particolare, il TAR, richiamando la distinzione elaborata dalla giurisprudenza comunitaria e nazionale tra hosting provider attivo e hosting provider passivo, ha fondato la propria motivazione sulle disposizioni di cui all’art. 16 del D.lgs. 9 aprile 2003, n. 70, di recepimento dell’articolo 14 della Direttiva 2000/31/CE, che, pur non essendo ritenuta una disciplina direttamente applicabile al caso di specie, sarebbe espressione di principi generali laddove prevede un regime più favorevole di responsabilità per gli hosting provider passivi. Secondo il TAR, tali regole avrebbero portano, nel caso di specie, ad escludere la sussistenza dell’illecito ascritto a Google dal momento che «la mera valorizzazione degli indici presenti nel provvedimento impugnato (strumentalità alla diffusione del messaggio ed elaborazione di quest’ultimo dal sistema utilizzato dal servizio di posizionamento) non [è] di per sé sufficiente, alla luce del riportato ampio e costante quadro giurisprudenziale, a fondare, nel caso di specie, la responsabilità del gestore della piattaforma per la violazione del “Decreto dignità”».

Il Consiglio di Stato ha, invece, ribaltato l’arresto del giudice di prime cure ritenendo che «l’art. 16 cit. non possa applicarsi alla fattispecie per cui è causa perché, come correttamente rilevato dal TAR, la Direttiva 2000/31/CE esclude testualmente dal proprio ambito di applicazione (art. 1, comma 5) “i giochi d’azzardo che implicano una posta pecuniaria in giochi di fortuna, comprese le lotterie e le scommesse”». Su tale aspetto, il Consiglio di Stato ha osservato che detta esclusione non riguarda solamente l’attività che ha ad oggetto lo svolgimento on line del gioco d’azzardo a pagamento, come sostenuto da Google, ma anche l’attività diretta alla pubblicizzazione dei giochi medesimi.

Il ragionamento seguito dal Consiglio di Stato si è proprio basato sul ruolo che in concreto è stato svolto dal provider relativamente al servizio pubblicitario offerto ai propri utenti business Google Ads rispetto al quale è stato chiarito che «Google non rientrerebbe nel perimetro soggettivo di applicazione di tale art. 16 dal momento che opera quale hosting provider attivo».

Perché in questo caso Google è stato considerato “attivo”
A differenza del noto caso italiano Google vs Vividown, di cui alla sentenza della Corte di Cassazione del 17 dicembre 2013 n. 5107, in cui era stato rigettato il ricorso proposto dal Procuratore Generale della Repubblica presso il Tribunale di Milano non rilevando alcuna responsabilità di Google, nel caso de quo i Giudici di Palazzo Spada hanno confermato le evidenze istruttorie di Agcom relativamente al servizio Google Ads osservando che «al momento in cui l’utente inserisce nel motore di ricerca la parola o le chiavi di ricerca, appariranno all’utente gli annunci corrispondenti sul lato destro o nella parte superiore dei risultati, preceduti dalla parola “annuncio” o da espressioni analoghe, in modo da essere maggiormente visibili rispetto ai risultati “ordinari” restituiti dal motore di ricerca, e ciò anche a non voler considerare l’incidenza dell’attività di profilazione degli utenti nella promozione degli annunci, che AGCOM imputa a Google con un’allegazione che la seconda contesta. L’attività promozionale svolta da Google è confermata dalla circostanza per cui gli inserzionisti remunerano il servizio in modo proporzionale rispetto alle effettive visualizzazioni che il messaggio pubblicitario riceve».

Pertanto, il Consiglio di Stato ha ritenuto «che tale servizio pubblicitario non vede Google quale mero hosting provider passivo, dal momento che la società svolge, mediante una gestione imprenditoriale, un servizio di indicizzazione e promozione di contenuti di terze parti non rimanendo, pertanto, “neutrale” rispetto a detti contenuti ma promuovendoli sul mercato e avendo al riguardo un proprio interesse economico alla buona riuscita di tale promozione. Google, nei sensi anzidetti, realizza quindi un “controllo” delle informazioni pubblicate e consente ai suoi clienti di “ottimizzare la loro vendita online”».

Una sentenza che ribalta l’orientamento giurisprudenziale
Come detto, si tratta di una sentenza che nel riconoscere il ruolo attivo di Google nella sua attività di hosting provider ha innovato, alla luce delle previsioni della Direttiva e-commerce ed oggi del Regolamento DSA, il precedente orientamento giurisprudenziale maturato nel corso degli ultimi 20 anni nei confronti dei provider che, valorizzando gli aspetti tecnici di funzionamento dei servizi erogati, conduceva sempre a qualificarli come passivi (Corte di giustizia, grande sezione, 23 marzo 2010, n. 236, Google France e Google, cause da C-236/08 a C-238/08, punto 113; cfr. anche Id., grande sezione, 12 luglio 2011, L’Oréal e a., C-324/09, punto 113; Id., terza sezione, 7 agosto 2018, Coóperative Vereniging SNBREACT U.A. c. Deepak Mehta, C-521/17, punto 47; Id., grande sezione, 22 giugno 2021, YouTube, cause C-682/18 e C-683/18, punto 115-116).

La sentenza del Consiglio di Stato è giunta a questo radicale passo valorizzando, per quanto riguardo il caso specifico, la comunicazione COM (2017) 555 della Commissione europea del 28 settembre 2017, relativa alla “Lotta ai contenuti illeciti online. Verso una maggiore responsabilizzazione delle piattaforme online”, nonché il più recente orientamento della Corte di giustizia, secondo cui la deroga alla responsabilità di cui all’art. 14 della Direttiva e-commerce è disponibile solo per i prestatori di servizi di hosting «che non rivestono un ruolo attivo».

È, dunque, caduto il velo della esenzione generale di responsabilità per l’attività di hosting provider, riconoscendosi che non per tutti i servizi si possono applicare le regole di esenzione di responsabilità, ad esempio nella pubblicità di giochi d’azzardo e nella vendita di biglietti sui mercati secondari (c.d. secondary ticketing).

La sentenza del Tar Lazio su YouTube
Infine, con la recente ordinanza del Tar per il Lazio n. 1940 del 16 maggio 2024, il giudice di prime cure ha confermato nuovamente la legittimità dell’operato di Agcom in tema di responsabilità dei provider ed in particolare di Google relativamente ad un diverso servizio rispetto a quello appena analizzato: il servizio di condivisione di video (cd video sharing platform o anche VSP) Youtube.

In particolare, con la delibera n. 50/24/CONS, l’Agcom ha nuovamente sanzionato (per la quarta volta) Google per la violazione dell’articolo 9 del Decreto Dignità, questa volta in relazione al servizio YouTube.

La responsabilità del provider è stata riconosciuta in ragione non di un qualunque video illecito caricato presso YouTube, bensì relativamente alla conoscenza del predetto illecito in ragione di rapporti di partnership commerciale instaurati tra Google e i propri content creator al raggiungimento di determinate soglie predeterminate.

Il caso in esame, infatti, non verte su un singolo contenuto caricato da un utente privato una tantum o comunque sporadicamente, bensì su un elevatissimo (oltre 300) numero di video, caricati tutti su un unico canale nel quale vengono aggiunti ulteriori video con cadenza giornaliera, tutti del medesimo tenore, indubbiamente consistente in una manifesta promozione di giochi con vincite in denaro.

Come noto, è la piattaforma stessa che spinge tutti i creator ad azionare su base volontaria la pubblicità in pre-roll, in quanto Google guadagna da tutti i messaggi pubblicitari che veicola sui contenuti degli utenti, circostanza che comporta una compartecipazione nella remunerazione della piattaforma stessa. Parimenti, Google guadagna dagli eventuali abbonamenti degli utenti ai canali che usufruiscono in cambio di vantaggi esclusivi (contenuti e video riservati agli abbonati; live streaming riservati agli abbonati; chat dal vivo), ciò a riprova del fatto che Google guadagna anche in funzione dei contenuti diffusi presso la propria piattaforma a prescindere dalla pubblicità.

Ed infatti, ciascun utente del servizio YouTube, in ragione della cd. viralità e rilevante diffusività del proprio canale, ha la facoltà di richiedere di diventare partner di YouTube. Google, prima di concludere il relativo contratto a titolo oneroso, si riserva di verificare il rispetto di una serie di condizioni che legittimano l’adesione al “Programma partner di YouTube”, utilizzando non solo risorse automatizzate, ma anche umane specificatamente dedicate all’espletamento di detta attività in un arco temporale ragionevole e cioè non meno di 30 giorni.

Su tale aspetto, si osserva che nella delibera n. 50/24/CONS viene chiarito che «il content creator ha predisposto e inviato al fornitore del servizio intermediario una proposta di sottoscrizione del contratto di “partnership commerciale”, al fine di ottenere maggiori ricavi, nella quale dichiara il “tema” dei propri canali.

programma di partnership di YouTube
La possibilità di proporre tale istanza viene data “automaticamente” da Google direttamente tramite il proprio canale YouTube, al raggiungimento di determinate soglie stabilite ex ante dalla piattaforma (4000 ore di visualizzazioni e 1000 iscritti al canale). In particolare, come si legge sul sito della Società su tale aspetto “Attualmente, YouTube offre agli oltre 2 milioni di partner della piattaforma 10 modi per guadagnare. Ebbene, non intendiamo fermarci qui. Oggi ampliamo il nostro Programma partner. In questo modo, un numero maggiore di creator e artisti avrà l’opportunità di guadagnare su YouTube tramite diversi formati creativi”.

La società, una volta ricevuta la proposta da parte dei vari content creator di stipulare un contratto di partnership commerciale, avvia le proprie attività di verifica (contenuti caricati, visualizzazioni e numero di iscritti ai canali) aventi ad oggetto la natura del canale e i video ivi presenti sia con risorse automatiche che, soprattutto, con risorse umane in un arco temporale dichiarato dalla stessa società non inferiore a 30 giorni per ciascuna istanza. Al riguardo, nella parte dedicata al programma di partnership si legge che “Ti ricontatteremo per comunicarti la nostra decisione una volta terminata la revisione del tuo canale (in genere entro circa un mese). Tieni presente che possono verificarsi ritardi, dovuti ad esempio a volumi di domande di adesione più elevati del solito, problemi relativi al sistema o limiti alla disponibilità di risorse. Tutte le domande di adesione al programma YPP vengono evase nell’ordine in cui le abbiamo ricevute. Alcuni canali necessitano di più revisioni, soprattutto nel caso in cui i revisori non siano d’accordo sull’idoneità del canale al programma. In questi casi, il processo decisionale potrebbe diventare più lungo” (enfasi aggiunta). Come si apprende dalla lettura del programma di partnership testé riportato Google, contrariamente a quanto intende sostenere, invita chiaramente i propri utenti a diventare propri partner commerciali precisando chiaramente che, le soglie previste, la società prende una decisione (“nostra”) che richiede un determinato lasso di tempo in ragione del lavoro svolto da un team di dipendenti “revisori” deputati all’analisi dell’istanze di partnership».

Ciò posto, nel predetto provvedimento Agcom ha sostenuto la piena evidenza da parte di Google dei numerosi video caricati su YouTube con cadenza giornaliera dal content creator, tutti di analogo contenuto consistente nella pubblicità di giochi con vincite in denaro, e per tanto che non potesse dirsi ignaro rispetto alla tematicità dei canali stessi, sin dalla fase di sottoscrizione del contratto di partnership e che proprio tale circostanza costituisse condizione sufficiente a configurarne la responsabilità.

Nella citata ordinanza, dunque, il Tar ha osservato che il ricorso presentato da Google «non appare assistito da idoneo fumus boni iuris attesa la non pertinenza dei plurimi richiami alla disciplina sul commercio elettronico e posto che non sembra che la ricorrente abbia provato la sussistenza di elementi idonei ad escludere la propria colpa, essendosi limitata ad affermare che “nella specie, non è stata mai selezionata la casella della promozione a pagamento nei dettagli relativi ai Video Contestati” e che la mancata selezione della suddetta casella le avrebbe impedito di “controllare a priori se il contenuto promosso violi o meno le policy di YouTube”».

L’altro aspetto, parimenti importante, che emerge da tale pronuncia riguarda la parte relativa al periculum in mora non rilevata dal Tar attiene agli ordini di stay down di contenuti illeciti analoghi o corrispondenti caricati presso la piattaforma YouTube dai medesimi content creator.

Anche su tale aspetto il Tar nel rigettare l’istanza cautelare di Google ha riconosciuto la legittimità del provvedimento di Agcom osservando che «l’ordine contenuto nel provvedimento impugnato risulta, viceversa, espressamente limitato ai soli “video caricati dal content creator “Spike”” (come si evince dal tenore testuale del dispositivo dell’ordinanza: “ordina alla società Google Ireland Limited … di rimuovere dalla piattaforma di condivisione di video “YouTube” i video caricati successivamente alla notifica della presente delibera dal content creator “Spike” sopra identificati i cui contenuti siano analoghi o equivalenti a quelli oggetto del presente procedimento”)».

 https://www.agendadigitale.eu/

Views: 700

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.