Regolazione e legalità nella disciplina bancaria e finanziaria
- Profilo storico della legislazione bancaria
Il R.D.L. 12 marzo 1936, n. 375, convertito in Legge 7 marzo 1938, n. 141, in cui venivano dettate le disposizioni per la difesa del risparmio e per la disciplina della funzione creditizia, e il D.L. 17 luglio 1937, n. 1400, convertito in Legge 7 aprile 1938, n. 636[1] costituiscono un corpo organico di norme che comunemente viene definito legge bancaria che con gli interventi legislativi avvenuti a partire dal 1985 ha costituito la struttura portante dell’ordinamento bancario italiano.
Nella ricostruzione del nucleo essenziale della legge bancaria, va tenuto conto della realtà politica ed economica del Paese in quel periodo, nonché della struttura e della fisionomia che il sistema bancario era venuto assumendo in quegli anni.
Va inoltre evidenziato che il regime stava avviandosi verso un modello di organizzazione dell’economia caratterizzato da un forte accentramento che comportava una piena disponibilità delle autorità governative per far leva sul credito. In questo contesto di costruzione di Stato corporativo si inseriva la nozione di impresa conforme alla Carta del lavoro, in cui veniva ripudiata la teoria dell’impresa-diritto e veniva adottata la concezione (da applicarsi anche alle imprese bancarie[2]) dell’impresa-funzione che era sottoposta al potere di indirizzo dell’autorità governativa[3].
In molti Paesi si andava concretizzando questa tendenza come risposta alla grande crisi in atto in quegli anni che accentuò l’intervento dello Stato nell’economia imponendo vincoli e controlli sull’attività bancaria[4]. In Italia questo fenomeno si manifestò con la pubblicizzazione del settore con il relativo accrescimento delle banche pubbliche e del controllo pubblico.
Con la legge bancaria del 1936 il mercato del credito assunse le caratteristiche di un oligopolio amministrato, nell’ambito del quale la concorrenza fra le imprese poteva essere ridotta ad un ruolo marginale. Inoltre, la legge bancaria del 1936, consentiva al potere esecutivo azioni dirette al raggiungimento di scopi di politica economica ulteriori attraverso interventi selettivi sulle scelte di impresa.
Contribuivano a rendere chiuso e segmentato il mercato del credito anche la forte specializzazione delle imprese bancarie e la profonda differenza che caratterizzava gli statuti legislativi degli enti che esercitavano tale attività.
La più importante forma di specializzazione bancaria fissata dal legislatore del 1936-1938 era rappresentata dalla distinzione fra azienda di credito e istituti di credito che la legge bancaria stabiliva dettando due corpi di norme separate rispettivamente per i “raccoglitori di risparmi a breve termine” e per “la raccolta del risparmio a medio e lungo termine”[5]. La diversità di disciplina tra istituti ed aziende è stata offuscata dalle norme dettate dalla Legge 10 giugno 1940, n. 933 che estese agli istituti la disciplina dell’amministrazione straordinaria e dal D.Lgs.c.p.s. 23 agosto 1946, n. 370, che dichiarò applicabili a tutti gli enti o istituti, raccoglitori di risparmio a medio e lungo termine, le norme dettate per le aziende di credito.
Successivamente l’art. 14 della legge 10 febbraio 1981, n. 23, rimuoverà questa equiparazione tra aziende ed istituti esonerandoli dalla soggezione alle norme che disciplinavano le riserve obbligatorie, il vincolo di portafoglio, i massimali dell’erogazione del credito, le partecipazioni bancarie e gli investimenti immobiliari (lunghezza delle operazioni di raccolta)[6]. La legge bancaria, inoltre, conservava in vita le leggi speciali che negli ultimi anni precedenti avevano disciplinato particolari forme di finanziamento[7] il cui esercizio era per lo più riservato a particolari categorie di istituti, quando non attribuito in esclusiva ad un singolo istituto.
Il R.D. 9 agosto 1943, n. 721, soppresse il Comitato corporativo centrale, privando la struttura di governo del settore del collegamento originariamente stabilito con un organo che avrebbe dovuto indicare le direttive di politica economica generale alle quali attenersi nell’esercizio della difesa del risparmio e nella disciplina della funzione creditizia.
Successivamente, il D.Lgs.Lgt. 14 settembre 1944, n. 226, soppresse l’Ispettorato per la difesa del risparmio e per l’esercizio del credito e le relative facoltà ed attribuzioni passarono al Ministero per il Tesoro, congiuntamente ai poteri e alle attribuzioni precedentemente di competenza del Comitato dei Ministri, al Capo del Governo e al Capo dell’Ispettorato. Dall’altra parte la vigilanza sulle aziende di credito venne delegata ex lege alla Banca d’Italia, fatta salva la facoltà del Ministero di “disporre, nei casi in cui lo ritenesse opportuno, dirette ispezioni avvalendosi del personale proprio”.
Il D.Lgs.c.p.s. 17 luglio 1947, n. 691, istituì un Comitato interministeriale per il credito e il risparmio al quale veniva attribuita “l’alta vigilanza in materia di tutela del risparmio, in materia di esercizio della funzione creditizia e in materia valutaria”, mentre le funzioni dell’Ispettorato passavano alla Banca d’Italia che iniziò ad esercitare l’attività di vigilanza come titolare della relativa funzione[8].
L’interpretazione liberista della legge bancaria trovò numerose importanti modifiche nei rapporti esistenti fra Banca d’Italia e Tesoro nell’organizzazione del mercato dei cambi. Fra queste va ricordato il D.Lgs. 7 maggio 1948, n. 544 che pose un limite alla facoltà del Tesoro di ottenere anticipazioni straordinarie della Banca d’Italia precisando che queste avrebbero potuto essere concesse solo se debitamente autorizzate dal Parlamento. Un’altra modifica riguarda l’alta vigilanza del settore che veniva attribuita al Comitato interministeriale per il credito e il risparmio mentre le funzioni di controllo e di “contraente necessario” del commercio nelle valute venivano affidate all’Ufficio italiano dei cambi[9] (D.Lgs.Lgt. 17 maggio 1945, n. 331).
Dagli anni cinquanta agli anni settanta non si ebbero notevoli modifiche, l’unica modifica legislativa di rilevanza sistematica è quella dettata dal D.P.R. 30 marzo 1968, n. 626 che, nel quadro del riordino generale dei Comitati interministeriali, creò un più stretto collegamento fra gli stessi e gli organi della programmazione economica, stabilendo che, nell’esercizio delle proprie attribuzioni, il Comitato interministeriale per il credito e il risparmio doveva attenersi “alle direttive generali del Comitato interministeriale per la programmazione economica per la ripartizione globale dei flussi monetari tra le varie destinazioni, in conformità alle linee di sviluppo fissate dal programma economico nazionale”.
Il momento di svolta verso il nuovo ordinamento bancario è individuato nell’emanazione del D.P.R. 27 giugno 1985, n. 350 che dava concreta attuazione alla prima direttiva comunitaria in materia creditizia[10]. Il provvedimento legislativo conserva un potere autorizzativi discrezionale sull’apertura di nuove succursali bancarie che è stato abrogato solo con l’attuazione della direttiva comunitaria 89/646 del 15 dicembre 1989 che è stata recepita nel D.Lgs. 14 dicembre 1992, n. 481[11].
Di notevole significato sistematico fu la modifica apportata dall’art. 11 del D.P.R. 350/1985 al dettato normativo dell’art. 34 della legge bancaria in cui veniva esclusa la possibilità per l’autorità di vigilanza di “chiudere” una filiale bancaria per realizzare “una migliore distribuzione territoriale delle aziende di credito”.
La riforma della banca pubblica, da ente pubblico economico a società per azioni a controllo pubblico, ebbe un significato operativo piuttosto consistente e mise in luce la necessità di procedere oltre sulla strada intrapresa. Questo obiettivo fu realizzato con l’emanazione delle Legge 30 luglio 1990, n. 218[12] e del D.Lgs. 20 novembre 1990, n. 356, che hanno permesso a tutti gli enti creditizi pubblici di adottare la forma della società per azioni e, quindi, di eliminare la condizione di inferiorità istituzionale nella quale gli stessi si trovavano per essere costretti nella forma dell’ente pubblico imprenditore di natura non corporativa ma fondazionale. L’art. 18 del D.Lgs. 356/90, consentì agli istituti di credito di natura pubblica, di abbandonare la monosettorialità permettendo loro di estendere la propria operatività a tutto l’ambito del credito a medio e lungo termine[13].
Nell’opera di liberazione che è stata accompagnata da una non meno importante opera di nuova regolamentazione dell’attività degli enti creditizi, devono collocarsi le norme dettate dalla Legge 10 ottobre 1990, n. 287, sulle partecipazioni negli enti creditizi e quelle sulla disciplina del gruppo bancario dettate dal D.Lgs. 356/90 (in attuazione dell’art. 5 della Legge 218/90)[14].
Il formarsi di gruppi bancari polifunzionali, che vedevano al vertice un ente creditizio, pose l’esigenza di introdurre una qualche forma di controllo sulle società partecipate[15] allo scopo di impedire che la crisi di queste ultime ponesse in pericolo la stabilità dello stesso ente creditizio[16].
Per un lungo periodo si era ipotizzato di dettare tanti statuti speciali dei singoli intermediari quante erano le diverse attività chela pratica poneva via via in evidenza. L’esito negativo di questo indirizzo venne affrontato e risolto dal D.L. 3 maggio 1991, n. 143 convertito in Legge 5 luglio 1991, n. 197 che attribuiva alla Banca d’Italia una vigilanza prudenziale sulle società che avevano per oggetto prevalentemente le attività di concessione di finanziamenti sotto qualsiasi forma, assunzioni in partecipazione, intermediazione in cambi, servizi di incasso, pagamento e trasferimento di fondi sempreché tali attività venissero esercitate nei confronti del pubblico.
L’emanazione del D.Lgs. 1 settembre 1993, n. 385 (Testo unico delle norme in materia creditizia e finanziaria) attua la riforma della materia limitandosi a riunire nell’ambito di un solo testo normativo le disposizioni dettate in precedenza. Il T.U. ha reso più evidenti alcuni principi generali che già potevano ricavarsi dall’ordinamento vigente, fissando così in modo sicureo alcuni cardini del nuovo ordinamento bancario e ha cercato di estendere il proprio intervento al di là del sistema bancario in sneso proprio, allo scopo di introdurre elementi di coerenza in uno spazio il più possibile ampio dell’intero ordinamento del mercato finanziario. Perciò il T.U. detta una disciplina dei soggetti operanti nel settore finanziario[17], introduce una norma di principio in materia di servizi di pagamento stabilendo che la Banca d’Italia promuove il regolare funzionamento dei sistemi di pagamento e detta una disciplina per l’emissione dei valori mobiliari[18].
- Evoluzione dei poteri normativi dell’Autorità
La regolazione è un’attività volta a garantire il corretto funzionamento di un determinato settore. Tuttavia ci si è chiesti qual è la natura dell’attività di regolazione? Senz’altro si può affermare che essa si presta ad essere qualificata in termini di funzione (dal momento che si tratta di un’attività rilevante per il diritto, il cui scopo è la garanzia del corretto funzionamento di un settore attraverso la predisposizione delle regole del gioco[19]).
In relazione poi alla qualificazione della stessa quale funzione amministrativa, quest’ultima prospettazione non appare così agevole. Se è vero infatti che sono presenti nell’attività di regolazione tanto il criterio soggettivo quanto la natura dell’interesse individuale tutelato tuttavia questi due requisiti non appaiono di per sé soli sufficienti a sostenere le obiezioni che si concentrano sui profili della regolazione nella sua complessità.
Infatti la complessità delle regolazione va letta in relazione all’oggetto della regolazione che, è composto di diversi momenti, ovvero di diverse attività, riconducibili ai tre poteri dello Stato.
Ed invero, la problematicità della questione si coglie se si pone l’attenzione su una funzione che per sua stessa natura implica l’attribuzione alla medesima organizzazione di una molteplicità di poteri in quanto nella espressa ipotesi si assiste alla dislocazione tra diversi organi della medesima organizzazione tanto di potestà normative, quanto di potestà esecutive e, di soluzione dei conflitti. A parere di parte della dottrina[20], questa possibilità rappresenta una vera e propria anomalia dal momento che la stessa complessità della funzione, risulta incompatibile con il principio della separazione dei poteri, con l’evidente conseguenza che non è possibile riconoscere pertanto natura amministrativa all’attività di regolazione[21].
La logica sottesa a quest’orientamento risiede nella considerazione che se la tecnica di legittimazione soggettiva può essere sufficiente per giustificare l’attribuzione di un determinato potere ad una singola unità della organizzazione, questa non è soddisfacente per spiegare l’attribuzione ad una medesima organizzazione di una funzione complessiva le cui componenti sono riconducibili alle diverse funzioni dello Stato.
Per tali ragioni è necessario verificare se all’attività di regolazione corrisponda su un piano oggettivo un’attività che di fatto può essere qualificata in termini di attività amministrativa.
Il nodo problematico si incentra quindi sulla complessità delle funzioni che fa apparire il modello organizzativo delle amministrazioni indipendenti anomale. Ebbene, il richiamo alle organizzazioni va riferito al profilo strutturale della stessa, nella specie, all’esigenza che esso sia funzionale al raggiungimento dello scopo per il quale la stessa organizzazione è stata creata. Seguendo lo schema tracciato[22] ne deriva che sarà possibile verificare entro quali termini è consentito ravvisare un’analoga connessione tra la funzione per il cui perseguimento l’organizzazione è stata creata, ed i poteri che a quest’ultima sono attribuiti a tal fine. La conseguenza del ragionamento seguito è che tanto la diversa strutturale, quanto la connessa titolarità dei poteri da parte della stessa organizzazione sono condizionate dai fini per i quali la stessa organizzazione è stata creata.
La connessione tra organizzazione e funzione consente pertanto di comprendere la coessenzialità delle attribuzioni dei poteri normativi alle autorità preposte alla regolazione di un settore.
Poteri normativi che si manifestano attraverso l’emanazione di atti diversi, e dunque non solo di regolamenti. Sono perciò espressione della potestà normativa delle amministrazioni quegli atti, che pur provenendo dal complesso delle pubbliche amministrazioni, si differenziano rispetto a quegli atti che tradizionalmente vengono indicati come atti amministrativi, proprio in ragione del loro contenuto che tale da disciplinare il sistema in cui operano[23]. Peraltro gli aspetti animosamente discussi in dottrina in questi anni non attengono solo l’aspetto formale, connesso alla stessa provenienza degli atti, ma anche la loro materiale individuazione nel novero dei provvedimenti emanati da queste amministrazioni, nonché la loro qualificazione e collocazione all’interno del sistema delle fonti. Altra questione non di poco conto attiene la compatibilità della regolazione con il principio di separazione dei poteri[24] ovvero la compatibilità con detto principio della attribuzione di potestà normative alle amministrazioni indipendenti. Ed invero, detta compatibilità è stata oggetto di una vivace dibattito tesi ad individuare i contenuti e la portata di detto principio.
Sul punto, infatti, taluni[25] hanno espresso l’opinione che vede quale conseguenza della rigida applicazione del principio di separazione dei poteri, l’impossibilità di procedere ad un’organizzazione dello Stato che sia funzionale alla realtà sociale e politica di un determinato ordinamento in un particolare momento storico. Contrariamente invece vi era chi[26] aderendo al superamento dell’impostazione formale del principio della separazione dei poteri ha consentito, diversa qualificazione dello stesso concetto di funzione, intesa come attività globalmente rilevante, predeterminata nel contenuto e nello scopo, e vertente su un certo oggetto, con la conseguenza che nessuna manifestazione può sfuggire a tale manifestazione e che il contenuto, l’oggetto, lo scopo dell’attività non possono mai essere il frutto o la scelta di una risoluzione individuale o che non sia oggettivamente prefigurata[27].
Aderendo a detta tesi ne consegue una definizione di funzione come una serie di attività legate l’una all’altra in un processo di manico e unificate dalla loro comune partecipazione alla vita di un organismo. Una serie di attività beninteso che sono suscettibili di molteplici qualificazioni e possono portare a qualificare come funzioni attività che non sono tali[28].
Alla luce delle considerazioni suesposte la titolarità dei poteri normativi riconosciuti in capo ad una amministrazione, o alle autorità amministrative indipendenti risulta compatibile con il principio della separazione dei poteri.
In dottrina si era posto il problema tuttavia a quali gruppi potesse essere riconosciuto carattere ordinamentale, e la denominazione di ordinamenti settoriali coniata da Santi Romano sembrò la più aderente al fenomeno da spiegare.
Tant’è vero che fu successivamente seguita anche da Zanobini giacché sembrava perfettamente inquadrare il problema degli ordinamenti pubblici dei mestieri e delle professioni aventi propri organi rappresentativi con poteri normativi, oltrechè ordinatori.
Ed ancora parte della dottrina[29] già nel 1939 riteneva che l’ordinamento generale del credito potesse essere inteso come ordinamento sezionale giacché “in detto settore era presente un gruppo concluso di figure soggettive, ben determinabili, l’esistenza di un’organizzazione del gruppo e soprattutto l’esistenza di una normativa particolare promanante dall’Autorità”. Ciò nondimeno detta prospettazione non venne pacificamente accettata. Sulla questione vi era anche chi[30] riteneva che, l’ordinamento sezionale era contraddistinto dalla presenza di un interesse pubblico afferente direttamente l’ordinamento nel suo insieme, e quindi l’attività di ogni soggetto dell’ordinamento diviene funzione in senso proprio. Questa concezione postula quindi che l’ordinamento sezionale è quello in cui l’intero elemento plurisoggettività è costituito da soggetti che sono ciascuno titolari di una funzione.
Al contrario non è sezionale un ordinamento composto di soggetti omogenei svolgenti un’attività economica uguale od in ogni caso della stessa classe.
Quest’ultima ricostruzione non appare però condivisibile come correttamente sostenuto da Giannini in quanto se si accetta che ogni gruppo organizzato, il quale possiede una propria normativa è ordinamento giuridico, ne deriva che l’ordinamento bancario, nel senso di gruppo composto dalle aziende di credito, costituisce ordinamento giuridico, avendo propria organizzazione conclusa e propria normazione. Orbene, ne risulta che l’ordinamento sezionale è una denominazione attribuita “ad una delle varie specie di gruppi che gli Stati organizzano direttamente tra esercenti attività economiche le quali presentano dei profili più o meno marcati di interesse pubblico”[31]. Concludendo va dunque precisato che gli ordinamenti sezionali era nata per indicare la categoria di ordinamenti creata da imprese e da imprenditori che, per leggi dello Stato, venivano riunite sotto uno o più organi statali dotati di poteri normativi. Chiaramente in ogni Paese detti ordinamenti acquisiscono caratteristiche differenti, ed infatti, si và da quelli nei quali gli organi reggenti sono meri organi di controllo, a quelli nei quali gli organi reggenti hanno penetranti poteri normativi.
In quest’ottica è stato quindi affermato che l’ordinamento del credito è un ordinamento sezionale della specie più semplice, in quanto l’Autorità reggente ha poteri normativi, di controllo e, dispositivi[32].
In tale quadro, il sistema bancario era stato ritenuto affidatario di un servizio pubblico e le banche venivano considerate “impresa funzione”; la ricostruzione teorica portava quindi a concepire l’esistenza di un “ordinamento sezionale” in cui le autorità erano poste al vertice di un apparato pubblico basato su meccanismi di normazione interna.
La ricostruzione dell’ordinamento bancario come ordinamento sezionale è stato altresì messo in discussione in ragione del carattere di “atti normativi interni” degli atti generali emanati dalle autorità creditizie[33].Sulla questione va precisato che il riconoscimento del carattere normativo, ad alcune disposizioni emanate ad esempio dalla Banca d’Italia non poneva problemi se quest’ultime fossero previste dalla legge. Ne tanto meno apparivano illegittime dette disposizioni qualora si ponessero come fonti “indipendenti” non essendo presente nella legge l’indicazione di criteri e finalità ne i modi per l’esercizio del potere normativo, poiché detti criteri andavano ricavati dai principi del sistema, e soprattutto dalle componenti il principio dell’equilibrio normativo tutelato dalla Costituzione[34].
In passato, quindi le autorizzazioni amministrative accompagnavano l’attività delle banche dalla fase della loro costituzione fino ad ogni atto gestionale significativo, anche riguardante una singola posizione di credito (cd. “vigilanza strutturale”).
Problemi di non poco conto si riscontravano invece quando venivano emanate le c.d. istruzioni, le quali avevano la sostanza di norme giuridiche, anche nelle materie nelle quali ad esempio alla Banca d’Italia il potere normativo non era attribuito.
Ebbene, a prescindere dall’ambito di applicazione del principio di legalità nel settore del credito, è stati affermato in dottrina che non si può ammettere che un potere che incide sull’attività economica privata possa essere esercitato in assenza di detto fondamento.
La generale revisione della regolamentazione ha comportato, dunque, la costruzione di una disciplina di supervisione esterna alle decisioni imprenditoriali. Coerentemente, le regole previste per le imprese bancarie e finanziarie, accentuanoprincìpi e previsioni tipiche del diritto commerciale.
Dalle argomentazioni suesposte si può trarre la conclusione che l’esperienza della Banca d’Italia precorre i problemi posti dalle attribuzioni di poteri alle autorità indipendenti[35].
- La disciplina costituzionale dell’impresa: gli aspetti problematici del principio di legalità nel T.U.B. e nel T.U.F.
L’attività bancaria così come stabilito dall’art. 10, co. 1 T.U. del 1993 definisce l’attività bancaria come “la raccolta di risparmio tra il pubblico e l’esercizio del credito”. Ed invero, l’attuale nozione di attività bancaria (posto che precedentemente non esisteva una definizione in tal senso) coincide con quella adottata dalle direttive comunitarie di armonizzazione degli ordinamenti nazionali[36] che peraltro danno anche una definizione di ente creditizio. Al contrario il Testo Unico bancario non definisce l’ente creditizio ma individua la nozione di attività bancaria e precisa che l’esercizio della stessa è riservato alle banche. Per quanto attiene gli elementi costitutivi dell’attività bancaria, già l’art. 1 della legge bancaria indicava fra questi la raccolta del risparmio tra il pubblico sotto ogni forma. Sul punto la dottrina era arrivata però alla conclusione che “sotto ogni forma” dovessero ricomprendersi soltanto le forme di raccolta del denaro che rendono la banca debitrice della relativa restituzione. Tuttavia questa conclusione non trovava un supporto esplicito nella legge tant’è che veniva giustificata rilevando che la raccolta del risparmio da parte degli enti creditizi si realizzava in fatto attraverso contratti di credito. Detta conclusione ha trovato un puntuale riscontro nella direttiva comunitaria 12 dicembre 1977, n. 780[37], riconfermata dalla direttiva 89/646. il Testo Unico all’art. 11 ha accolto la stessa soluzione. Ma come si può qualificare l’attività bancaria? Sul punto la dottrina è pacifica nel considerarla come impresa e che debba considerarsi imprenditore commerciale chi esercita tale attività. A tal proposito l’art. 2195 c.c. nel momento in cui dichiara soggetti all’obbligo di iscrizione nel registro delle imprese gli imprenditori che esercitano un’attività, elimina ogni possibile dubbio in proposito. Ciò nondimeno il Testo unico ha riaffermato
all’art. 10 co. 1 che l’attività bancaria ha carattere d’impresa.
Quet’ultima peraltro senza alcun dubbio costituisce espressione di iniziativa economica ed integra la nozione di attività economica prevista dall’art. 41 Cost. nelle sue diverse situazioni[38].
Ne deriva che anche l’impresa bancaria gode delle garanzie costituzionali previste per ogni altra attività economica, ciò significa che questa è libera nella determinazione dei fini da raggiungere e dei modi nei quali esprimersi e solo la legge può determinare i programmi e i controlli opportuni perché la stessa possa essere indirizzata e coordinata ai fini sociali[39].Tuttavia questa visione non è così pacifica, perché secondo parte della dottrina[40] di tale garanzia l’impresa ne sarebbe stata spogliata. Infatti l’art. 47 Cost. quando ha ritenuto costituzionalmente doverosi la tutela del risparmio e la disciplina, il coordinamento e il controllo del credito, avrebbe sottratto l’attività bancaria alla garanzia della riserva di legge relativa stabilità dall’art. 41 Cost., consentendone il controllo e l’indirizzo anche attraverso provvedimenti amministrativi.
Questa tesi tuttavia non è unanimemente accolta in dottrina. Difatti la circostanza per cui la Costituzione consideri doveroso il controllo di un’attività economica non implica necessariamente che le relative limitazioni possano essere introdotte al di fuori delle garanzie previste dall’art. 41 Cost. Ebbene, dall’art. 47 Cost. quindi non si può trarre alcun elemento per individuare la fonte dei vincoli imponibili all’impresa bancaria, infatti l’art. 47 Cost. prende in considerazione i fenomeni del risparmio e del credito a livello macroeconomico e non disciplina le imprese che raccolgono il risparmio ed erogano il credito[41].
Quindi gli artt. 41 e 47 Cost. si collocano su piani nettamente distinti. La convinzione per cui anche all’attività bancaria si applica il principio della riserva di legge fissato dall’art. 41 co. 3 Cost., assume particolare rilievo.
Tale assunto ha comportato per parte della dottrina l’affermazione per cui la legge bancaria consentisse di imporre alle aziende di credito solo i vincoli che fossero espressione di regole tecniche dirette alla tutela del risparmio[42]. Altri autori ritenevano invece che alle imprese bancarie potessero essere imposti con atti amministrativi anche scelte aziendali capaci di realizzare una selezione nell’esercizio del credito allo scopo di far si che quest’ultimo venisse erogato in conformità con le scelte di politica economica espresse dalle Autorità di governo[43].
Orbene, l’unico limite legislativamente considerato capace di porre vincoli all’impresa bancaria è la tutela del risparmio, tutela che comporta non solo la legittimità degli interventi diretti a garantire la stabilità e l’efficienza del sistema bancario, ma anche quelli che hanno per obiettivo la stabilità del mercato monetario sia nei rapporti interni che in quelli esterni.
Il T.U.B. del 1993 ha dunque stabilito che il controllo sulla banche non può perseguire obiettivi di carattere macroeconomico ovvero non può ispirarsi al soddisfacimento delle esigenze economiche del mercato, ma esclusivamente deve trattarsi di un controllo microeconomco, avente come punto di riferimento il singolo ente creditizi. Infatti il testo normativo in commento ha individuato in una norma generale e di principio le finalità che le stesse possono perseguire, stabilendo che le autorità creditizie esercitano i poteri di vigilanza a esse attribuite avendo riguardo alla sana e prudente gestione dei soggetti vigilati, alla stabilità complessiva, all’efficienza e alla competitività del sistema finanziario. Questa disciplina ha dunque definitivamente gli scopi che le autorità creditizie possono perseguire, dotando così l’attività bancaria di un statuto rispettose della riserva di legge stabilita dall’art. 41 Cost. Va aggiunto altresì che il T.U.B. ha individuato le modalità di esercizio dei poteri attribuiti agli enti creditizi, questi non possono sostituire le proprie scelte a quelle dell’impresa, neppure per garantire una sana e prudente gestione delle stesse.
I poteri normativi attribuiti alle amministrazioni indipendenti (Consob, Banca d’Italia) con il T.U.B. non trovano a livello di fonte legislativa primaria parametri di riferimento sufficientemente determinati[44]. Si pensi, per esempio, ai casi di attribuzione alla Banca d’Italia del potere “in bianco” di “emanare disposizioni volte ad assicurare sistemi di compensazione e di pagamento efficienti e affidabili” (art. 146, t.u. delle leggi in materia bancaria e creditizia), o all’Autorità per l’energia elettrica e il gas di individuare “modalità e condizioni delle importazioni nel caso che risultino insufficienti le capacità di trasporto disponibili” (art. 10 comma 2, D.Lgs. 16 marzo 1999 n. 79).
Un cenno merita anche l’argomento relativo alla trasparenza delle condizioni contrattuali in relazione alla concorrenzialità del mercato riscritto dal T.U.B. del 1993.
Sul punto è peraltro intervenuta la legge 262/2005 che ha riconfermato la portata di questa disposizione, garantendo inoltre un maggior grado di trasparenza in materia di controlli e un rafforzamento della tutela del risparmiatore.
L’art. 25 inoltre pone come sostenuto da taluno[45] un rimedio alla coesistenza dei due modelli dell’attribuzione delle competenze fra le autorità di vigilanza per settori e quello per finalità e che nella maggior parte dei casi attribuiva all’autorità di settore le competenze sulla trasparenza dei relativi contratti.
Il nuovo testo della legge 262/05, prevede invece una condivisione di competenze fra Consob e Banca d’Italia, che dovranno adottare le determinazioni d’intesa.
- Regolazione e mercato
Il passaggio dalla regolamentazione alla regolazione possono essere letti ed interpretati alla luce dell’evoluzione dei rapporti tra diritto ed economia, tra Stato e mercato[46], il cui andamento condiziona, sia teologicamente che strutturalmente l’intervento statale. Questa concezione trova fondamento nell’impostazione peculiare del rapporto fra libertà di concorrenza e struttura del mercato, rispetto alla quale la libertà di concorrenza assume un ruolo centrale, e la cui mancanza viene interpretata come un elemento che finisce col pregiudicare la stessa eticità del mercato, a favore di interessi particolari di determinate categorie[47].
Il mercato, quindi, viene assunto come una entità che per sua stessa natura richiede una regolazione che qualitativamente viene ad essere strettamente dipendente da una precisa scelta politica, o, nel caso della common law, si presenta come una naturale evoluzione del sistema attraverso un lento sedimentarsi di decisioni, che determina il contenuto delle regole ordinatrici del mercato stesso[48].
La norma, nel momento stesso in cui viene formulata, perde la sua neutralità per assumere una autonoma rilevanza condizionante il fatto economico. In quest’ottica il diritto si integra e si impone sulla vita economica determinandone il corso[49]. Il rapporto tra ordinamento giuridico e fatto economico può essere inquadrato in una duplice prospettiva: il fatto economico è considerato alla stregua di un problema economico, la cui soluzione viene ricercata dal pubblico potere proprio nello strumento del diritto; il fatto economico con è conforme all’ordinamento giuridico[50].
Il diritto, dunque, rappresenta uno degli strumenti principali per la realizzazione del Welfare State dei quali si è servito il sistema politico ritenuto “responsabile dei problemi irrisolti”. Il passaggio dalla regolamentazione alla regolazione può essere interpretato proprio come una prima risposta parziale allo stato di “disfunzione istituzionale”[51], attraverso la ricerca di una maggiore efficienza strumentale del diritto. Nel rapporto tra norma giuridica e fatto economico, la scelta in ordine alla strumentalità o alla conformatività rispetto al mercato delle norma viene effettuata nel momento in cui vengono fissate le linee essenziali del rapporto tra sistema politico e sistema giuridico da un lato e sistema sociale ed economico dall’altro. Fondamentalmente è un’interpretazione tra sistemi e più in particolare quello sociale e quello politico, che recepisce e traduce in scelte di indirizzo politico, le istanze provenienti dal polo sociale[52].
Il diritto, dunque, regola, i sistemi sociali attraverso la propria autoregolamentazione, nel senso che “constata la complessità interna di alcuni ambiti di regolazione il “diritto riflessivo”[53] si pone di regolare non già tramite l’imposizione diretta, bensì controllando il modo in cui tali sistemi si autoregolano”[54]. Quanto detto non è avvenuto nella regolazione dello Stato sociale in cui si è assistito per un verso, ad una iperlegislazione della società e dall’altro ad una ipersocializzazione del diritto.
Il mercato, dunque, viene posto al servizio del diritto costituzionale e viene orientato da questo in funzione della realizzazione di un sistema di valori fondamentali costituzionali[55]. In questa prospettiva l’ordinamento politico-giuridico realizza al suo interno l’ordine sociale e l’ordine economico fondamentali, su valori che sono recepiti dallo stato democratico ed espressi nella costituzione economica assunta come decisione globale sull’ordinamento della vita economica di una comunità, cioè “come quella parte dell’ordinamento che limita funzionalmente la sfera politica e quella economica”, rendendole compatibili sulla base di criteri giustiziabili.
La costituzione economica non è più vista solo come un sistema di regole predisposto dallo Stato per garantire la concorrenza ma diventa sinonimo e fattore legittimante dell’interventismo statale.
L’idea di costituzione economica e la sua esistenza sono quindi ricollegati all’intervento dello Stato che va ad incidere sullo svolgimento naturale della vita economica producendo una limitazione della stessa libertà economica derivante dalla dicotomia Stato-società civile[56]. La costituzione economica, allora, viene ad assumere dei contenuti normativi e l’individuazione dei provvedimenti al suo interno viene effettuata in base ad un dato semplicemente contenutistico rappresentato dalla significatività e dal rilievo che tali disposizioni assumono per l’ordinamento dell’economia e rispetto al quale si pone il problema di una garanzia di stabilità che può essere assicurata soltanto con il rispetto dei diritti fondamentali[57].
Da quanto detto si evince che la nozione di costituzione economica si connoti storicamente ad una forte elasticità che può essere apprezzata sia sotto il profilo della significatività politica, sia sotto il profilo strettamente contenutistico che è indubbiamente connesso al precedente[58]. La scelta di un modello economico rigidamente determinato, inoltre, all’interno di una costituzione pluralistica si pone in netto contrasto con la pluralità di valori e di interessi che la stessa costituzione pluralistica assume come valori fondamentali[59].
In base a queste considerazioni, appare tuttavia evidente come la disciplina dell’economia, considerando i suoi aspetti essenziali e caratterizzanti, non può essere il risultato delle “esigenze storiche e della prevalenza degli interessi individuali presenti nella società”[60].
I principi fondamentali della Costituzione vanno interpretati come un vero e proprio limite[61] per il sistema politico e per lo stesso legislatore in quanto la scelta del modello economico[62] non è rigidamente predeterminato. In altre parole, la neutralità della Costituzione deve essere valutata secondo quei criteri che potremmo definire dei veri e propri limiti impliciti, ovvero tutti quei fattori che possono creare una visione della società tale da giustificare una larga presenza del pubblico nell’economia[63].
Ai fini dell’inquadramento del passaggio della regolamentazione, ricollegata al modello di Stato interventista, alla regolazione, è necessario soffermarsi sulla ricostruzione del modello economico interventista come delineato dal terzo comma dell’art. 41 della Costituzione. Infatti, se si fa prevalere questo criterio mettendo da parte l’elemento della libertà, il passaggio alla regolazione può essere interpretato in termini di modifica costituzionale o di “rottura della Costituzione”[64].
La regolazione, dunque, nell’ottica in cui assume preminenza l’elemento della novità che viene espresso prevalentemente dalla indipendenza delle amministrazioni, viene definita come una entità tipizzata e, allo stesso tempo, tipizzante, il cui effetto è rappresentato dalla esigenza di rendere necessario, per un corretto inquadramento ed interpretazione, un vero e proprio cambiamento di prospettiva o per meglio dire una reinterpretazione e sostituzione dei paradigmi tradizionali dello Stato. Questa esigenza di sostituzione ha condotto a teorizzare una vera e propria indipendenza dei soggetti che sono titolari di questa funzione rispetto agli altri poteri dello Stato tra cui quello giurisdizionale[65].
L’ingresso nella Comunità europea, che ha posto a fondamento del suo funzionamento il principio della economia di mercato e che comunque non ignora gli aspetti riguardanti la compatibilità delle scelte in materia economica e il rispetto dei suoi valori fondamentali, non sembra possa essere letto in termini di modifiche all’organizzazione del sistema costituzionale, ne tanto meno di una abrogazione di una parte delle norme costituzionali quanto, piuttosto, in termini di una spinta ad operare un adattamento del sistema[66].
In base a queste considerazioni risulta, pertanto, evidente che l’ampiezza dei compiti e la natura delle funzioni riconosciute in capo allo Stato sono condizionate, e allo stesso tempo sono espressione, dalle risultanze di quel sistema di relazioni che immancabilmente viene a crearsi tra il polo statuale da un lato e il polo sociale dall’altro. È facile comprendere come allora tale ruolo possa variare sensibilmente nel tempo a causa della diversa natura degli interventi che il primo mette in opera sull’altro e comunque a seconda che questo assuma le caratteristiche di una organizzazione a carattere più o meno cogente o di una organizzazione volontaria e soprattutto come nella generalità dei casi le variazioni messe in atto debbano essere inquadrate in termini di evoluzione del sistema[67].
Il nucleo caratterizzante la regolazione può essere individuato pertanto nel suo essere espressione di una scelta del legislatore di improntare i rapporti tra Stato ed economia ad una logica diversa in base alla quale la eteroregolazione statale non viene a contrapporsi al mercato ed alla sua logica, ignorando il codice binario proprio del sistema economico, bensì diviene parte di esso, assumendo dei contenuti neutrali rispetto al principio economico a cui si ispira. La regolazione potrebbe essere vista come limitata al momento in cui dette regole vengono sancite[68]. Se così fosse, si porrà solo il problema dei soggetti della normazione, dei vincoli cui questi sono sottoposti, e delle certezze e rapidità di applicazione delle regole da parte sia delle burocrazie pubbliche, sia del potere giudiziario nella sua veste di “bocca della legge”[69].
- Limiti alla regolazione: riserva di legge
Uno dei problemi che in dottrina oggi costituisce oggetto di un vivace dibattito attiene alla considerazione che la regolazione di autorità amministrativa nell’epoca vigente può sostituirsi all’autonomia privata, imponendo ad operatori di un determinato mercato comportamenti asimmetrici.
Ne deriva pertanto che l’utilità sociale e generale nel campo economico deve essere perseguita rispettando i principi istituzionali dello Stato di diritto[70]. Ciò posto tuttavia in dottrina[71] ci i interrogava come mai relativamente all’intervento pubblico nell’economia si era così rigidi, nel senso che si richiedeva che fosse la legge a disciplinare la materia, mentre al contrario per quanto concerne le attività amministrative indipendenti preposte a settori economici era bastevole una mera attribuzione di potere normativo alle autorità accompagnata dall’indicazione di criteri piuttosto lacunosi.
La spiegazione di questo fenomeno è stata dedotta ad esempio prendendo spunto dagli ordinamenti anglosassoni per cui nelle autorità amministrative si verificherebbe sotto il profilo della descrizione sostanziale una delegazione legislativa ad un organo amministrativo. Ed invero la giustificazione a detta posizione è data dal fatto che se si garantisce la libertà economica non c’è bisogno del principio di legalità.
Ma per capire la reale portata del fenomeno regolatorio in Italia è necessario in primo luogo combinare la libertà economica con il principio di uguaglianza. Ed invero come affermato dalla dottrina[72] è solo attraverso l’uguaglianza che si può giustifica l’intervento regolativi del mercato, ed infatti la libertà economica va esercitata in un contraddittorio al quale devono partecipare tutti i soggetti interessati: questo quindi costituisce quel fattore che gli economisti chiamano concorrenza. Le condizioni per esercitare la concorrenza sono definite nel mercato e la regolazione deve intervenire anche per realizzare tali condizioni nell’ipotesi in cui non si verificano spontaneamente.
Logica conseguenza, pertanto, di quanto detto è che il mercato e la concorrenza non sono più lasciati all’autonomia privata, la quale se fosse lasciata a sé stessa tenderebbe ad alterare la par condicio di tutti i concorrenti e ad alterare le condizioni per l’esistenza di un mercato concorrenziale.
Il compito quindi delle autorità amministrative indipendenti è quello di sostituirsi all’autonomia negoziale privata quando questa non vi fosse o nel caso in cui venisse meno la par condicio concorrenziale. La regolazione delle autorità amministrative indipendenti non è quindi una normale attività autoritativa di una pubblica amministrazione. Ed infatti, le autorità amministrative indipendenti si sostituiscono in caso di inerzia dei privati ai negozi privati decisioni amministrative. E non solo.
L’autorità inoltre può imporre attraverso un prospetto informativo di fornire informazioni al potenziale contraente definendo, nel caso concreto, l’obbligo a cui deve attenersi, può imporre altresì di fornire prestazioni che spontaneamente un operatore economico non fornirebbe, ed infine può formare il contratto quando due contraenti non si decidono a contrarre. Questi sono naturalmente soltanto alcuni esempi in cui lo Stato diventa un attore del mercato nel senso che stabilisce i presupposti del mercato e compie atti negoziali sostitutivi degli atti negoziali dei privati o impone ai privati di compiere atti negoziali. Questi interventi così invasivi secondo la letteratura economica sarebbero originati dai fallimenti del mercato, ovvero da tutti quei casi in cui mancherebbero i presupposti di un mercato o si verificherebbe la concorrenza.
Posti tali premesse, allora ci si domanda cosa legittima la regolazione. È chiaro che la libertà economica per manifestarsi ha bisogno di determinati presupposti giuridici strutturali che prendono il nome di mercato. Nel mercato la libertà economica è regolata dal principio di uguaglianza, intesa come possibilità di partecipare alla concorrenza. In questo quadro le autorità regolatrici hanno il compito di provvedere nei vari settori di loro competenza a definire i presupposti per l’esistenza di un mercato integrando e modificando i presupposti strutturali esistenti, accertare la violazione di norme di legge poste a tutela dell’esercizio del diritto di libertà economica, infine sostituire in tutto o in parte atti negoziali dei privati che partecipano o dovrebbero partecipare, al contraddittorio concorrenziale, quando questi non si manifestano spontaneamente[73].
In un ottica di diritto, quindi, la regolazione è legittimata ogni volta in cui non si manifesti il contraddittorio paritario. Non può avere altri fini se non quelli esposti, altrimenti si tratta di intervento pubblico nell’economia che persegue altri fini e può essere giustificato da norme diverse da quelle che attribuiscono poteri di regolazione alle autorità amministrative indipendenti. Per l’intervento pubblico nell’economia, la Costituzione prevede la riserva di legge, per la regolazione no, perché è una forma di tutela diretta della libertà economica combinata con il principio di uguaglianza.
Semmai l’unica ipotesi plausibile di applicazione del principio di legalità nell’attività regolatoria può limitarsi alla mera attribuzione di funzioni ad un’autorità regolatrice[74]. Quindi le autorità amministrative indipendenti non esercitano una frazione della sovranità ma svolgono funzioni di supplenza nei confronti della libertà economica. Tanto detto ci si è chiesti ma allora in cosa si differenzia l’attività di regolazione dalla normale attività amministrativa. Posto che le autorità amministrative pongono in essere atti amministrativi sostitutivi di atti negoziali dei privati, gli atti possono essere generali e quindi assumere la veste del precetto regolamentare indirizzato ad una pluralità di operatori, oppure particolari, cioè indirizzati ad un singolo caso concreto, o ad un singolo operatore refrattario alla concorrenza.
Ciò che è fondamentale nella regolazione non è il carattere astratto o concreto dell’atto, piuttosto ciò che conta è il suo effetto sostitutivo sul mercato che può tradursi a seconda delle ipotesi in un obbligo per il privato di porre in essere determinati negozi giuridici o in una sostituzione vera e propria di negozi giuridici intesa a simulare una concorrenza inesistente, come spesso accade nella liberalizzazione dei servizi pubblici.
- I poteri normativi della Banca d’Italia
Il potere normativo assegnato alla Banca d’Italia se da un lato va ricondotto al fenomeno dell’attribuzione dei poteri normativi alle autorità indipendenti, dall’altra presenta delle peculiarità.
Va infatti preliminarmente osservato che la Banca d’Italia in primo luogo si inserisce nel sistema del governo del credito al cui vertice sono posti organi politici, circostanza che questa che non è presente quando parliamo di autorità indipendenti[75]. Questo fa sì che manca uno degli aspetti problematici tipici del potere normativo delle autorità indipendenti: ovvero quello della sottrazione al principio democratico. Va da sé in ogni caso che nell’esercizio della funzione di vigilanza sulle banche la Banca d’Italia è la come sostenuto dalla dottrina la più indipendente tra le autorità indipendenti[76] ed è stato anche ipotizzato che la realtà sezionale non sembra più corrispondere al modello dell’attuale settore creditizio.
Come sostenuto nel paragrafo primo del presente capitolo della mia tesi nel periodo compreso tra il 1936-1938 il potere normativo delle autorità creditizie aveva un’importanza circoscritta in particolare quello della Banca d’Italia poteva ritenersi in parte come esecutivo in parte come eventuale, difatti l’art. 1 al co. 2 r.d.l. n. 375/1936 prevedeva “la facoltà dell’ispettorato di determinare l’ammontare del capitale o del fondo di dotazione minimo cui doveva essere subordinata la costituzione di nuove aziende esercenti il credito”. Era dunque un potere generale a carattere meramente eventuale anche se di fatto esercitato in modo costante[77]. Veniva altresì stabilito nella norma in parola che le aziende di credito dovessero attenersi alle istruzioni che l’ispettorato comunicava conformemente alle deliberazioni del Comitati dei Ministri in ordine ai vari aspetti dell’attività creditizia. Sostituiti il Comitato dei Ministri con il Comitato interministeriale per il credito e il risparmio e l’Ispettorato per la difesa del risparmio e per l’esercizio del credito con la Banca d’Italia lo schema è stato poi recepito nel testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia del 1993[78].
Invece poche norme, nella legge bancaria, prevedevano poteri a contenuto generale dell’organo di vigilanza, e detti poteri erano in ogni caso strumentali alle comunicazioni dell’Ispettorato.
Mancavano quindi nel testo unico bancario norme generali sull’attività ed inoltre se da un lato vi erano norme attributive di poteri normativi, dall’altro non erano previste norme che disciplinassero come questi poteri dovessero essere esercitati, ciò in ragione del fatto che nel testo unico bancario, il potere normativo dell’organo di vigilanza era del tutto secondario.
Questo spiega perché in epoca non recente la dottrina[79] era unanime nel negare il carattere normativo delle disposizioni emanate dalla Banca d’Italia. L’unico caso in cui era riconosciuto il carattere normativo era rappresentato dall’art. 28 del testo unico relativo alla determinazione del capitale o del fondo di dotazione[80] in cui si riconosceva la natura sostanzialmente normativa degli atti in discussione, mettendo in evidenza la distinzione tra istruzioni a carattere normativo e atti amministrativi generali. Le ragioni per le quali gli atti della Banca d’Italia venivano considerati atti amministrativi e non atti normativi risiedeva nell’indifferenza dell’uso dell’atto generale o del provvedimento particolare, affermata dall’art. 33 co. 2 ma anche con riferimento ai poteri previsti dall’art. 32. Un’altra motivazione che consentiva di aderire a tale orientamento si desumeva dalla modificabilità ad nutum “con congruo periodo di preavviso” prevista per i provvedimenti generali e per quelli particolari, che rafforzava l’idea dei provvedimenti stessi come strumenti di decisione.
Ora successivamente all’entrata in vigore della legge bancaria, l’attività di regolazione della Banca d’Italia ha subito un notevole sviluppo e mancando delle norme che regolassero l’attività si svilupparono le istruzioni di vigilanza che furono codificate nel 1990 e si suddividono in comunicazioni, disposizioni che indicano agli operatori come applicare la legge e vere e proprie norme che integrano la disciplina esistente[81].
Per capire dopo il 1993 come si atteggia il problema del potere normativo della Banca d’Italia occorre soffermarsi su alcuni aspetti della disciplina come ad esempio i caratteri della vigilanza, le norme generali relative al potere normativo e le singole norme attributive di tale potere. In relazione alla vigilanza con il testo unico del 1993 viene confermato e codificato il ruolo centrale della Banca d’Italia[82]; inoltre la vigilanza viene configurata come “prudenziale” , ciò nel senso che l’autorità pubblica non indica alle banche i fini da perseguire, ma detta le regole e vigila per l’appunto sulla loro osservanza. In altre parola la nuova concezione di vigilanza prudenziale sta a significare che la stessa si basa essenzialmente su limiti e parametri fissati in via generale.
Quindi la vigilanza si atteggia sempre più a rapporto tra un soggetti vigilante ed una collettività o una generalità di soggetti vigilati.
Ne deriva perciò che gli atti dell’autorità sono rivolti non più ai singoli operatori in modo differenziato ma bensì alla generalità degli stessi. Con l’art. 5 T.U. vengono peraltro per la prima volta individuate le finalità della vigilanza, ne deriva altresì che la norma rende ogni potere normativo previsto dal testo unico profondamente diversi da quelli previsti dalla legge bancaria del 1936, nel senso che se prima potevano essere esercitati nel perseguimento di fini diversi, oggi i poteri normativi, possono essere utilizzati solo nel perseguimento di fini indicati dalla legge.
Anche nell’ambito della discrezionalità amministrativa gli interessi sono stati sostanzialmente ristretti[83].
Sempre poi con riferimento all’art. 5 T.U. tra le finalità della vigilanza la norma indica anche l’osservanza delle disposizioni in materia creditizia, quindi anche le regole poste dalle autorità creditizie che devono essere indirizzate al perseguimento dei fini indicati. Tuttavia i limiti al potere normativo della Banca d’Italia non si esauriscono qui. Infatti l’art. 6 T.U. che impone alle autorità creditizie di esercitare i poteri in armonia con le disposizioni comunitarie pone non solo criteri di esercizio ma anche parametri di legittimità Infine, l’art. 4, co 2, stabilisce che “la Banca d’Italia determina e rende pubblici previamente i principi e i criteri dell’attività di vigilanza”. I limiti imposti alla Banca d’Italia sono stati peraltro riconfermati dall’analisi delle norme che regolano, in generale, il potere normativo di detto organo.
Infatti l’art. 4, dopo avere attribuito alla Banca d’Italia il potere di proposta per le deliberazioni del CICR, stabilisce che essa “inoltre, emana regolamenti nei casi previsti dalla legge, impartisce istruzioni e adotta i provvedimenti di carattere particolare di sua competenza”.
Vero è che la norma contiene una sorta di graduazione degli atti, infatti da un lato ci sono i regolamenti, dall’altra i provvedimenti particolari e a parte le istruzioni.
Altra considerazione che appare necessaria è che il potere regolamentare sembra configurato come potere tipico, laddove il potere di emanare istruzioni si atteggia come potere innominato.
Dunque la Banca d’Italia può emanare istruzioni senza limiti, mentre può emanare regolamenti solo quando il potere regolamentare le sia espressamente attribuito da una norma di legge. In realtà la soluzione prospettata non è l’unica interpretazione. Ed invero l’art. 4 T.U. non stabilisce le corrispondenze tra i tipi di atti previsti in astratto ed i poteri normativi previsti in concreto[84]. Da quanto detto se ne ricava che le istruzioni possano essere emanate anche al dei casi in cui ciò sia espressamente previsto. Ne deriva pertanto che la Banca d’Italia può emanare istruzioni in tutti i settori dell’attività creditizia, in quanto sottoposti alla sua vigilanza, e le istruzioni stesse hanno la funzione di definire il modo in cui la Banca d’Italia intende esercitare i suoi poteri.
Un’interpretazione in questi termini certamente pone problemi circa la legittimità costituzionale dell’attribuzione alla Banca d’Italia di un così ampio potere di emanare istruzioni. Ed invero premesso che legge, nell’attribuire poteri normativi in ordine all’esercizio di attività economiche, deve quantomeno indicarne l’oggetto, questo non avviene in ordine alle istruzioni.
Deve allora ritenersi che esse non possano avere contenuto normativo piuttosto potranno individuare e chiarire il contenuto delle norme e dettare disposizioni puramente applicative, ma non integrare le norme stesse, incidendo sulla sfera giuridica dei destinatari. Quindi i poteri normativi che il testo unico attribuisce alla Banca d’Italia se ne deduce che devono essere esercitati in forma regolamentare[85].
Tuttavia l’entrata in vigore del testo unico non ha determinato sostanziali cambiamenti di forma nella sua attività normativa, che continua ad essere esercitata essenzialmente attraverso aggiornamenti delle istruzioni di vigilanza. Peraltro è stato ipotizzato da più parti che il testo unico sembra muoversi nella direzione secondo cui lo strumento regolamentare debba essere utilizzato anche in assenza dell’esplicita previsione di un regolamento. In altri termini il Legislatore del testo unico avrebbe preso atto che nell’ordinamento non vi sono casi di attribuzione di potere regolamentare alla Banca d’Italia non solo in materia di vigilanza, ed avrebbe quindi predisposto una disciplina per tali casi, si tratterebbe quindi di una previsione quadro come quella della legge 241/1990 relativa agli accordi sostitutivi del provvedimento.
Da quanto detto sopra si può concludere che il testo unico non ha risolto la problematica circa il potere normativo attribuito alla Banca d’Italia e pertanto i poteri normativi devono essere esercitati in forma regolamentare. Ne sono un esempio alcune disposizioni come l’art. 53 T.U. rubricato “vigilanza regolamentare” che consente alla Banca d’Italia di regolare aspetti fondamentali dell’attività bancaria; l’art. 117, al co 8, che prevede, per la violazione delle norme emanate dalla Banca d’Italia, cause di nullità di diritto civile, ponendosi sullo stesso piano delle norme del codice civile sulla nullità del contratto; l’art. 133, nel disciplinare il reato di abuso di denominazione bancaria, attribuisce alla Banca d’Italia la definizione dei casi in cui le parole vietate possono essere usate. Certamente il potere normativo della Banca d’Italia con il nuovo testo unico è più solido rispetto al passato perché tutte le norme che prima non avevano fondamento ora hanno ora un’esplicita previsione ed inoltre il potere normativo è variamente indirizzato e limitato. A tal proposito determinante è la previsione dell’art. 5 T.U.
Come ultima considerazione va aggiunto che l’attribuzione dei poteri di regolazione del mercato creditizio ad un’autorità indipendente, se prima era semplicemente dalla Costituzione, ora è imposta dal diritto comunitario[86].
[1] Sull’iter di questi provvedimenti legislativi si veda S. Cassese, La preparazione della riforma bancaria del 1936 in Italia, in Storia cont., 1974, pp. 32 ss.
[2] Su questi aspetti per i profili che qui interessano, si vedano le opere di P. Grifone, Il capitale finanziario in Italia, Torino, 1971, pp. 168 ss.; G. Toniolo, L’economia dell’Italia fascista, Roma, 1980, pp. 269 ss.; S. La Francesca, La politica economica del fascismo, Bari, 1972, p. 73, ma soprattutto S. Cassese, La preparazione della riforma bancaria, cit., pp. 3 ss. Sul pensiero degli economisti e delle riviste di regime sulla riforma della legge bancaria, si vedano i contributi di P. Barocci, Il contributo degli economisti italiani (1921-1936), e P. Bini, Il dibattito attraverso le riviste di regime, entrambi in Banca ed industria fra le due guerre, vol. I: Le riforme istituzionali e il pensiero giuridico, Bologna, 1981, rispettivamente alle pp. 220 ss. e 263 ss. Sui rapporti tra la riforma bancaria e il fascismo, v. anche G. Guarino, Il profilo giuridico, in La Banca d’Italia e il sistema bancario, 1919-1936, Bari, 1993, p. 169 e A. Gigliobianco, Via Nazionale, La Banca d’Italia e il sistema bancario, 1919-1936, Bari, 1993, pp. 137 ss.
[3] Si vedano soprattutto S. Cassese, La preparazione della riforma bancaria, cit., pp. 20 ss., e i saggi contenuti in La legge bancaria. Note e documenti sulla sua storia segreta, a cura di M. Porzio, Bologna, 1981.
[4] Sul punto F. Merusi, I tratti peculiari dell’ordinamento creditizio italiano nella comparazione con le leggi bancarie degli anni trenta, e S. Ortino, La legislazione bancaria degli anni trenta negli Stati Uniti e in Svizzera, Germania e Belgio, entrambi in Banca e industria fra le due guerre, cit., vol. II, rispettivamente pp. 336 ss. e 349 ss., nonché G. Vignocchi, Il servizio del credito nell’ordinamento pubblico italiano, Milano, 1968, pp. 9 ss.
[5] La distinzione tra raccolta a breve, a medio e a lungo termine è rimessa alla determinazione delle autorità creditizie. Con delibera 28 gennaio 1963 (in Bollettino della Banca d’Italia. Vigilanza sulle aziende di credito, n. 3, p. 9) il Comitato interministeriale per il credito e il risparmio stabilì che costituiva raccolta a breve termine quella con vincolo inferiore a 18 mesi; raccolta a medio termine quella con vincolo di diritto ricompreso fra i 18 e 60 mesi, a lungo termine quella con vincolo superiore a 60 mesi.
[6] A dire il vero la distinzione fra aziende ed istituti era stata anche cercata in elementi diversi dalla lunghezza delle operazioni di provvista. Così si era sostenuto che mentre le aziende di credito erogavano credito a breve termine gli istituti avrebbero erogato credito a medio e a lungo termine. Si vedano fra i molti, già A. Renzi, voce Aziende di credito, in Enc. Banc., Milano, 1942, p. 151; G. Ferri, La validità attuale della legge bancaria, in Riv. Dir. comm., 1974, I, p. 136; G. Cardinali, L’evoluzione della banca italiana dalla riforma del 1936, in Risparmio, 1973, p. 413; F. Giorgianni, I crediti disponibili, Milano, 1974, p. 182. La tesi rifletteva certamente il principio di economia bancaria (sottoposto a grandissime critiche), secondo il quale le scadenze del passivo e dell’attivo dovrebbero coincidere e riceveva conforto dalla vicinanza storica che ha preceduto l’introduzione della legge bancaria. La stessa non trovava, tuttavia, un adeguato fondamento nella legislazione vigente. Questa, infatti, non impediva alle aziende di erogare crediti oltre il breve termine e non poneva, in linea di principio e fatte salve disposizioni specifiche, limitazioni temporali alle operazioni di impiego degli istituti di credito. Ancora si era cercato di cogliere differenze tra le operazioni attive delle aziende e quelle degli istituti facendo perno sulla constatazione che gli istituti di credito potevano, per lo più, compiere operazioni di impiego solo nei confronti di particolari soggetti caratterizzati o per il settore di operatività o per predeterminate qualità soggettive. Sulla base di questa premessa si era escluso che le operazioni degli istituti di credito erano operazioni di credito speciale, mentre quelle delle aziende di credito erano operazioni di credito ordinario. Così da prima, M.S. Giannini, Rilievi sugli istituti di credito medio a medie e piccole imprese industriali, in Banca borsa e tit. di cred., 1954, I, pp. 850 ss.
[7] Credito fondiario, credito agrario, credito industriale, credito per le imprese di pubblica utilità, credito edilizio. Non solo, ma negli ultimi anni precedenti la seconda guerra mondiale vennero introdotti nuovi tipi di credito speciale (per lo più riservati a sezioni speciali della Banca Nazionale del Lavoro).
[8] Si è molto discusso sul significato delle modifiche apportate all’apparato appena descritto. A tal fine si vedano S. Merlini, Struttura del Governo ed intervento pubblico nell’economia, Firenze, 1979, pp. 141 ss. e F. Belli, Modificazioni e sviluppi della legislazione bancaria, in La legislazione economica italiana dalla fine della guerra al primo programma economico, a cura di F. Merusi, Milano, 1974, pp. 642 ss.
[9] Ufficio italiano dei cambi è un ente dotato di personalità giuridica ma istituzionalmente collegato alla Banca d’Italia e soprattutto alla vigilanza del Ministero per il Tesoro. Si veda per ora F.P. Pugliese, La normativa valutaria italiana, in Il sistema valutario italiano, a cura di F. Capriglione, V. Mezzacapo, Milano, 1981, vol. I, pp. 78 ss.
[10] La direttiva 77/80 del 12 dicembre 1977. Le direttive in materia di banche sono state raggruppate ai fini di razionalità e chiarezza in un Testo Unico dalla direttiva 2000/12 del 20 marzo 2000. L’allegato VI alla direttiva 2000/12 offre la tavola di concordanza fra gli articoli delle singole direttive e quelli della stessa direttiva 2000/12. Per un commento a quest’ultimo, v. Diritto bancario comunitario, a cura di G. Alpa e F. Capriglione, Torino, 2002.
[11] Particolarmente rilevanti sul piano sistematico si configurano i contenuti della seconda direttiva n. 89/646. (F. Capriglione, Evoluzione del sistema finanziario italiano e riforme legislative (prime riflessioni sulla legge “Amato”), in La ristrutturazione delle banche pubbliche, a cura di S. Amorosino, Milano, 1991, p. 21). Il riferimento rinvenuto, al principio del “mutuo riconoscimento” nella regolamentazione dei rapporti tra paesi CEE consente l’attribuzione della vigilanza pubblica sugli enti creditizi alle autorità dello stato membro d’origine. Restano fermi, tuttavia, i poteri del paese ospite per quanto attiene al governo della liquidità aziendale e, dunque, le sue prerogative in tema di politica monetaria. Cfr. G. Desiderio, Commento sub dir. CEE n. 89/646, in Codice commentato della banca, a cura di F. Capriglione e V. Mezzacapo, Milano, 1990, tomo I, pp. 2199 ss.
[12] Sul commento alla legge 218/90 si veda V. Pontolillo, Il sistema di credito speciale e la legge n. 218/90, in La ristrutturazione delle banche pubbliche, a cura di S. Amorosino, Milano, 1991, p. 90, in cui l’a. precisa che “la legge 218 rappresenta il coronamento del disegno volto a modellare la struttura finanziaria del Paese in modo conforme alle esigenze espresse dal mercato”.
[13] Questa possibilità non incontrerà più limiti legislativi dopo l’attuazione della seconda direttiva bancaria.
[14] Costituisce un tassello importante della nuova regolamentazione del mercato creditizio la disciplina del gruppo bancario, introdotta dal D.Lgs. 20 novembre 1990, n. 356. sul punto vedi V. Pontolillo, Il sistema di credito speciale e la legge n. 218/90, in La ristrutturazione delle banche pubbliche, a cura di S. Amorosino, Milano, 1991, p. 90: “la finalità perseguita dal legislatore non è quella di privatizzare l’assetto proprietario delle banche pubbliche, quanto piuttosto quella di connotare lo svolgimento dell’attività di mediante l’assunzione di un modello organizzativo, disciplinato dal diritto comune, che – consentendo un maggiore riscontro da parte dei detentori del capitale – solleciti l’assunzione di regole di comportamento più trasparenti nel perseguimento di rigorose finalità di reddito, presupposto indispensabile per poter attrarre fondi sul mercato dei capitali”.
[15] Su quelle società partecipate che sfuggivano alla vigilanza bancaria e che, per lo più, erano sottratte a qualsiasi altro tipo di vigilanza.
[16] Una prima risposta a tale problema venne dalla Legge 17 aprile 1986, n. 114, che, in attuazione della direttiva 83/350 del 13 giugno 1983, attribuì alle autorità di vigilanza sugli enti creditizi il potere di conoscere le situazioni in capo all’ente creditizio di controllo.
[17] Titolo V, artt. 106-114, che riprendono le norme della Legge 197/1991, coordinandole sistematicamente con quelle dettate per gli enti creditizi.
[18] Allo scopo di assicurare stabilità ai mercati mobiliari (art. 129), senza modificare, per altro, l’ordinamento di quest’ultimi.
[19] Cfr. sul punto L. Giani, Attività amministrativa e regolazione di sistema, Torino 2002, p. 265.
[20] Questo profilo della anomalia rispetto ai tradizionali modelli di organizzazione amministrativa viene sottolineato da parte di molti Autori. Per tutti si rinvia a G. Grasso, L’anomalia di un modello. Le autorità (amministrative) indipendenti nei paesi membri dell’Unione Europea. Prime ipotesi per un inventario,in Il Politico, n. 2, 2000, pp. 251 ss.
[21] Sul punto oltre agli Autori richiamati che sottolineano in diverso modo la prevalenza dell’elemento di novità ai fini della qualificazione di questi nuovi soggetti cfr. anche G. Amato, Autorità semi-indipendenti ed autorità di garanzia, in Riv. trim. dir. pubbl., n. 3, 1997, pp. 645 ss.; V. Caianello, Le autorità indipendenti tra potere politico e società civile, in Foro amm., 1997, p. 341 ss.; S. Cassese, Le autorità indipendenti: origini storiche e problemi odierni, in AA.VV., I garanti delle regole. Le autorità indipendenti, a cura di S. Cassese e C. Franchini, Bologna, 1996; C. Franchini, Le autorità indipendenti come figure organizzative nuove, in Studi in onore di F. Benvenuti, vol. 2, Modena, 1996, pp. 775 ss.; F. Longo, Ragioni e modalità dell’istituzione di autorità indipendenti, in AA.VV., I garanti delle regole. Le autorità indipendenti, a cura di S. Cassese e C. Franchini, Bologna, 1996, p. 13 ss., il quale nell’analizzare il tema della collocazione istituzionale segnala che rispetto a tali soggetti si è posta “la questione se per essi debba escludersi la riconduzione nell’area degli organismi amministrativi e non debba, invece, pensarsi ad una loro diversa collocazione rispetto al tradizionale assetto dei poteri dell’ordinamento” (p. 20); G. Moini, Amministrazioni indipendenti e nuove forme di regolazione pubblica, in Riv. trim. sc. amm., 1999, p. 47 ss.; L. Torchia, Gli interessi affidati alla cura delle autorità indipendenti, in AA.VV., I garanti delle regole. Le autorità indipendenti, a cura di S. Cassese e C. Franchini, Bologna, 1996, p. 55 ss.; G. Varriale, Le amministrazioni indipendenti e il principio di regolazione, in Nuovo dir., 1988, p. 249 ss. Si occupano del tema in maniera critica anche E. De Marco, Le funzioni delle autorità indipendenti, in Le amministrazioni indipendenti. Da fattori evolutivi ad elementi della transizione nel diritto pubblico italiano, a cura di S. Labriola, Milano, 1999, p. 107 ss.; S. Labriola, Le autorità indipendenti (note preliminari), in Le amministrazioni indipendenti. Da fattori evolutivi ad elementi della transizione nel diritto pubblico italiano, a cura di S. Labriola, Milano, 1999, p. 1 ss. Da ultimo cfr. S. Foà, I regolamenti delle autorità amministrative indipendenti, Torino, 2002, il quale afferma “i poteri normativi riconosciuti, unitamente ai poteri istruttori, ispettivi, di vigilanza, sanzionatori ed anche quasi giurisdizionali, costituiscono nel loro insieme un nuovo potere o “una quarta funzione” che permette di tutelare gli interessi generali individuati dalla Costituzione e dalla legge attraverso strumenti nuovi posti addirittura in concorrenza o in alternativa alla legge stessa” (p. 108) la cui emanazione è affidata alle autorità amministrative indipendenti.
[22] Il riferimento, in particolare, è alle riflessioni di G. Guarino svolte in occasione del Convegno Nazionale dei Comitati di azione per la Giustizia sul finire degli anni ’60 e raccolte nello scritto Sulla utilizzazione di modelli differenziati nella organizzazione pubblica, in Rivista di scienza politica e dell’amministrazione, 1968, n. 3, p. 3 ss., ora in Scritti di diritto pubblico dell’economia, Milano, 1970, p. 3 ss.; Id., Ancora sui modelli differenziati, ivi, p. 59 ss.
[23] Per i presupposti teorici di questa impostazione si rinvia a F.G. Scoca, Contributo sul tema della fattispecie precettiva, Perugia, 1979.
[24] Tra i numerosissimi Autori che si sono occupati del tema si rinvia a F. Bassi, Contributo allo studio delle funzioni dello Stato, Milano, 1969; Id., Il principio della separazione dei poteri, in Riv. trim. dir. pubbl., 1965, p. 108 ss.; G. Cugurra, L’attività di alta amministrazione, Padova, 1993; E. De Marco, Valore attuale del principio della separazione dei poteri, in Studi in onore di L. Elia, Milano, 1999, vol. I, p. 409 ss.; S. Niccolai, I poteri garanti della Costituzione, Pisa, 1996, pp. 225-226; A.M. Sandulli, L’attività normativa della pubblica amministrazione, Napoli, 1970, pp. 49-50.
[25] Sulla evoluzione del principio cfr. F. Modugno, Poteri (divisione dei), in Noviss. Dig. it., vol. XIII, Torino, 1966, pp. 477 ss. L’Autore sottolinea a proposito del principio della separazione dei poteri, inteso come vero e proprio dogma, che “solo in tempo vicini ci si è avveduti che il significato autentico è falso, poiché il principio è stato espressione di valori che hanno variato nel tempo e nello spazio, e quasi sempre espressione di più significati insieme. Lo studio di come ciò sia avvenuto e avvenga è di pertinenza politologica; in ordine alla materia che ci interressa è innanzitutto da precisare che il principio riguarda solo l’amministrazione dello Stato, e non invece i “pubblici poteri” (pp. 69-70). li principio della separazione dei poteri (o meglio della tripartizione dei poteri) inteso in termini assoluti, e più precisamente in termini di un vero e proprio principio politico, trasfuso in un principio di costituzione formale, o più spesso, materiale secondo cui le potestà pubbliche prefigurate dalle norme (costituzionali ma anche primarie) devono essere ripartite tra complessi organici di organi statali, si che nessuno di essi concentri tal quantità statali, si che nessuno di essi concentri tal quantità di potestà da sopraffare gli altri complessi” (M.S. Giannini, Diritto amministrativo, I, Milano, 1970, p. 70), avrebbe come diretta conseguenza quella di impedire in realtà una organizzazione dello Stato.
[26] “Il significato originario di “funzione” è dunque necessariamente collegato con l’ufficio, ossia con l’astratta prefigurazione della competenza per lo svolgimento di una determinata attività. Ne deriva che ciò che importa in tale definizione non è già il soggetto persona fisica o giuridica, titolare dell’ufficio, che svolge quella determinata attività, ma il collegamento di tale attività con l’ufficio, indipendentemente cioè dal titolare di quest’ultimo, che può essere Tizio, come può essere anche, indifferentemente, Caio o Sempronio. Se si osserva, però, come il collegamento dell’ attività con l’ufficio non debba necessariamente riguardare lo scopo dell’attività stessa, che è assunto quale fine dell’ufficio, ma possa anche attenere al contenuto o all’oggetto dell’attività quali elementi determinanti il compito dell’ufficio, appare evidente come i significati originari della funzione, in quanto attività dell’ufficio (funzione-ufficio) – anche se in prosieguo divenuti indipendenti dal collegamento con questo – risultino principalmente due, e precisamente quelli opportunamente denominati quali funzione-compito e funzione-scopo” (così F. Modugno, Funzione, in Enc. Dir., vol. XVIII, Milano, 1969, p. 301).
[27] F. Modugno, Funzione, in Enc. Dir., vol. XVIII, Milano, 1969, pp. 302-303.
[28] Sul punto cfr. G. Silvestri, Poteri dello Stato (divisione dei), in Enc. Dir., vol. XXXIV, Milano, 1985, p. 690, il quale sottolinea “Lo specifico funzionale si percepisce sul piano della gnoseologia dell’ordinamento. Il regime degli atti e la forma dei procedimenti sono i riflessi singolari di un sistema di interrelazioni funzionali. La cognizione del livello propriamente funzionale può essere nella pratica solo fino a quando si ha a che fare con atti che, per tradizione culturale ormai indiscussa o per in equivoca previsione normativa, sono assoggettati ad un certo regime. La conoscenza del principio (o dei principi) di distinzione funzionale è invece necessaria per i casi dubbi, quando l’inquadrare un atto (ad esempio, un regolamento), con tutte le conseguenze giuridiche che ne derivano, in questa o in quella categoria funzionale è operazione che ciascuno compie secondo un principio enucleato dal sistema complessivo. Le funzioni vano perciò discriminate secondo la loro essenzialità alla vita dell’organismo statuale. A questo livello di astrazione teorica risulta di grande utilità il concetto romaniano di istituzione, per la sua idoneità a tradurre sul piano della concettuologia giuridica la nozione generale di “organismo statale”. L’istituzione, equivalente dell’ordinamento giuridico, esprime la totalità dell’ordine sociale, che non si compone solo di norme, ma risulta dall’ organizzazione della comunità. In definitiva, si può considerare come funzione solo una serie di attività senza le quali non è pensabile la sussistenza dell’intero ordinamento inteso come istituzione” (p. 690).
[29] M.S. Giannini, La ristrutturazione delle banche pubbliche, (a cura di S. Amorosino), Milano 1991, p. 11.
[30] L’incidenza delle direttive in materia creditizia sulla struttura e sulla funzionalità dell’ordinamento bancario italiano è stata ampiamente analizzata in letteratura: F. Capriglione, Evoluzione del sistema finanziario italiano e riforme legislative (prime riflessioni sulla legge “Amato”), in La ristrutturazione delle banche pubbliche, a cura di S. Amorosino, Milano, 1991, p. 21; R. Costi, L’ordinamento bancario, Bologna, 1986, p. 195 ss. La dottrina con graduazioni diverse, è concorde nel ritenere che la tendenza liberalizzatrice nel processo d’integrazione economica europea, si è risolta in una sostanziale riduzione dei poteri discrezionali dell’Organo di vigilanza bancaria.
[31] M.S. Giannini, La ristrutturazione delle banche pubbliche, (a cura di S. Amorosino), Milano 1991, p. 13.
[32] Cfr. M.S. Giannini, Diritto pubblico dell’economia, Milano, 1977, in cui l’a. precisa che “il risparmio fruisce di una tutela costituzionale, che si reputa trovi attuazione nel principio della liquidità bancaria e nel controllo sulle banche da parte degli organi reggenti l’ordinamento sezionale del credito affinché essa sia osservata. …. Per cui, in conclusione, non esistono particolari incentivazioni al risparmio, ma solo tutele generiche”.
[33] Sul punto, M. Nigro, Profili pubblicistici del credito, Milano, 1972, 97 ss.; F. Merusi, Per uno studio sui poteri della Banca centrale nel governo della moneta, in Riv. trim. dir. pubbl., 1972, pp. 1430 ss.
[34] F. Merusi, La posizione costituzionale della banca centrale in Italia, in Riv. trim. dir. pubbl., 1981, pp. 1083 ss.
[35] B. Mattarella, Il potere normativo della Banca d’Italia, in U. De Siervo (a cura di), Osservatorio sulle fonti, Torino, 1996.
[36] Sul punto v. per tutti P. De Vecchis, Spunti per una rinnovata riflessione sulla nozione di banca, in Banca borsa e tit. cred., 1992, I, pp. 762 ss.; A.P. Panzera, Sistema bancario italiano e ordinamento comunitario, Milano, 1991, pp. 36 ss.; P. Belli, R. Bertelli, Banca nel diritto comunitario, in Dig. Disc. pubbl., II, Torino, 1987, pp. 179 ss.
[37] questa direttiva chiariva che sotto il profilo della provvista, l’attività bancaria consiste nel raccogliere fondi rimborsabili presso il pubblico sia sotto forma di depositi che sotto altre forme, quali l’emissione continua di obbligazioni e di altri titoli comparabili, e nel definire l’ente creditizio sotto il profilo della raccolta, individuava il contenuto di quest’ultima, nel ricevere depositi o altro fondi rimborsabili dal pubblico (art. 1).
[38] Sul significato che le espressioni “iniziativa economica” ed “attività economica” assumono nell’art. 41 Cost. si veda ad esempio A. Baldassarre, voce Iniziativa economica privata, in Enc. dir., XXI, Milano, 1971, pp. 582 ss.
[39] Sulla riserva di legge di cui al 3° comma dell’art. 41, si vedano per tutti P. De Cadi, Costituzione e attività economiche, Padova, 1978, pp. 28 ss.; M.S. Giannini, Diritto pubblico dell’economia, Bologna, 1995, pp. 129 ss. e D. Sorace, Il governo dell’economia, in Manuale di diritto pubblico, a cura di G. Amato e A. Barbera, vol. III, Bologna, 1997, pp. 794 ss.; nonché, anche per i riferimenti giurisprudenziali, E. Crisafulli, L. Paladin, Commentario breve alla costituzione, Padova, 1990, pp. 287 ss.
[40] A. Predieri, Pianificazione e costituzione, Milano, 1963, p. 353; M. Nigro, Profili, cit., pp. 22 ss. Il significato della riserva di legge, pure riaffermata, viene vanificato anche da V. Spagnuolo Vigorita, Principi costituzionali sulla disciplina del credito, in Rass. dir. pubbl., 1962, I, pp. 348 ss., dal momento che lo stesso ritiene consentita dalla legge bancaria la funzionalizzazione dell’impresa agli scopi di pubblico interesse di volta in volta stabiliti dall’autorità di settore. Escludendo che gli stessi possano ridursi alla tutela del risparmio previsto dall’art. 47 o a quelli fissati da altre norme di legge, questo autore, infatti, finisce per negare che i fini “sociali” debbano essere fissati dalla legge, come invece pretende l’art. 41, 3° comma (si veda infatti A. Patroni Griffi, La concorrenza nel sistema bancario, Napoli, 1979, p. 64). In questa prospettiva v. G. Cottino, Manuale di diritto amministrativo, Milano, 2001, vol. II, tomo I, p. 53.
[41] F. Merusi, sub art. 47, in Commentario della Costituzione, a cura di G. Branca, Bologna-Roma, 1980, p. 157.
[42] Si vedano G. Ferri, Considerazioni preliminari sull’impresa bancaria, in Banca borsa e tit. cred., 1969, I, pp. 321 55.; Id., La validità attuale della legge bancaria, in Riv. dir. comm., 1974, I, pp. 129 ss.; e G. Molle, La banca impresa pubblica?, in Banca borsa e tit. cred., 1981, II, p. 385. Tutela del “risparmio” e tutela dei risparmiatori vengono spesso tenute artificiosamente distinte, mentre le stesse coincidono, o, quanto meno, sono legate da un rapporto “biunivoco”: si veda, infatti, G. Cammarano, in La tutela del risparmio bancario, a cura dell’Ente per gli studi monetari bancari e finanziari Luigi Einaudi, Bologna, 1979, p. 42.
[43] Si vedano per tutti M.S. Giannini, Osservazioni sulla disciplina della funzione creditizia, in Scritti giuridici in onore di Santi Romano, vol. II, Padova, 1939, pp. 707 ss.; Id., Istituti di crediti e servizi d’interesse pubblico, in Moneta e credito, 1949, pp. 106 ss.; M. Nigro, Profili pubblicistici del credito, Milano, 1972, pp. 87 ss.; G. Vignocchi, Il servizio del credito nell’ordinamento pubblicistico italiano, Milano, 1968, pp. 170 ss.; M. Porzio, Il governo del credito, Napoli, 1976, pp. 23 ss.; P. Vitale, Pubblico e privato nell’ ordinamento bancario, Milano, 1977, pp. 126 ss.; F. Capriglione, Intervento pubblico e ordinamento del credito, Milano, 1978, pp. 22 ss.
[44] Cfr. in particolare l’art. 2, l. 31 luglio 1997 n. 247 in tema di divieto di posizioni dominanti nel settore televisivo.
[45] Cfr. sul punto E. L. Leonardi, Commento Legge 28 Dicembre 2005 n. 262 – “Disposizioni per la tutela del risparmio e la disciplina dei mercati finanziari” – Artt. 19-22 e 25-26, in Ceradi , Marzo 2006, p. 19.
[46] Per una esaustiva rassegna delle disposizioni cfr. L. Mezzetti, Costituzione economica e libertà di concorrenza in Italia. Modelli europei a confronto, Torino, 1994, p. 195 ss. Alcuni autori hanno sottolineato come una corretta identificazione può essere effettuata essenzialmente solo ove si pone accanto ad esso un aggettivo che consente di qualificarne la natura, così G. Vespertini, La Consob e l’informazione del mercato mobiliare. Contributo allo studio delle funzioni regolative, Padova, 1993, p. 246. In senso analogo cfr. R. Niro, Profili costituzionali dell’antitrust, Padova, 1994.
[47] H.A. Simon, Il comportamento amministrativo, trad. it., Bologna, 1967; Id., La regione nelle vicende umane, trad. it., Bologna, 1984.
[48] In tal senso cfr. N. Irti, L’ordine giuridico, Roma, 1998, il quale in maniera assai significativa sottolinea, richiamando la tesi di F.A. Von Hayek (Nuovi studi di filosofia, politica, economia e storia delle idee, Roma, 1988) come “risulta così fondamentale, nel significato autentico del “fondare”, la decisione del contenuto normativo, che è poi null’altro dalla decisione circa un dato ordine di scambi” (p. 12). In altri termini, “il mercato è la legge, che lo governa e costituisce; e prende forma dalla decisione politica e dalle scelte normative. Cadono così i caratteri di naturalità ed apoliticità, che si sogliono invocare a protezione di un dato mercato o in conflitto e rifiuto di altro tipo di mercato” (p. 12).
[49] “Il diritto non viene più considerato come forma esteriore del comportamento economico, ma è una componente strutturale dell’attività economica, condizionante e a sua volta condizionata, onde diritto ed economia costituiscono parti integranti e fra loro interdipendenti di un’unica realtà”, così L. Mengoni, Forma giuridica e materia economica, in Studi in onore di Alebrto Asquini, Padova, 1965, III, pp. 1077 ss. Sul pensiero di Ascarelli e Mengoni cfr. V. Pescatore, Ascarelli e Mengoni, o dalla forma giuridica e del contenuto economico, in N. Irti, Diritto ed economia, problemi ed orientamenti teorici, Padova, 1999, pp. 229 ss.
[50] G. Miele, Il problema dell’adeguamento della norma giuridica al fatto economico. Tecnica giuridica e fatto economico, in Diritto dell’economia, 1956, pp. 5-6.
[51] Così G. Teubner, Il trilemma regolativi. A proposito della polemica sui modelli giuridici post-strumentali, in Pol. Dir., XVIII, n. 1, pp. 85 ss.
[52] B. Romano, Lezioni di filosofia del diritto, Roma, 1999, p. 73.
[53] Nella prospettiva assunta, G. Teubner, Il diritto come sistema autopoietico, Milano, 1996, definisce il diritto riflessivo in quanto in grado di regolare i sistemi sociali attraverso la propria autoregolazione.
[54] Così A. Febbrajo, C. Pennini, Introduzione, in G. Teubner, Il diritto come sistema autopoietico, Milano, 1996.
[55] A tal riguardo, M. Antonioli, Mercato e regolazione, Milano, 2001, p. 56, sostiene che “la funzione regolativi del mercato – almeno in linea di principio – al potere di scelta sul “se” emanare – o meno – un determinato provvedimento, sul suo contenuto, e sulle modalità (oltre che sui tempi) di adozione del medesimo: l’Autorità garante, nell’esercizio dei propri compiti, è carente della potestà di ponderare l’an, il quid e il quomodo”.
[56] F. Neumann, Il significato sociale dei diritti fondamentali nella Costituzione di Weimar, trd. It., in F. Neumann, Il diritto del lavoro in democrazia e dittatura, a cura di G. Vardaro, Bologna, 1983, pp. 136 ss.
[57] R. Miccù, Forme di mercato e innovazione della costituzione economica, Roma, 1996, p. 81.
[58] Sulla difficoltà di individuare una nozione di Costituzione economica cfr. P. Bilancia, Modello economico e quadro costituzionale, Torino, 1996, p. 1, la quale sottolinea come “elementi e caratteristiche di quella che comunemente viene definita “costituzione economica” sono stati studiati da più angolazioni proprio al fine di determinare il concetto, e le diverse, relative nozioni cui si è pervenuti variano, come è ovvio, con il variare del metodo di studio adottato”.
[59] R. Bifulco (nel suo scritto: Costituzioni pluralistiche e modelli economici, in Governi ed economia, Padova, 1998, pp. 518 ss.) muovendo dalla considerazione del diverso status ontologico del diritto e dell’economia sottolinea come se “si condividono le premesse intorno alla Costituzione delle società pluralistiche e le osservazioni sui presupposti costitutivi della scienza economica, bisogna concludere che la formalizzazione costituzionale di un determinato modello economico non è conciliabile con una Costituzione pluralistica”.
[60] Sul punto cfr. R. Bifulco, op. cit.
[61] Sul punto cfr. G. Marongiu, I principi democratici dell’economia, in La democrazia come problema, vol. I, t. 2, Diritto, amministrazione ed economia, Bologna, 1994, pp. 333 ss.
[62] Sul punto cfr. R. Bifulco, op. cit., il quale nel sottolineare che per “Costituzione economica in una Costituzione pluralista si deve intendere semplicemente il modo in cui è disciplinata, in un dato momento, la materia economica” (p. 524).
[63] Sul punto è d’obbligo richiamare il contributo apportato con le sue riflessione dall’economiste A. Sen (Globalizzazione e libertà, Milano, 2002; Id., Lo sviluppo è libertà. Perché non c’è crescita senza democrazia, Milano, 2003) che presenta un forte carattere sociologico. L’A. sottolinea il ruolo centrale dello sviluppo delle libertà, ai fini dello stesso sviluppo della società.
[64] L. Giani, Attività amministrativa e regolazione di sistema, in Nuovi problemi di amministrazione pubblica, Studi diretti da F.G. Scoca, Torino, 2002, p. 132.
[65] Sul punto vedi A. Predieri, L’erompere delle autorità amministrative indipendenti, Firenze, 1997, p. 141.
[66] Cfr. U. Romagnoli, Autorità di garanzia e regolazione del pluralismo, in AA.VV., Regolazione e garanzia del pluralismo. Le autorità amministrative indipendenti, in Quad. Riv. Trim. dir. proc. civ., n. 2, 1997, pp. 60: “ecco perché, avare di norme predeterminatici di comportamenti, le leggi istitutive delle Autorità sono dei semilavorati: “nell’attrito tra diritti costituzionali” , ha scritto di recente Mario Rusciano, “non si può fare altro che adottare la tecnica del contemperamento. Un contemperamento che il legislatore non può operare – direttamente, astrattamente, rigidamente – una volta per tutte”. Non a caso l’istituto della riserva di legge ha percorso una parabola che lo ha veduto transitare dall’originaria assolutezza alla relatività col generalizzarsi dell’opinione secondo la quale esso ha un valore non solo di principio, ma anche strumentale, potendo servire a rimandare un problema scottante al punto che, là per là, non è possibile stabilire ne da chi ne come sarà risolto in maniera meno generica di quanto non possa un rinvio alla legislazione ordinaria”.
[67] L. Giani, Attività amministrativa e regolazione di sistema, in Nuovi problemi di amministrazione pubblica, Studi diretti da F.G. Scoca, Torino, 2002, p. 143.
[68] Sul punto cfr. M. Antonioli, Mercato e regolazione, Milano, 2001, p. 57, che osserva che “il difetto di momenti discrezionali configurerebbe l’esercizio di una attività di giudizio, diretta a risolvere conflitti fra interessi privati: come se, cioè, sussistesse un’equazione fra discrezionalità amministrativa e attività amministrativa. Il che, invero, pare conseguire ad una evidente sopravvalutazione di quella “centralità” generalmente riconosciuta alla discrezionalità amministrativa: eppure, il carattere vincolato dell’azione amministrativa, così come l’impiego della c.d. discrezionalità tecnica, non possono snaturare un’attività che permane, pure sempre, di tipo esecutivo”. Conforme, G. Guarino, Atti e poteri amministrativi, Milano, 1994. In altri termini, se “le scelte sono l’essenza del potere” (D. Sorace, C. Marzuoli, Concessioni amministrative, in Digesto (disc. Pubbl.), vol. II, Torino, 1989, p. 290), quest’ultimo implicherebbe necessariamente l’esistenza di un regime di discrezionalità.
[69] Sul punto cfr. G. Majone, A. La Spina, Lo Stato regolatore, Bologna, 2000.
[70]Sul punto così si è espressa la dottrina: solo l’intervento della legge può garantire la legalità dell’azione amministrativa in conformità con i principi dello Stato di diritto. Questo principio di legalità è intrinseco alla struttura e ai caratteri dell’attuale ordinamento. Peraltro la Costituzione l’osservanza della riserva di legge. In tal senso P. De Carli, Costituzione ed attività economiche, Padova 1978, pp. 186; P. Fois, Nota alla sentenza 18 gennaio 1958 n. 4, in Giur. Cost., 1958, p. 17; Id. Ancora sulla riserva di legge e la libertà economica privata, in Giur. Cost., 1958, p. 1254.
[71] F. Meusi, Sentieri interrotti della legalità, Bologna 2007, p. 67.
[72] E.W. Bockenforder, Veroffentlichunger der Vreinigung der Deutschen Ataatsrechtslehrer, Berlin, 2001, p. 595.
[73] E questo terzo tipo che va definito propriamente regolazione. Cfr. sul punto F. Meusi, Sentieri interrotti della legalità, Bologna, 2007, p. 71.
[74] Sul punto si veda lo scritto di S.A. Frego Luppi, L’amministrazione regolatrice, Torino, 2002, pp. 122 ss. in cui l’a. dice che, poiché la legislazione di settore – disciplinando rapporti interprivati senza perseguire direttamente un pubblico interesse – presenta analogie con la legislazione di diritto privato (M.S. Giannini, Regolamento (in generale), in Enc. Dir., XXXIX, Milano, 1988, p. 603 e L. Torchia, Gli interessi affidati alla cura delle autorità indipendenti, in S. Cassese, C. Franchini (a cura di), I Garanti delle regole, Bologna, 1996, p. 59), anche l’attività normativa delle amministrazioni indipendenti, che deve “specificare” la suddetta disciplina, si configura quale fonte di integrazione del contratto (S. Rodotà, Le fonti di integrazione del contratto, Milano, 1969).
[75] Cfr. N. Marzona, Il potere normativo delle autorità indipendenti, in S. Cassese, C. Franchini, I giganti delle regole. Le autorità indipendenti, Bologna, 1996, pp. 87 ss. che ha adottato “come criterio distintivo o individuatore delle autorità indipendenti le condizioni di distacco o di separazione dal potere politico, anche se non compiutamente realizzata, come nei casi della Commissione nazionale per le società e la borsa (CONSOB) e dell’Istituto di vigilanza sulle assicurazioni private (ISVAP). Restano pertanto esclusi, dato il loro inserimento o la loro vicinanza al potere esecutivo, organismi come l’Agenzia nazionale per l’ambiente, l’Agenzia per le relazioni sindacali con le pubbliche amministrazioni e la stessa Banca d’Italia, benché occorra ricordare che, specialmente nei settori ove è maggiormente avvertita l’influenza delle discipline comunitarie è in atto una tendenza ad espandere alcuni dei caratteri abitualmente considerati propri delle autorità indipendenti, quali l’oggettività dell’azione e l’alta professionalità”.
[76] V. Cerulli Irelli, La vigilanza regolamentare, in Mondo bancario, 1994, n. 6, p. 32.
[77] “La Banca d’Italia non svolgeva soltanto funzioni di banca centrale, di banca delle banche nei confronti delle imprese bancarie di ogni tipo e di controllo dell’equilibrio monetario, ma anche la funzione di vigilanza nei confronti delle banche e degli operatori finanziari la cui attività può incidere sulla liquidità monetaria in generale”. Cfr. F. Merusi, Democrazia e autorità indipendenti, Bologna, 2000, p. 48.
[78] Sul punto, N. Marzona, Il potere normativo delle autorità indipendenti, in S. Cassese, C. Franchini, I giganti delle regole. Le autorità indipendenti, Bologna, 1996, pp. 87 ss. che sostiene: “dall’angolo visuale del contenuto della disciplina, la difficoltà principale deriva dalla non omogeneità o dalla non reciproca coerenza degli statuti delle varie autorità: il legislatore non ha insomma operato sempre con la stessa mano o impiegando gli stessi criteri, e ciò proprio in relazione a momenti fondamentali, quali ad esempio, il raccordo o proporzione tra il grado di autonomia e di indipendenza e l’entità dei poteri”.
[79] G. Vignocchi, Il servizio del credito nell’ordinamento pubblicistico italiano, Milano, 1968, 261 ss.; M.S. Giannini, Istituti di credito e servizi di interesse pubblico, in Moneta e credito, 1949, 116 ss.; G. Visentini, (voce) Credito e risparmio, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1988.
[80] V. Bachelet, L’attività di coordinamento nell’amministrazione pubblica dell’economia, Milano, 1957, p. 201 s.
[81] Cfr. F. Merusi, Democrazia e autorità indipendenti, Bologna, 2000, p. 48 che dice: “insomma la funzione di controllo, esplicata a qualunque livello organizzativo, può far bigi tutti i gatti, ma non rendere gli organi e i soggetti che esercitano tale funzione indipendenti nel senso in cui se ne parla a proposito delle autorità garanti”. Inoltre, l’a. sostiene che “in fondo alla corsa del legislatore per l’”indipendenza”, non sempre c’è un autorità indipendente in senso proprio. Il più delle volte c’è soltanto quel che si cercava un tempo con la creazione di enti pubblici: una organizzazione non gerarchica, l’autonomia contabile e la diversificazione dei rapporti di lavoro (o anche soltanto qualche indennità in più)”.
[82] Sul punto anche la Corte Costituzionale si è espressa cfr. Sent. n. 224/1994.
[83] Sul punto vedi, M. Clarich, Autorità indipendenti, Bologna, 2005, p. 125, in cui si dice che “il T.U. attribuisce alla Banca d’Italia e alle altre autorità creditizie poteri normativi limitandosi, di regola, a individuare a livello di fonte primaria l’oggetto della disciplina, l’organo competente e fissa solo in rari casi principi e criteri materiali”. Sono una cinquantina i provvedimenti che attribuiscono alla Banca d’Italia il potere di emanare provvedimenti a contenuto generale anche se nessuna usa l’espressione tecnica di “regolamento” e solo quattro usano l’espressione “istruzioni”, ciò che dimostra, tra l’altro, che “il legislatore non ha voluto risolvere il nodo del potere normativo della Banca d’Italia, preferendo perpetuare una situazione di ambiguità”: cfr. B. Mattarella, Il potere normativo della Banca d’Italia, cit., p. 237.
[84] Nel senso essa prevede due tipi di atti (regolamenti e istruzioni), ma non chiarisce se le singole norme, attributive di poteri normativi, rientrino nell’una o nell’altra previsione; come accennato, infatti, nessuna di queste norme parla di “regolamenti”, e pochissime parlano di “istruzioni”.
[85] Questa ricostruzione si scontra, da un lato, con la difficoltà di distinguere tra le disposizioni che integrano il dato normativo e quelle che lo chiariscono, dall’altro, con il fatto che in alcuni (pochi) casi il testo unico, nell’attribuire alla Banca d’Italia poteri normativi, prevede che le relative disposizioni abbiano la forma di istruzioni. Tuttavia, essa sembra la ricostruzione più compatibile con il principio di legalità. Cfr. B. Mattarella, Il potere normativo della Banca d’Italia, cit., p. 237.
[86] Cfr, F. Merusi, La redazione del testo unico bancario: problemi di tecnica legislativa, in Banca impresa società, 1993, n. 1, pp. 31 ss.
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