Pubblicazioni

Durata della condotta lesiva che configura il “mobbing” e responsabilità del datore di lavoro – Cassazione Sezione lavoro, sentenza n. 22858/08

Con la sentenza in commento la Suprema Corte torna a definire i confini del mobbing in azienda affrontando la questione dell’individuazione del tempo necessario a determinare la fattispecie di mobbing. Nella specie la ricorrente chiedeva il risarcimento dei danni derivati da comportamenti persecutori protrattisi per sei mesi sul posto di lavoro e consistiti in provvedimenti di trasferimento di sede, appellativi sgradevoli, sottrazione di un importante progetto di cui si occupava, isolamento dai colleghi con la collocazione in un ufficio marginale. Il giudice di secondo grado (Corte d’Appello di Torino), ritenendo che la protrazione di tali comportamenti per sei mesi non fosse sufficiente a concretizzare mobbing, aveva rigettato la domanda della lavoratrice.
Il giudice di legittimità ha riformato la sentenza affermando che “l’individuazione del tempo necessario a determinare mobbing è un procedimento logico complesso, in cui è necessario considerare l’ambiente socio-culturale in cui il conflitto si svolge, le relazioni psicologiche del mobbizzato e lo specifico lavoro svolto”. Sulla base di tali considerazioni, la Cassazione ha dunque stabilito che – escludendo gli episodi isolati – sono sufficienti anche pochi mesi di tempo per configurare una continuità delle azioni lesive a danno del lavoratore, identificando tale comportamento come vero e proprio mobbing.
La S.C. ha inoltre riconosciuto la responsabilità del datore di lavoro per la condotta mobbizante attuata dal suo dipendente posto in posizione di supremazia gerarchica (nella specie con qualifica di quadro) rispetto alla vittima, precisando che “non esclude tale responsabilità un mero – tardivo – “intervento pacificatore”, non seguito da concrete misure e da vigilanza ed anzi potenzialmente disarmato di fronte ad un’aperta violazione delle rassicurazioni date dal presunto mobbizante”. Infatti il datore di lavoro è sempre responsabile delle azioni dei propri dipendenti in posizione di supremazia gerarchica, e non può quindi sottrarsi alla sanzione essendo obbligato ad intervenire con misure concrete per tutelare la vittima.

IL FENOMENO MOBBING
Per cogliere appieno l’importanza dello spunto offerto dalla sentenza, sembra opportuno procedere ad una ricostruzione del fenomeno mobbing, il quale, essendo privo di una regolamentazione legislativa, risulta frutto dell’elaborazione di dottrina e giurisprudenza non solo giuslavoristica.
Il mobbing è una sequenza di atti e comportamenti finalizzati e/o idonei, per le modalità di attuazione, a realizzare una forma di persecuzione psicologica del lavoratore preso di mira (così R. SCOGNAMIGLIO, A proposito del mobbing, in Riv. It. Dir. Lav., 2004, 496; sempre in tema di mobbing, si consultino: MONATERI, BONA, OLIVA, Mobbing. Vessazioni sul lavoro, Milano, 2000; ID., La responsabilità civile nel mobbing, Milano, 2002). L’atteggiamento ostile e persecutorio nei confronti di un lavoratore – che può derivare sia dai colleghi (c.d. mobbing orizzontale), anche sovraordinati, sia dal datore di lavoro (c.d. mobbing verticale o bossing), anche attraverso propri sottoposti – può essere finalizzato o a determinare l’espulsione del soggetto mobbizzato da un determinato contesto lavorativo o più semplicemente a ledere la sua dignità personale e professionale. Tale atteggiamento ha richiamato alla mente degli psicologi del lavoro il comportamento di alcune specie animali, che talvolta compiono atti aggressivi nei confronti di un membro del gruppo, al fine di espellerlo: comportamento, ben noto agli etologi, che era stato denominato, appunto, mobbing da Konrad Lorenz, negli anni sessanta. Quando il mobbing si è imposto all’attenzione dei giuristi, questi ultimi si sono resi presto conto che i singoli atti (od omissioni) attraverso i quali viene realizzata la condotta persecutoria sono spesso di per sé leciti, ma, se uniti gli uni agli altri e protratti per un certo tempo, danno luogo ad una fattispecie complessa di illecito: è stato detto che il mobbing rappresenta “una cornice che permette di apprezzare la condotta illecita nella sua interezza” (Così MONATERI-BONA-OLIVA, Il mobbing come “legal framework”: una categoria unitaria per le persecuzioni sul lavoro, in Riv. critica dir. priv., 2000, 558), ovvero “una lente di ingrandimento, capace di svelare all’operatore del diritto un’illiceità subdola ed altrimenti, di primo acchito, non conclamabile” (MOROZZO DELLA ROCCA, Responsabilità civile e mobbing, in Dir. famiglia, 2001, 1109 s).
Il fenomeno è quindi considerato in senso unitario, come unificazione di condotte eterogenee in sé astrattamente irrilevanti o inidonee a suscitare una reazione adeguata dell’ordinamento e che tuttavia, riguardate nel loro insieme, possono essere valutate nella loro portata lesiva reale così da costituire un unicum, connotato da disvalore e rilevanza giuridica autonoma. Come infatti rilevato anche da autorevole dottrina, ogni singola condotta persecutoria “crea un precedente nella psiche, ha un peso nella serie causale che porta al mobbing, il che significa che il danno provocato dalla seconda condotta, anche se in termini assoluti meno grave del primo dovrà essere valutato tenendo conto del substrato psicofisico già compromesso nel quale va ad innestarsi”. Correlativamente, la considerazione unitaria del fenomeno consente di colpirlo superando l’approccio tradizionale delle Corti di merito che sanzionavano solo particolari degenerazioni di elevato impatto lesivo (vedi ad es. Trib. Como 22 maggio 2001, in Lav. Giur., 2002, 73, in cui il mobbing aziendale viene definito come collettivo e comprendente l’insieme di atti, ciascuno dei quali è formalmente legittimo e apparentemente inoffensivo e posto in essere con il dolo specifico quale volontà di nuocere o infastidire o svilire un compagno di lavoro, ai fini dell’allontanamento del mobbizzato dall’impresa).
La natura fortemente casistica dei comportamenti vessatori, li rende pressoché insuscettibili di definizioni sufficientemente ampie da abbracciarli tutti. Tra le definizioni che si rinvengono nella giurisprudenza formatasi in materia, si riporta quella contenuta in una delle prime sentenze pronunciate in tale settore dal Tribunale di Torino e risalenti al 1999. In particolare il giudice piemontese definì il mobbing “pratica attraverso la quale il dipendente è fatto oggetto di numerosi soprusi da parte dei suoi superiori e comunque di pratiche che tendono ad isolarlo dall’ambiente di lavoro ovvero, nei casi più gravi, ad espellerlo”. Altra definizione è fornita da Trib. Como 22 maggio 2001: “Condotta riconducibile a quel comportamento reiterato nel tempo da parte di una o più persone, colleghi o superiori della vittima, teso a respingere dal contesto lavorativo il soggetto mobbizzato che a causa di tale comportamento in un certo arco di tempo subisce conseguenze negative anche di ordine fisico”.
Quanto a definizioni normative di mobbing, al momento l’ordinamento italiano non ne contempla più. È nota, infatti, la vicenda della l.r. Lazio 11 luglio 2002, n. 16, dichiarata incostituzionale da Corte cost. 19 dicembre 2003, n. 359 in Corr. Giur. 2004, 244 per motivi attinenti al riparto delle competenze fra Stato e regioni in quanto la disciplina del mobbing costituisce materia di competenza legislativa statale, rientrando nella nozione di ordinamento civile, di cui all’art. 117 comma 2, lett. l), Cost..
L’art. 2 della detta legge definiva mobbing gli “atti e comportamenti discriminatori o vessatori protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di lavoratori dipendenti, pubblici o privati, da parte del datore di lavoro o da soggetti posti in posizione sovraordinata ovvero da altri colleghi, e che si caratterizzano come una vera e propria forma di persecuzione psicologica o di violenza morale”, facendo seguire a tale definizione un lungo elenco esemplificativo di condotte mobbizzanti. Tale sentenza, nel giudicare illegittima la legge regionale, ha incidentalmente ammesso che le condotte possono “estrinsecarsi sia in atti giuridici veri e propri, sia in semplici comportamenti materiali aventi in ogni caso, gli uni e gli altri, la duplice peculiarità di poter essere, se esaminati singolarmente, anche leciti, legittimi, irrilevanti dal punto di vista giuridico, e tuttavia di acquisire comunque rilievo quali elementi della complessiva condotta caratterizzata nel suo insieme dall’effetto e talvolta, secondo alcuni, dallo scopo di persecuzione ed emarginazione”.
Il Giudice delle leggi è successivamente intervenuto in altri tre casi per scrutinare la legittimità costituzionale di leggi regionali in materia di mobbing (L.r. Umbria 28 febbraio 2005, n. 18, sulla quale Corte cost. 22 giugno 2006, n. 238, in Foro it., 2006, 1, 2593; l.r. Abruzzo 11 agosto 2004, n. 26, sulla quale Corte cost. 27 gennaio 2006, n. 22, in Foro it., 2006, 1, 992; l.r. Friuli Venezia Giulia 8 aprile 2005, n. 7, sulla quale Corte cost. 22 giugno 2006, n. 239, in Arg. dir. lav., 2006, 1166), escludendo qualsiasi violazione della Carta fondamentale, ma solo in quanto le leggi rinunciano a formulare una propria definizione di mobbing.
Le conclusioni sono nel senso che i legislatori regionali non hanno alcuno spazio definitorio sicché, nelle more di un intervento del legislatore nazionale, più volte annunciato ma mai realizzatosi, non potrà che permanere l’incertezza qualificatoria.
In ultima analisi, sempre nella prospettiva di identificare le condotte sanzionabili, si collocano anche le analisi sociologiche, che, ricordiamo, hanno avuto il meritorio ruolo di preparare culturalmente gli operatori del diritto alla scoperta di questa nuova fattispecie di danno risarcibile.
A riguardo, però, giova precisare come la nozione sociologica di mobbing non sia totalmente coincidente con quella giuridica. Ad esempio, Harald Ege, nell’opera poc’anzi citata, indica i sette “indizi” di mobbing, identificandoli con l’ambiente lavorativo, la frequenza, la durata ed il tipo di azioni, il dislivello tra gli antagonisti, l’andamento secondo fasi successive e l’intento persecutorio. Per quanto riguarda la durata delle azioni, in particolare, si ritiene che essa debba consistere almeno in sei mesi di vessazioni, salvo i casi di c.d. “quick mobbing” in caso di attacchi quotidiani e violenti, che comunque non permettono alla soglia temporale di scendere al di sotto dei tre mesi.
Mentre autorevole dottrina (PERA), già in sede di commento alle prime sentenze in materia di mobbing, aveva argutamente sottolineato come anche un singolo episodio, per la sua oggettiva gravità, possa essere provocare pesante frustrazione, integrando gli estremi del mobbing.
Per completezza di esposizione si menzionano due nozioni affini al mobbing ma da cui divergono per modalità applicative. Si fa riferimento al c.d. “stalking (occupazionale)” ed al c.d. “straining”.
Il primo sarebbe caratterizzato da vessazioni con motivazioni inerenti l’attività lavorativa ma condotte (anche) al di fuori dell’ambiente di lavoro (cfr.: BONA e DI SABATINO).
Il secondo avrebbe una lesività inferiore al mobbing, potendo essere costituito anche da un solo atto persecutorio. Dello straining si è già occupata la giurisprudenza di merito (Trib. Bergamo, 20 giugno 2005, in Foro It., 2005, I, 3356), la quale ha ritenuto di includervi le condotte di demansionamento (la cui intrinseca diversità rispetto alle condotte di mobbing è stata ribadita, da ultimo, da Trib. Roma 29 novembre 2007, in Quotidiano giuridico, IPSOA), protrattesi per lungo tempo, ma non accompagnate da altri comportamenti ostili.
Tornando alla sentenza in commento (in linea con Cass., sez. lav., 6 marzo 2006, n. 4774, in Foro. It., 2006, 1344; in Giur. It., 2006, 11, che definisce il mobbing come “una condotta sistematica e protratta nel tempo che concreta, per le sue caratteristiche vessatorie, una lesione dell’integrità fisica e della personalità morale del prestatore di lavoro”), la stessa ribadisce la necessità della valutazione complessiva degli episodi dedotti in giudizio, la quale non risulta contraddetta dall’analisi dei singoli comportamenti del datore di lavoro di cui si assume il carattere lesivo, dimostrando in tal modo di aver acquisito la su menzionata nozione di mobbing. Si ritiene ormai unanimemente che gli elementi caratterizzanti il fenomeno sono: la ripetitività e metodicità delle condotte messe in atto dagli autori; l’isolamento del mobbizzato all’interno dell’ambiente di lavoro; lo svilimento della personalità professionale e della dignità umana della persona colpita, escludendo quegli episodi di conflittualità quasi fisiologici in un ambiente lavorativo. Risulta invece alquanto controversa la questione attinente alla necessità o meno che tra gli elementi costitutivi della fattispecie rientri anche l’intenzionalità offensiva della condotta del mobber.
L’intento persecutorio è ritenuto alle volte il collante che lega tra loro tutte le singole condotte mobbizzanti, soprattutto quando gli atti vessatori siano formalmente legittimi in altri casi è richiesto in capo al mobber addirittura il dolo specifico ma più spesso è ritenuto fondamentale il dolo generico, inteso come coscienza e volontà di perseguitare.
Diversamente opina chi ritiene sufficiente ad integrare la fattispecie non già l’intenzionalità offensiva della condotta quanto l’oggettiva idoneità della stessa a ledere la dignità, l’immagine e la reputazione professionale del lavoratore.
La sentenza in commento ha accolto quest’ultimo orientamento, ribadendo due principi: primo, che la lesione del bene protetto va verificata considerando l’idoneità offensiva della condotta datoriale; secondo, che l’idoneità offensiva può essere dimostrata, per la sistematicità e durata, anche breve, dell’azione nel tempo, dalle sue caratteristiche oggettive di persecuzione.

RESPONSABILITÀ DEL DATORE DI LAVORO
La pronuncia in esame fornisce altresì lo spunto per individuare il fondamento normativo cui ricondurre la risarcibilità del danno da mobbing, data l’assenza di una disciplina legislativa ad hoc. La Corte si inserisce in quel filone giurisprudenziale, ormai consolidato, che si avvale dell’art. 32 Cost., posto a tutela della salute come fondamentale diritto dell’individuo, e dell’art. 2087 Cod. Civ., norma che prevede a carico del datore l’obbligo di sicurezza e di protezione dei dipendenti per la salvaguardia dell’integrità fisica e psichica del lavoratore e della sua personalità morale. La dottrina prevalente riconduce senz’altro le vessazioni materiali e psicologiche poste in essere sul luogo di lavoro appunto alla violazione dell’obbligo di sicurezza e di protezione dei dipendenti, previsto dal citato art. 2087 c.c., ravvisandone una responsabilità contrattuale.
Anche secondo la giurisprudenza unanime (da ultimo Cass., sez. lav., 25 maggio 2006, n. 12445, in Foro It., 2006, 10, 1, 2738) tale responsabilità ha natura contrattuale, in quanto inerisce direttamente al contratto di lavoro subordinato. Tale caratteristica incide sull’onere della prova, nel senso che, ove si realizzi un evento dannoso, è il datore di lavoro a dover provare di non aver potuto evitare il fatto.
Circa il contenuto dell’onere probatorio, la giurisprudenza ha precisato che “l’adempimento dell’obbligo di tutela dell’integrità fisica del lavoratore imposto dall’art. 2087 c.c. è un obbligo di prevenzione che impone al datore di lavoro di adottare non solo le particolari misure tassativamente imposte dalla legge in relazione allo specifico tipo d’attività esercitata e quelle generiche dettate dalla comune prudenza, ma anche tutte le altre misure che in concreto si rendano necessarie per proteggere il lavoratore.
Per una recente sentenza di legittimità (Cass., sez. lav., 20 marzo 2007, n. 6621), fra le misure necessarie a tutelare i dipendenti, l’art. 2087 c.c. impone al datore di lavoro anche il licenziamento di lavoratori che tengano atteggiamenti molesti. Stando a questo principio, la mancata espulsione del lavoratore mobbizzante espone il datore al rischio di risarcimento danni a favore del mobbizzato.
Per Cass., sez. lav., 29 agosto 2007, n. 18262 il datore di lavoro è obbligato a risarcire al dipendente il danno biologico conseguente a una pratica di mobbing posta in essere dai colleghi di lavoro, ove venga accertato che il superiore gerarchico, pur essendo a conoscenza dei comportamenti scorretti posti in essere da questi ultimi, non si sia attivato per farli cessare.
Anche nel percorso argomentativo della Corte, rileva una lettura dell’art. 2087 c.c. nel senso di ritenere che l’obbligo in essa previsto, oltre ad implicare il divieto, per il datore, di compiere atti persecutori e vessatori nei confronti del dipendente, contiene anche l’obbligo di adottare misure ed accorgimenti atti a prevenire e reprimere condotte illecite poste in essere da altri dipendenti. Sulla base dell’art. 2087 c.c., la mancata adozione di siffatte misure, qualora le vessazioni siano state perpetrate, come nel caso di specie, da colleghi della vittima, configura in capo al datore una sorta di responsabilità verso i propri dipendenti per culpa in eligendo o in vigilando. Questa impostazione è stata già seguita dalla giurisprudenza di merito la quale, giudicando su un caso di molestie sessuali da parte di un lavoratore, ha affermato la responsabilità contrattuale, ex art. 2087 c.c., del datore di lavoro, che pur essendo venuto a conoscenza di tali molestie, non aveva provveduto alla tutela della dipendente molestata (Trib Milano, 9 maggio 1998).
In concorso con tale forma di responsabilità contrattuale ex art. 2087 c.c., la Cassazione prospetta il modello della responsabilità per fatto altrui, richiamando, a proposito, l’art. 2049 c.c.. In forza di tale disposizione la responsabilità del datore di lavoro si registra anche sul piano extracontrattuale, essendo assimilabile a quella del padrone o committente, in virtù del ruolo organizzativo rivestito dallo stesso; con la conseguenza che il datore di lavoro risponderebbe dei fatti illeciti commessi dai propri dipendenti. Si tratta di una forma di responsabilità indiretta fondata sul brocardo cuius commoda eius et incommoda, con funzione di garanzia nei confronti del danneggiato ed indipendente dalla colpa del soggetto responsabile, per la cui applicazione sarebbe sufficiente un mero nesso di occasionalità necessaria tra le mansioni affidate e l’illecito commesso dal dipendente, e quindi un legame tra evento dannoso e situazione che lo ha determinato. La formula della occasionalità necessaria, ormai divenuta standard e puntualmente ripresa dalla sentenza in commento, è un criterio che viene solitamente interpretato in una prospettiva di tipo causale, con riferimento al principio della efficacia agevolativa: le incombenze svolte dal commesso devono essere state tali da aver reso possibile o da aver comunque favorito la produzione dell’evento dannoso senza che rilevi se tale comportamento si è posto in modo autonomo nell’ambito delle mansioni affidate od abbia addirittura ecceduto i limiti di esse, ferma, peraltro, rimanendo la necessità di una connessione funzionale o strumentale fra incarico ed evento lesivo (Cass., 27 marzo 1987, n. 2994, cit.), posto che il preponente non è tenuto a rispondere del danno, quando l’evento si è verificato all’interno di una attività privata del dipendente, come tale separata e distinta da quella di impresa.
Prendendo le mosse da tale assunto la Suprema Corte, in applicazione del principio su menzionato, al fine di affermare la responsabilità indiretta per mobbing del datore di lavoro, ha riconosciuto rilevanza alla circostanza che il fatto illecito del dipendente sia stato reso possibile, o comunque agevolato dalla colpevole inerzia nella sua rimozione.
Appreso che nel nostro ordinamento la norma che regola la responsabilità del datore di lavoro per fatto illecito del proprio dipendente è l’art. 2049 c.c., l’istituto in parola presenta natura complessa. Come le altre tipologie di responsabilità c.d. vicarie o per fatto altrui (oltre alla responsabilità di cui all’art. 2049 c.c., sono figure di responsabilità per fatto altrui anche quelle disciplinate agli artt. 2047-2054 del codice civile) si tratta di figure nelle quali un soggetto è chiamato a rispondere di un fatto illecito compiuto da un altro soggetto, sulla base di un rapporto (preesistente) che intercorre fra di loro.
Sotto questo profilo, tali fattispecie hanno dovuto essere conciliate con il nostro modello generale fondato sul principio che non esiste responsabilità civile al di fuori di quella personale, vale a dire per fatto imputabile alla persona, e che la responsabilità è una responsabilità per colpa. La responsabilità per fatto altrui non aveva, all’origine, una tradizione sicura al di fuori del vincolo della patria potestas del genitore sul figlio, e l’affermazione di una responsabilità generica per fatto altrui nell’ipotesi in cui taluno non avesse impedito un evento dannoso che aveva in potere di impedire, dovuta al Domat, era apparsa troppo generica e dubbia, stante pure il fatto che essa era stata successivamente limitata dal Pothier ai figli, agli allievi ed ai dipendenti, anche se, poi, la dottrina (TOULLIER, GIORGI) la estese a cose ed animali.
La dottrina ha quindi cercato di trovare le ragioni teoriche della responsabilità indiretta del datore di lavoro ricorrendo alle formule della propagazione della responsabilità (BARBERO), della prestazione della garanzia (MENGONI, BONVICINI) del nesso causale mediato (DE CUPIS), o dell’ampliamento della sfera d’azione (SCOGNAMIGLIO) del soggetto responsabile.
Tutte queste teorie sono oggi superate dalla linea teorica tracciata da RODOTÀ, che ha fondato la natura della responsabilità del datore di lavoro su un criterio autonomo di imputazione che opera in modo diverso da quello della colpa, e da TRIMARCHI che ha inquadrato la figura in esame all’interno del principio del rischio di impresa. Quest’ultima teoria si colloca in una prospettiva di economic analysis of law, trasformando l’art. 2049 c.c. in uno strumento che permette di addossare all’imprenditore i rischi di impresa, in funzione di incentivo verso un sistema efficiente di prevenzione degli incidenti (SHAVELL, MONATERI).
Per quanto concerne il rapporto fra evento dannoso e incarico ricevuto, i capisaldi dell’occasionalità necessaria e della connessione funzionale, che a riguardo rilevano, vanno valutati alla luce di un altro filone giurisprudenziale, in virtù del quale il datore di lavoro è responsabile per il fatto doloso del dipendente, per il reato da questi commesso, ed anche per il comportamento tenuto in violazione degli ordini ricevuti.
Per fare degli esempi, nel caso affrontato da Cass., 20 ottobre 1981, n. 5724, (in Rep. Foro it., 1981), si è ritenuto responsabile il datore di lavoro per il reato di omicidio preterintenzionale commesso da un dipendente che aveva lanciato un mattone in testa ad un collega durante una disputa scoppiata per questioni concernenti l’esecuzione del lavoro. Così, nel caso deciso da Pret. Lecce 16 ottobre 1981 (in Giur. merito, 1982, 536) il datore di lavoro è stato condannato perché un dipendente di un istituto di vigilanza aveva ferito un collega maneggiando per gioco la sua pistola, in palese violazione del divieto di tenere le armi cariche all’interno dell’istituto; mentre in Cass. 27 giugno 1967, n. 1598, è stata applicata la norma di cui all’art. 2049 c.c. per il caso di un cuoco di una comunità religiosa che aveva arrecato danno, provvedendo a rilevanti approvvigionamenti alimentari, del tutto esorbitando dalle sue mansioni ordinarie; ed ancora, in Cass. 27 marzo 1987, n. 2994, il datore di lavoro è stato condannato per il fatto di un dipendente che, in orario di lavoro, aveva dato un semplice passaggio in automobile ad un altro dipendente per fargli raggiungere più rapidamente il posto di lavoro.
Da questi precedenti giurisprudenziali, autorevole dottrina (RUFFOLO) ha notato come il requisito dell’occasionalità necessaria sia una sorta di applicazione del più rigoroso modello di causalità della c.d. conditio sine qua non (o but for test), la quale si inquadra nell’ottica di accollare al datore di lavoro i rischi di impresa così da incentivarlo ad adottare strumenti di prevenzione degli incidenti ed a scegliere un livello di attività compatibile con le esigenze generali di sicurezza (MONATERI, ALPA e LECCESE).
L’imprenditore risponde del fatto illecito del dipendente poiché, per la sua attività di impresa, ha posto in essere un antecedente minimo, senza il quale l’autore del danno non si sarebbe (necessariamente) trovato in quella speciale situazione di tempo e luogo nella quale ha cagionato l’evento.
È il datore di lavoro, infatti, ad aver assunto i due manovali litigiosi; ad aver fornito le pistole al vigilante; ad aver affidato le mansioni di cucina al cuoco; ad aver comandato all’autista di guidare l’autovettura di servizio.
Quest’ultima posizione dottrinaria non è altro che il corollario della teoria che riconosce nell’art. 2049 c.c. uno strumento per internalizzare i rischi di impresa.
Se, infatti, l’imprenditore è chiamato a rispondere, dell’aumento del coefficiente di rischio nel sistema provocato dalla sua attività imprenditoriale, il limite di siffatta responsabilità deve coincidere con quello dell’esercizio dell’impresa.

CONCLUSIONI
Il principio, fatto proprio dalla Corte di cassazione anche nella sentenza in commento, è stato enunciato a partire da Cass. 10 ottobre 1957, n. 3726, (in Mass. Giur. it., 1957) che escluse la responsabilità dei preponenti per il danno cagionato dalla loro collaboratrice famigliare che era caduta da un davanzale, sulla base del fatto che la donna si era affacciata alla finestra, non per pulire i vetri, ma per meglio comunicare con il proprio spasimante. É stato ripreso nel caso affrontato da Cass. 11 luglio 1975, n. 2766, in cui il giudice di legittimità escluse la responsabilità di un’agenzia di viaggi che aveva noleggiato un’autovettura con autista per il danno da quest’ultimo causato servendosi maldestramente di una canna da pesca in un momento di riposo.
Anche in queste fattispecie concrete, il preponente ha comunque posto in essere un antecedente minimo indispensabile alla causazione dell’evento – permettere alla domestica di affacciarsi alla finestra, dare all’autista l’autovettura – ma il comportamento illecito posto in essere dal preposto è stato determinato dall’esclusivo perseguimento di un fine di privata autonomia – coltivare una relazione affettiva; concedersi un momento di svago – rispetto al quale egli non era in alcun modo interessato o compartecipe.
D’altra parte, non sortirebbe beneficio alcuno incentivare il preponente ad adottare cautele ed a prevenire incidenti, in campi di attività che egli non ha il potere giuridico di regolare e dai quali non trae vantaggio.

Views: 1059

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.