L’arbitrato irrituale nelle controversie di lavoro: un confronto tra passato e presente
SOMMARIO: 1. Ricognizione storica dell’istituto come strumento alternativo alla risoluzione delle controversie in materia lavoristica; 2. Gli indici normativi qualificanti la disciplina dell’arbitrato irritale; 3. Il D.Lgs. 2 febbraio 2006 n. 40 e le recenti modifiche in tema di arbitrato irrituale, 4. Conclusioni
1. Ricognizione storica dell’istituto come strumento alternativo alla risoluzione delle controversie in materia lavoristica
L’esperienza arbitrale in materia lavoristica sin dal principio è stata vista dal legislatore negativamente; ciò in ragione non solo dell’eteronomia del nostro ordinamento – caratterizzato dall’indisponibilità dei diritti controversi – ma anche per le caratteristiche proprie della disciplina positiva degli arbitrati, in quanto mezzi di composizione previsti dallo stesso ordinamento.
In via preliminare, nell’intento di voler riassumere la storia e l’evoluzione legislativa dell’istituto in commento occorre ricordare che il primo intervento normativo si ha con l’art. 3 del R.D. 26 febbraio 1928, n. 471, che consentiva alle parti dei singoli rapporti individuali di compromettere in arbitri le controversie individuali di lavoro. Al contrario era comminata la sanzione della nullità delle clausole dei contratti collettivi di lavoro, le quali prevedevano che le controversie derivanti dall’applicazione del contratto collettivo fossero deferite ad arbitri nominati dalle associazioni sindacali.
Successivamente a tale disciplina le parti sindacali davano vita a procedure sindacali di arbitrato irrituale, come ad esempio nell’accordo interconfederale del 7 agosto 1947 sulla costituzione e sul funzionamento delle commissioni interne e nell’accordo interconfederale del 18 ottobre 1950 sui licenziamenti individuali dei prestatori di lavoro dipendenti da imprese industriali.
In buona sostanza, in questi accordi, l’arbitrato assumeva pienamente connotazioni di irritualità ed era inserito come momento finale, in una procedura conciliativa preventiva.
Fermo restando quanto sopra detto, tuttavia va rilevato che è solo a partire dal 1940, con il nuovo codice di procedura civile che l’arbitrato in materia di lavoro conobbe una prima vera e propria regolamentazione con l’emanazione degli artt. 806[1], 807[2] e 808[3].
Ma a ben vedere, il codice aveva posto una grave limitazione dal momento che aboliva la possibilità di compromesso individuale e vietava sia la clausola compromissoria individuale sia quella intersindacale.
In realtà, nonostante tutte le restrizioni poste dal legislatore, esisteva, anche se allo stato embrionale, una struttura del processo del lavoro diversa da quella del processo comune.
E difatti pochi anni dopo si verificarono in tal senso importanti conquiste del sindacato: nel 1966[4] la legge rubricata “Norme sui licenziamenti individuali” e nel 1970 il c.d. “Statuto dei Lavoratori”[5].
In particolare con la legge 604/1966, si prevedeva per la prima volta una formula testuale di “arbitrato irrituale” (art. 7 ult. co.) che autorizzava le parti a compromettere la controversia in arbitri, quando il tentativo di conciliazione avesse avuto esito negativo.
L’art. 806 c.p.c poneva poi come limite al potere compromissorio delle parti le controversie non transigibili dall’art. 1966 c.c., indicate in quelle relative ai diritti indisponibili, cioè quei diritti del lavoratore derivanti da norme inderogabili di legge o di contratto nel loro momento genetico ovvero che non siano ancora entrati nel patrimonio individuale del lavoratore.
All’arbitrato irrituale faceva riferimento altresì l’art. 7 co. 6 della legge n. 300 del 1970 nella parte in cui prevedeva che “ferma restando la facoltà di adire l’autorità giudiziaria il lavoratore, nei venti giorni successivi all’irrogazione di una sanzione disciplinare nei suoi confronti, possa promuovere la costituzione, tramite l’ufficio provinciale del lavoro e della massima occupazione, di un collegio di conciliazione ed arbitrato”[6].
Un successivo intervento dispositivo è avvenuto con la legge 533/1973 intitolata “riforma organica del processo del lavoro” che ha interessato sia l’arbitrato rituale che quello irrituale, ed ha completamente superato il precedente divieto codicistico imposto dall’art. 806 c.p.p.
Per quanto concerne nella specie l’arbitrato irrituale, viene oltremodo prevista l’estensione dell’ambito della sua disciplina non solo ai rapporti di tipo subordinato, ma anche a tutti quelli enumerati nell’art. 409 c.p.c., cioè a quei rapporti di lavoro autonomo, purchè consistenti in una collaborazione professionale continuativa e coordinata.
Finalità del legislatore del ’73 è stata dunque quella di tipizzare la figura dell’arbitrato, ammettendolo solo se pre-organizzato dai contratti, accordi collettivi o dalle legge e regolandolo come un procedimento decisorio che poteva anche avere ad oggetto disposizioni inderogabili di legge, di contratti o accordi collettivi stessi. In ogni caso non è stato permesso a questo di assurgere in nessun modo ad equivalente giurisdizionale.
Tuttavia, correlando i principi fondamentali attinenti all’unità della giurisdizione ed il diritto di agire in giudizio con i compiti attribuiti alle organizzazioni sindacali (ex art. 39 Cost) si percepisce con ogni evidenza come le misure arbitrali si inserivano come strumenti subalterni ed inidonei a perseguire risultati sostanziali diversi rispetto ad un ricorso alla giurisdizione ordinaria[7].
L’articolo 5 co. 1 della legge n. 533 del 1973 prevedeva che l’arbitrato irrituale in materia di lavoro fosse ammesso solo se previsto dagli accordi collettivi, sempre che non venisse meno il diritto delle parti (di ciascuna delle parti) di poter alternativamente adire il giudice del lavoro.
Il secondo ed il terzo comma disponeva l’invalidità del lodo pronunciato in violazioni di disposizioni inderogabili di legge ovvero di contratti e accordi collettivi
Tutto ciò portava all’evidente conseguenza che eventuali vizi dell’arbitrato c.d. libero e del correlativo lodo ne comportavano l’annullabilità ex art. 2113 .c.,cioè non potevano essere rimessi all’arbitrato i diritti derivanti da norme inderogabili di legge o di contratti collettivi, essendo in tal caso il lodo impugnabile nel termine di sei mesi dopo la fine del rapporto di lavoro.
Stante l’incertezza sul novero dei diritti inderogabili che peraltro costituiscono il nucleo più cospicuo dei diritti in materia lavoristica , l’istituto non ha avuto nessuna diffusione[8].
L’unica esperienza interessante è stata quella dell’arbitrato dei dirigenti giacchè vertendo sulle mensilità aggiuntive quali penali per licenziamenti immotivati, sicuramente non coinvolgeva diritti inderogabili.
Ma anche tale arbitrato rimaneva, seppur non impugnabile ex art. 2113 c.c., comunque alternativo al giudizio di fronte al giudice del lavoro; si ritenne infatti che, qualora non fosse stato alternativo, sarebbe incorso nel divieto di cui all’art. 5 co. 1 legge 533 del 1973.
Una tesi che vedeva l’istituto del collegio arbitrale dei dirigenti come un sostanziale arbitraggio fu superata dalla modificazione del contratto collettivo dei dirigenti. Questo introdusse, in sostanza, il concetto di illegittiimità del licenziamento, sicchè la previsione di emolumenti che il collegio discrezionalmente attribuiva ai dirigenti licenziati, come effetto costitutivo della pronuncia, divenne invece il riconoscimento di un diritto, come tale soggetto all’alternatività dell’arbitrato rispetto al giudizio innanzi al Magistrato del lavoro[9].
2. Gli indici normativi qualificanti la disciplina dell’arbitrato irrituale
L’art. 43 comma 7del D.Lgs. 80 del 1998 ha abrogato i co. 2° e 3° dell’art. 5 della legge 533 del 1973. Ciò in ossequio all’inserimento nel nostro codice di procedura civile degli artt. 412 ter e quarter che recavano in se una disciplina dell’arbitrato già esaustiva in materia di lavoro.
Della previgente disciplina dell’arbitrato irrituale ai sensi della legge n. 533 del 1973 permaneva, a seguito della riforma, il solo primo comma dell’art. 5 il quale disponeva che nelle controversie inerenti i rapporti di cui all’art. 409 c.p.c. l’arbitrato irrituale è ammesso solo nei casi previsti dalla legge o da contratti collettivi con la variante, in quest’ultimo caso, che l’accordo deve avvenire senza pregiudizio per le parti di adire l’autorità giudiziaria.
Ed ancor più le successive modifiche intervenute con il D.Lgs. 387 del 1998 si indirizzano in tal senso con la previsione della rubrica dell’art. 412, novellata e intitolata ,“arbitrato irrituale previsto da contratti collettivi”.
Finalmente risulta evidente che la disciplina di cui agli artt. 412 bis e ter riguarda esclusivamente l’arbitrato irrituale in materia di lavoro.
Le norme su citate individuano quindi un tipo di arbitrato irrituale, che è quello previsto da contratto collettivo, che lo rendono simile all’arbitrato rituale[10].
L’accesso a tale strumento alternativo di risoluzione delle controversie è vincolato, però, da un lato, ad un requisito di carattere formale ovvero che il ricorso alla procedura arbitrale sia previsto all’interno dei contratti o accordi collettivi nazionali di lavoro e, dall’altro, ad un criterio di carattere sostanziale, secondo cui la contrattazione collettiva deve stabilire “le modalità della richiesta di devoluzione della controversia ed il termine entro il quale l’altra parte può aderirvi; la composizione del collegio arbitrale, la procedura del presidente e dei componenti le forme ed i modi di espletamento dell’eventuale istruttoria, il termine entro il quale il collegio deve emettere il lodo, i criteri per la liquidazione dei compensi per gli arbitri”. (art. 412 ter c.p.c.)
Venivano dunque previsti meccanismi di contenimento preventivo. Come appare de plano il potere di deferire la controversia ad arbitri è subordinato all’infruttuoso esperimento del tentativo di conciliazione che influenza in maniera determinante l’ingressum litis nel procedimento arbitrale.
Ma anche su tale riforma in sede dottrinale non sono mancati contrasti. Vi era chi difatti opinava che il legislatore del 1998 non si sarebbe attenuto alle norme di delega , perché avrebbe esteso il campo di applicazione delle nuove regole a tutte le controversie di lavoro ex art. 409 c.p.c
Ma a tale obiezione si può facilmente controbattere nel senso che l’art. 11 della l. 59 del 1997 persegue la finalità di attribuire al legislatore delegato il potere di dettare misure processuali e organizzative anche di carattere generale miranti a prevenire le disfunzioni del sistema dovute ad un sovraccarico del contenzioso.
Fissati questi punti centrali, vi è poi un ulteriore aspetto di notevole rilevanza sistematica attinente la natura dell’arbitrato. Le posizioni in dottrina sono sempre state piuttosto contrastanti. Vi è, difatti, chi ha sempre sostenuto la natura irrituale dell’arbitrato del lavoro in virtù della disposizione che espressamente lo qualifica come tale.
Questa formulazione si è però affermata recentemente posto che in passato la previsione dell’impugnabilità per nullità del lodo innanzi alla Corte di Appello e l’esecutività conseguente al deposito dinanzi al giudice faceva tendere per la natura rituale.
La piena irritualità è stata invece sostenuta[11] sulla base di tre argomentazioni. La prima attiene all’art. 43 del D.Lgs. 31 marzo 1998, co. 7 che dispone l’abrogazione dell’art. 5 co. 2° e 3° della legge 11 agosto 1973, n. 533. Inoltre lo stesso art. 19 della legge 387 del 1998 è intervenuto intitolando la norma de qua all’arbitrato irrituale previsto dai contratti collettivi. Infine va detto che l’art. 412 ter è una sorta di cornice poiché preordina le modalità con cui i contratti collettivi dovranno regolamentare le procedure arbitrali
Dello stesso avviso è chi[12] ritiene che il richiamo alla conciliazione obbligatoria tende a rendere omogenea e vincolante la fase della conciliazione sia che la causa venga decisa dal giudice ordinario sia che questa venga posta in essere dal collegio arbitrale.
Ebbene, questa impostazione conduce a due considerazioni: in primo luogo che nelle more della sospensione del procedimento arbitrale non decorrono i tempi per l’emanazione del lodo; in seconda analisi l’inosservanza di tale precetto comporta la nullità del lodo[13].
La rilevanza delle innovazioni apportate dalla riforma del 1998 conducono ad una sorta di rivitalizzazione dell’istituto in commento anche se, malgrado tutto, permangono significative limitazioni alla diffusione di tale strumento. Ed infatti, la possibilità di ricorrervi era condizionata alla previsione di accordi o contratti collettivi di lavoro, inoltre le citate fonti devono specificatamente regolare tutti gli aspetti procedurali.
In sostanza si può affermare, quindi, che il D.Lgs. del 1998 non ha realizzato quell’intento deflativo del contenzioso giudiziario.
3. Il D.Lgs. 2 febbraio 2006 n. 40 e le recenti modifiche in tema di arbitrato irrituale
Il D.Lgs. n. 40 del 2 febbraio 2006 che ha riformato gli artt. 806-807-808 c.p.c ha mantenuto la distinzione tra arbitrato rituale ed irrituale se e in quanto non derogata dalla disciplina speciale.
In particolare l’art. 806 c.p.c[14] , così come novellato, prevede la compromettibilità delle controversie che non abbiano per oggetto diritti indisponibili ed effettua un richiamo integrale all’art. 409 c.p.c.
Ne consegue che le controversie sottratte al giudice del lavoro devono ritenersi non comprese nel novero delle controversia arbitrabili.
La norma in questione prevede altresì che l’arbitrabilità delle controversie in materia lavoristica è possibile solo se ed in quanto l’arbitrato sia previsto dalla legge, nei contratti collettivi di lavoro o negli accordi collettivi di lavoro.
In ragione della peculiarità degli interessi in gioco, viene eliminata pertanto ogni possibile contrattazione privatistica.
Tutto ciò porta all’evidente considerazione che, se da una parte il legislatore ha esteso l’ambito di applicazione dell’arbitrato, dall’altra ha posto notevoli cautele e limitazioni che non sempre rendono agevole l’utilizzazione di questo strumento[15].
Altro aspetto degno di nota è l’eliminazione nel novellato art. 806 c.p.c della previsione relativa alla facoltà di adire l’autorità giudiziaria.
Una contestazione può essere mossa al fatto che la riforma non ha previsto nulla riguardo a specifiche condizioni per devolvere in arbitrato controversie di lavoro subordinato o parasubordinato, ma ammette, comunque, che altre leggi pongano ulteriori limiti all’arbitrabilità
Altro dubbio interessa la nuova previsione contenuta nell’art. 806 c.p.c 2° co. che ammette le parti all’arbitrato sia attraverso clausole compromissorie sia per mezzo di compromesso.
Ed ancora, come previsto dall’art. 808 c.p.c., il requisito della forma scritta è richiesto per tutti i tipi di convenzione d’arbitrato. Orbene la semplice previsione in sede di accordo collettivo non è più sufficiente ad integrare una valida convenzione arbitrale.
Allo stato degli atti, dunque, ai fini dell’applicazione dell’istituto dell’arbitrato sia rituale che irrituale è necessaria, oltre alla previsione generale di legge od accordo collettivo, una convenzione arbitrale scritta.
Da questa considerazione ne discende che le norme in materia di arbitrato, pertanto, trovano sempre applicazione in un patto compromissorio comunque denominato, salva la diversa ed espressa volontà delle parti di derogare alla disciplina legale. Da un’analisi sistematica sembra quasi si possa sostenere che l’arbitrato irrituale sia destinato a diventare una variante dell’arbitrato rituale[16]. In realtà, c’è anche chi non condivide tale formulazione sul presupposto che un’eccessiva ritualizzazione dell’arbitrato irrituale porterebbe all’estrema conseguenza dell’impossibilità di applicare al lodo il regime dei negozi.[17] Sempre per quanto attiene all’arbitrato irrituale occorre dar conto dell’art. 808 ter c.p.c il cui testo dispone che le parti, se intendono utilizzare l’istituto dell’arbitrato irrituale, devono prevedere già nell’accordo compromissorio che la controversia sia definita dagli arbitri mediante determinazione contrattuale, derogando specificatamente a quanto previsto dall’art. 824 bis c.p.c.[18]
Ciò comporta che, se manca un preciso riferimento al carattere negoziale, scatta una presunzione in favore dell’arbitrato rituale.
Alla luce delle considerazioni suesposte occorre poi verificare il coordinamento tra la disciplina generale e quella speciale, per il quale l’art. 808 ter è lex generalis e gli artt. 412 ter e quater sono lex specialis.
Detto ciò è stato ritenuto che la disciplina riferita alle controversie di lavoro non sia automaticamente abrogata per incompatibilità, ma debba essere correlata con la nuova regolamentazione generale prevista dall’art. 808 ter, la quale si applica anche a tali controversie, ove non diversamente disciplinato dall’art. 412 ter e quater c.p.p.c
4. Conclusioni
L’intento della riforma del 2006 è stato dunque consentire un maggiore sviluppo dell’arbitrato nelle controversie di lavoro e, quindi, attuare quell’intento deflativo del contenzioso giudiziario che rappresenta il fine a cui tende il Legislatore.
In realtà, però, l’esperienza arbitrale nel nostro Paese manifesta un conflitto presente tra due diverse concezioni delle parti sociali. Un primo orientamento, dettato da una profonda sfiducia nei confronti dello Stato come garante della tutela dei diritti dei lavoratori, tende a potenziare la risoluzione di controversie di lavoro mediante accordi raggiunti direttamente dalle parti (conciliazione) o mediante l’investitura di un soggetto terzo che risolva il conflitto stesso (arbitrato); dall’altra parte, invece, c’è chi sostiene che gli interessi del lavoratore possano essere garantiti solo ed esclusivamente dallo Stato che non può in nessun modo abdicare a quelle che sono le sue prerogative. Tale conflitto di opinioni non ha certo giovato al ricorso dell’arbitrato come strumento di risoluzione delle controversie. In realtà, in tal senso, la riforma del 2006 contiene elementi che possono stimolare e garantire l’uso di tale forma di risoluzione ma, chiaramente, tutto dipenderà da come le linee della riforma stessa saranno recepite dalla contrattazione collettiva e da quanto si renderà vantaggioso l’utilizzo dello strumento arbitrale. Questo, infatti, per rispondere alle esigenze di tutela dei lavoratori deve offrire soluzioni veloci, semplificate e poco onerose.
[1] Art. 806 Compromesso: “ Le parti possono far decidere da arbitri le controversie tra di loro insorte, tranne quelle previste negli artt. 409 e 442, quelle che riguardano questioni di stato e di separazione personale tra coniugi e le altre che non possono formare oggetto di transazione”.
[2] Art. 807 Forma del compromesso: “Il compromesso deve, a pena di nullità, essere fatto per iscritto e determinare l’oggetto della controversia. Al compromesso si applicano le disposizioni che regolano la validità dei contratti eccedenti l’ordinaria amministrazione”.
[3] Art. 808 Clausola compromissoria: “Le parti, nel contratto che stipulano o in un atto successivo, possono stabilire che le controversie nascenti dal medesimo siano decise da arbitri, purchè si tratti di controversie che possono formare oggetto di compromesso. La clausola compromissoria deve risultare da atto scritto a pena di nullità. Le controversie di cui all’art. 409 possono essere decise da arbitri solo se ciò sia previsto nel contratti e accordi collettivi di lavoro purchè ciò avvenga, a pena di nullità, senza pregiudizio della facoltà delle parti di adire l’autorità giudiziaria. La clausola compromissoria è altresì nulla ove autorizzi gli arbitri a pronunciare secondo equità ovvero dichiari il lodo non impugnabile. La sentenza arbitrale è soggetta all’impugnazione per le nullità previste dall’art. 829 ed anche per violazione e falsa applicazione dei contratti e accordi collettivi”.
[4] L. 15 luglio 1966, n. 604
[5] L. 20 maggio 1970, n. 300
[6]Sull’argomento interessanti sono le posizioni prospettate in dottrina tra chi ritiene di poter qualificare come rituale questa forma di arbitrato (cfr. G. Pera, Le controversie in tema di sanzioni disciplinari e di licenziamento secondo lo Statuto dei Lavoratori, in Riv. trim. dir. proc. Civ., 1971, p. 1284) o di doverla segnalare come fattispecie ai confini tra ritualità ed irritualità ( cfr. M. Grandi, La conciliazione e gli arbitrati nella legge di riforma del processo del lavoro, in Riv. dir. lav. 1974, I, p.393). Contra L. Montuschi in Ghezzi, Mancini, Montuschi, Romagnoli, Statuto dei diritti dei lavoratori in Commentario del codice civile, a cura di Scialoja e Branca, Bologna-Roma 1979, p. 133 ss.; A. Spagnolo Vigorita e Ferraro, in Commentario allo statuto dei diritti dei lavoratori, diretto da Prosperetti U., Milano 1975, p. 197 ss. Gli Autori sostengono che la fattispecie è inscrivibile nel modello dell’arbitrato del lavoro irrituale, ritenendo che il co. 6 dell’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori non sembra aver voluto mutare il principio fondamentale del diritto del lavoro consistente nel rifiuto legislativo dell’arbitrato rituale.
[7] Sul punto cfr. R. Flammia, voce Arbitrato e conciliazione in materia di lavoro, in Enciclopedia Giuridica Treccani.
[8] Cfr. sul punto C. Mandrioli, Il processo di cognizione, Torino 2007.
[9] Sul punto v. in particolare G. Prosperetti, Il lodo arbitrale del contratto dei dirigenti industriali, in Temi Romana, 1978, p. 127.
[10] A. Pizzoferrato, Giustizia privata del lavoro (conciliazione e arbitrato), Padova 2003, p. 118.
[11] F. Carinci e R. De Luca, Diritto del Lavoro: Il rapporto di lavoro subordinato, Torino 2003.
[12] B. Capponi, L’arbitrato in materia di lavoro dopo la riforma del 1998, Torino 2000.
[13] P. Sandulli, Riflessioni in materia di arbitrato nei rapporti di lavoro subordinato, in Lavoro e previdenza oggi, 2003, fasc. 10, pagg. 1515-1532.
[14] L’articolo rubricato “controversie arbitrabili” dispone: “Le parti possono far decidere da arbitri le controversie tra di loro insorte che non abbiano ad oggetto diritti indisponibili, salvo divieto espresso di legge. Le controversie di cui all’art. 409 c.p.c. possono essere decise da arbitri solo se previsto dalla legge o nei contratti o accordi collettivi di lavoro”.
[15] Sul punto cfr. F. Rotondi, Controversie di lavoro: il nuovo arbitrato, in Diritto&Pratica del lavoro, 2006, 16, p. 908.
[16] Come sostenuto dalla dottrina si è affermato che si è in presenza di una sorta di estinzione per incorporazione dell’arbitrato irrituale in quello rituale, avendo il primo esaurito la sua funzione ed essendo quindi venute meno le ragioni del distinguere. Cfr Monteleone G., Diritto processuale civile, Padova 2004, p. 821 ss.; G. Ruffini, Sulla distinzione tra arbitrato rituale ed irrituale, in Riv. Arbitrato 2002, p. 750 ss. Non a caso l’autore ritiene che la norma attribuisca al legislatore delegato poteri che vanno nel senso dell’unificazione dell’arbitrato, tutto disciplinato (indipendentemente dalla qualificazione del patto compromissorio come rituale o irrituale) dalla previsione del codice.
[17] Verde, Lineamenti di diritto dell’arbitrato, Torino 2006, p. 36 ss.; A. Carbone, Superata la distinzione tra arbitrato rituale e irrituale? In Corr. Giur. 1994, p. 1326 ss.; Ladusa, Arbitrato rituale e libero: ragioni del distinguere, in Riv. arb. 1998, p. 211 ss.
[18] Cfr. G. Monteleone, L’ arbitrato, l’esecuzione forzata, i procedimenti speciali, Padova 2007.
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