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Il diritto d’autore nell’era digitale: profili comparatistici

Introduzione

Il diritto d’autore può essere considerato come l’insieme dei diritti connaturati, connessi, derivanti dalla realizzazione di un’opera dell’ingegno di carattere creativo.
Nella storia dell’umanità il diritto d’autore è un’invenzione relativamente recente.
L’istituzione giuridica del diritto d’autore, che si associa alla più generale dottrina dei diritti di proprietà intellettuale, trova la propria origine in coincidenza di un evento storico preciso: l’invenzione della tecnologia della stampa, avvenuta nel 1440 ad opera del tedesco Johann Gutenberg.
Molti ordinamenti continentali con la denominazione di diritto d’autore (droit d’auteur in Francia e Urheberrecht in Germania) hanno voluto sottolineare, almeno formalmente, la centralità dell’autore. Pertanto il diritto in parola viene considerato un “diritto naturale” che sancisce un vincolo inscindibile tra i creatori e le loro opere. La seconda, la tradizione del copyright, nata invece in territorio britannico, si ispira all’abitudine al commercio dell’impero coloniale inglese e, segnatamente, si concentra sull’aspetto economico che è il contenuto stesso dei privilegi.
Anche per quanto concerne il diritto di copia i due regimi sono diversi.  Infatti in Inghilterra l’idea del diritto di copia si afferma attraverso l’applicazione quotidiana di una regola pratica, nata con riferimento agli Stationers per rispondere alle loro esigenze commerciali, ed indirettamente garantita dalla giurisdizione disciplinare e gestionale sull’editoria che la Corona inglese ha delegato a quest’organo corporativo. La regola asseconda il controllo preventivo che la monarchia inglese intende stabilire sulla stampa del Regno e, al tempo stesso, semplifica la tutela degli interessi economici di una classe di operatori commerciali, molto ben organizzata, che fin dall’inizio si mostra capace di superare i conflitti interni in nome di una ferrea autodisciplina, assicurando il funzionamento di un perfetto cartello sull’attività editoriale del paese. Solo i membri della Gilda possono avviare la procedura di registrazione. Il compimento di questa formalità permette all’editore di vantare il diritto di copia sull’opera che sarà riconosciuto dagli altri membri delle corporazioni, con la possibilità di chiedere che chiunque cessi di pubblicare l’opera di cui egli ha curato la registrazione.
Alla morte dello stampatore, il diritto di copia spetta alla vedova di quest’ultimo, sempre che quest’ultima nel frattempo non abbia contratto matrimonio con un individuo estraneo al consesso degli editori.
In ogni caso alla morte della vedova, il monopolio sulla pubblicazione dell’opera era destinato ad essere rassegnato alla corporazione.
Sull’altra sponda della Manica il sovrano si guarda bene dal delegare la formazione delle regole sul commercio librario alle corporazioni interessate.
Se la gilda degli stampatori parigini si vede attribuire il monopolio di stampare, essa l’ottiene nella forma di una pluralità di privilegi spesso concessi ai suoi membri, intesi quali singoli atti di concessione che il Re può revocare in ogni momento.
La fonte di legittimazione delle prerogative degli stampatori transalpini resterà l’atto di concessione gracieuse del sovrano secondo una dinamica che va collocata nel top-down approach, in contrapposizione del modello di botton up, che opera con riferimento alla formazione delle regole amministrate dalla Stationers Company.
La regolamentazione dell’attività editoriale in Inghilterra e in Francia vive un contesto istituzionale diverso. In Francia è frammentaria e irriducibile a principi uniformi, espressione di una pluralità di atti di concessione della Corona e di regole localmente osservate dagli stampatori.
In Inghilterra invece la Stationers Company, forte della sua capacità di rappresentare unitariamente gli interessi commerciali di una nuova categoria produttiva, si accredita con la Corona come un interlocutore istituzionale affidabile, pronto ad offrire i propri servigi censori in cambio del riconoscimento del potere di darsi, con margini di autonomia che rimarranno sconosciuti agli editori francesi per tutto l’Anciem Regime, regole atte a tutelare i propri investimenti produttivi.
Tuttavia occorre osservare che nonostante le differenze indicate in alcuni punti le due tradizioni giuridiche per taluni aspetti sembrano invece coincidere.
La digitalizzazione comporta la necessità di riformulare alcune nozioni. Ad esempio la possibilità di utilizzare la rete per diffondere informazioni e giornali telematici ha posto il problema di chiarire entro quali limiti la legislazione sulla stam¬pa possa essere applicabile ad Internet. Di recente il legislato¬re italiano è intervenuto per ridefinire come “prodotto edi¬toriale” “il prodotto realizzato su supporto cartaceo, ivi com¬preso il libro, o su supporto informatico, destinato alla pub¬blicazione o, comunque, alla diffusione di informazioni presso il pubblico con ogni mezzo, anche elettronico, o attraverso la radiodiffusione sonora o televisiva, con esclusione dei prodotti discografici o cinematografici”. Al prodotto editoriale sono applicabili le norme della legge del 1948 sulla stampa.
Il superamento della materialità impone ancora di rimeditare ciò che del regime dei beni è legato alla appropriazione (o disappropriazione) delle cose. Occorre capire in che senso si può parlare di pro¬prietà, di possesso o di sequestro quando si ha a che fare con sequenze di bit (ad esempio documento informatico).
Occorre altresì ridefinire le modalità attraverso le quali è possibile remunerare il lavoro degli autori;
Senza contare che la stessa tecnologia può fornire strumenti efficaci (più delle astratte formulazioni normative) per assicurare la tute¬la degli interessi degli autori.

Capitolo 1
IL DIRITTO D’AUTORE DIGITALE NELL’U.E.

1) L’evoluzione storica della nozione della protezione delle opere creative e intellettuali
Il diritto d’autore può essere considerato come l’insieme dei diritti connaturati, connessi, derivanti dalla realizzazione di un’opera dell’ingegno di carattere creativo .
Nella storia dell’umanità il diritto d’autore è un’invenzione relativamente recente.
L’istituzione giuridica del diritto d’autore, che si associa alla più generale dottrina dei diritti di proprietà intellettuale, trova la propria origine in coincidenza di un evento storico preciso: l’invenzione della tecnologia della stampa , avvenuta nel 1440 ad opera del tedesco Johann Gutenberg . Sino a tale data, infatti, le opere stampate rimanevano ancora in possesso di pochi privilegiati. Infatti, il costo della riproduzione era tale che ciascuna copia in qualche modo poteva considerarsi un originale e, di conseguenza, unica. Visto da questa prospettiva, il manoscritto aveva valore in considerazione dal lavoro del c.d. copiatore, il quale realizzava una copia quanto più fedele possibile all’originale.
L’idea di godere in modo esclusivo di una prerogativa economica sull’opera nasce invece nel 1487, quando la Repubblica di Venezia concesse allo storico Marcantonio Cocci, nominato Sabellicus, il privilegio di stampare e vendere copie della sua opera “Rerum Veneratum ab urbe condita ad Marcum Barbaticum libri XXXIII”; e tale atto divenne fondamentale “come modello per i successivi monopoli di questo genere” .
Nel Cinquecento si affermò così un sistema che poggiava sulla concessione dei privilegi , soprattutto nei vari staterelli presenti nella nostra Penisola ed in Francia .
Ad esempio, Carlo IX  concesse ad una Lega cattolica di editori francesi privilegi su taluni testi religiosi. Lo stesso monarca concesse la Privilegii summa ad un editore  avente ad oggetto le Pandette e i rimanenti tomi del Corpus iuris civilis rivisti da Antonio Contio , disponendo peraltro che chiunque avesse stampato le opere senza autorizzazione sarebbe incorso in gravi sanzioni.
I privilegi (detti anche patenti ) venivano rilasciati dal sovrano agli stampa¬tori , insieme all’imprimatur  concesso da una forma di organo censura preventiva .
Il sistema si basava su una vera e propria “graziosa concessione illuminata” del principe che forniva il privilegio di stampa all’editore. Il privilegio, quindi, aveva ad oggetto il diritto esclusivo di riproduzione . Insomma, grazie ai privilegi, veniva riconosciuto ad un soggetto il diritto di poter pubblicare una determinata opera , senza che altri potessero fare lo stesso. Incominciava quindi ad affermarsi il concetto di diritto di esclusiva.
In questo contesto in Inghilterra l’emanazione nel 1557 della Stationer’s Charter da parte del re Philip e della regina Mary attribuisce alla Stationer’s Company istituita a Londra, il potere centralizzato di esercitare le prerogative sovrane per sopprimere i libri proibiti, con l’assistenza della giurisdizione penale della Star Chamber.
Esenzioni dal sistema delineato nella Charter venivano previste, in base a licenze ad hoc, concesse direttamente dalla Corona, solo per gli editori Universitari di Oxford e Cambridge e per i singoli editori, cui veniva concesso il privilegio di pubblicare determinati titoli o specifiche collane di libri in forza di lettere patenti..
Nell’Inghilterra del secolo XVII fu emanata anche una specifica normativa per regolare l’opera degli stampatori, il Licensing Act del 1662, che attribuiva un monopolio sulla stampa, facilitando, peraltro, il controllo sui contenuti .
In Francia prende invece subito a delinearsi uno scenario diverso la giurisdizione della Corona sull’editoria non è ancora centralizzata e il controllo su quest’attività viene frammentariamente esercitato a livello locale e per tipologie di edizioni librarie dalle corporazioni, dall’Università e dalla facoltà di teologia della Sorbona.
Fra il 1563 ed il 1566 con l’editto di Nantes il re avoca definitivamente a sé il potere di autorizzare la stampa dei libri con il gran sigillo di cancelleria e la concessione al richiedente di un privilegio sulla stampa dell’opera vagliata dalla censura, estendendo le sue prerogative anche alle opera a carattere religioso.
Il sistema di controllo preventivo posto in essere dalla Corona francese verrà perfezionato nel 1624, con l’istituzione di una commissione di censura di nomina regia, i cui componenti sono scelti dal sovrano fra i dottori laici della facoltà di lettere di Parigi.
A dispetto di questi sviluppi, riflesso del primato politico che in quel periodo la Corona consolida a scapito dei Parlements e delle autorità ecclesiali, il sistema che regolamenta l’attività degli editori transalpini nel secolo XVII stenta ad esprimere regole stabili, uniformemente applicate sul territorio.
L’autorità del sovrano concepisce il privilegio come uno strumento semplice ed efficace per mantenere l’ordine pubblico.
L’accertamento dei poteri censori presso la Corona non prelude alla delega di questi poteri alle categorie produttive interessate, come accade in Inghilterra: una dinamica istituzionale di questo tipo è totalmente estranea alla gestione accentrata della funzione pubblica perseguita dalla monarchia assoluta francese.
La discrezionalità del Sovrano governa il rilascio dei privilegi e l’intervento censorio e punitivo seguendo le contingenze e le convenienze politiche del momento.
Espressione di un sistema per sua natura poco rigoroso e coerente è l’affermarsi della pratica delle permissions tacities, attraverso le quali si consente la registrazione  di opere presso la Camera sindacale degli stampatori di Parigi in  base alla presentazione di un feuille de permission tacite compilato da un censore, che però non imprime il suo visto  sull’esemplare registrato.
Sul finire del XVII secolo la monarchia transalpina, dopo aver preso sotto controllo le rappresentazioni teatrali della neonata Comèdie Francais istituzionalizzerà il suo potere autorizzativi e consoliderà il controllo sul commercio dei libri, creando un apparato burocratico retto da un corpo di funzionari regi, deputato ad amministrare i permessi le licenze e le iniziative di controllo poliziesco ai fini censori, coerentemente al modello generale che ispirava l’organizzazione dell’amministrazione pubblica sotto i Borboni.
Nel secolo XVIII si svilupparono finalmente le prime normative nazionali in tema di diritto d’autore, a partire dall’Editto  emanato dalla regina Anna d’Inghilterra nel 1710 , fino alle leggi francesi in tema di proprietà letteraria ed artistica emanate nel 1791  e nel 1793 , che consacrava espressamente la possibilità di agire in giudizio nei confronti del “contraffattore” .
Il passaggio dal regime dei privilegi regi, a quello dell’attribuzione all’autore della proprietà dell’opera sostituisce così una situazione di incertezza con una maggiore stabilità, senza impedire il rischio di monopoli e al contempo incrementando gli sviluppi dell’industria e del commercio.
Va precisato però che il vero punto oscuro lasciato dal droit intermèdiaire non fu tanto quello di accordare un diritto esclusivo all’autore, quanto di costruire la natura del diritto stesso e soprattutto di parificarlo in tutto e per tutto alla proprietà materiale, come avevano chiaramente delineato gli intellettuali del secolo precedente .
È interessante sottolineare che in Inghilterra, anche dopo l’emanazione dello Statute of Anne, la questione relativa ai diritti di esclusiva non era del tutto chiara, dato che gli editori ritenevano assolutamente insufficiente la protezione di quattordici anni indicata dalla legge , basando le loro pretese su precedenti monopoli . In particolare, gli editori che avevano acquisito i diritti per la riproduzione di opere prima dell’ avvento dello Statuto lamentavano che il termine di ventuno anni previsto dalla legge per le opere precedenti alla nuova norma non potesse fornire alcuna tutela . Il problema fu sollevato nel 1774 nel celebre caso Donaldson v. Beckett, innanzi alla House of Lords, che, così, fornì una interpretazione alla legge adottata oltre sessant’anni prima .
Sulla base di una esegesi che valorizzò la circolazione della cultura a favore dei monopoli imposti dalla legge, il copyright fu considerato una istituzione di diritto positivo riconosciuto dal Sovrano come “premio” temporaneo a favore dell’autore (e all’editore cui il di¬ritto viene concesso).
Il copyright comcettualizzato dalla House of Lord nel 1774 era dunque concepito quale diritto puramente patrimoniale, plasmato da una caratterizzazione utilitaristica e strumentale e, dunque, conformato in modo da non poter più offrire varchi ad innesti interpreativi.
In Francia invece la tutela accordata all’autore prendeva corpo attraverso il riconoscimento legislativo di un diritto naturale, che il nuovo ordinamento rivoluzionario dopo la Declaration del 1789, garantiva quale diritto inviolabile dell’uomo, sul presupposto che il provvedimento normativo che l’aveva riconosciuto avesse natura dichiarativa e non già (come nel caso del copyright inglese) costitutiva.
Tra la fine del Settecento e i primi anni dell’Ottocento, venne così riconosciuto, soprattutto nei sistemi dell’Europa continentale , un fondamento giusnaturalistico ed assoluto al diritto d’autore, che lasciava così il posto agli antichi privilegi.
Affermare l’esistenza di un legame proprietario (fondato sul riconoscimento di un diritto naturale) fra autore ed opera avrebbe avuto l’effetto sul piano concettuale di rendere più semplice accreditare l’idea che, nell’ambito di questo rapporto giuridico, l’autore fosse legittimato a proteggere anche una gamma di interessi meritevoli di tutela, a carattere non patrimoniale, vantati nei confronti della propria opera. Ed invero muovendo da un dato legislativo di partenza concepito in termini tecnicamente poco precisi, attorno all’indefinita nozione della proprietà autoriale, la dottrina elaborò soluzioni giuridiche capaci di dare spazio alla preoccupazione di riconoscere all’autore una forma di controllo sui destini della propria opera creativa indipendentemente dalle vicende circolatorie dei diritti di sfruttamento economico dell’opera stessa.

1.1)La tradizione giuridica dei Paesi di civil law e common law a confronto
Con la concessione, quindi, di questi nuovi diritti ad autori ed editori, veniva attribuito un valore economico alla produzione culturale, di modo che questi soggetti fossero incoraggiati a continuare nella loro attività, in quanto fonte di remunerazione.
È così che la letteratura scientifica evidenzia la biforcazione del percorso evolutivo dei diritti di proprietà intellettuale in due diverse e separate culture: quella di matrice europea guidata dalla Francia, che si ispira alla tradizione del civil law (droit civil), e quella anglosassone del common law.
La prima caratterizza la legislazione di molti ordinamenti continentali che con la denominazione di diritto d’autore (droit d’auteur in Francia  e Urheberrecht in Germania ) hanno voluto sottolineare, almeno formalmente, la centralità dell’autore. Pertanto il diritto in parola viene considerato un “diritto naturale” che sancisce un vincolo inscindibile tra i creatori e le loro opere. La seconda, la tradizione del copyright, nata invece in territorio britannico, si ispira all’abitudine al commercio dell’impero coloniale inglese e, segnatamente, si concentra sull’aspetto economico che è il contenuto stesso dei privilegi.
Anche per quanto concerne il diritto di copia i due regimi sono diversi.  Infatti in Inghilterra l’idea del diritto di copia si afferma attraverso l’applicazione quotidiana di una regola pratica, nata con riferimento agli Stationers per rispondere alle loro esigenze commerciali, ed indirettamente garantita dalla giurisdizione disciplinare e gestionale sull’editoria che la Corona inglese ha delegato a quest’organo corporativo. La regola asseconda il controllo preventivo che la monarchia inglese intende stabilire sulla stampa del Regno e, al tempo stesso, semplifica la tutela degli interessi economici di una classe di operatori commerciali, molto ben organizzata, che fin dall’inizio si mostra capace di superare i conflitti interni in nome di una ferrea autodisciplina, assicurando il funzionamento di un perfetto cartello sull’attività editoriale del paese. Solo i membri della Gilda possono avviare la procedura di registrazione. Il compimento di questa formalità permette all’editore di vantare il diritto di copia sull’opera che sarà riconosciuto dagli altri membri delle corporazioni , con la possibilità di chiedere che chiunque cessi di pubblicare l’opera di cui egli ha curato la registrazione.
Alla morte dello stampatore, il diritto di copia spetta alla vedova di quest’ultimo, sempre che quest’ultima nel frattempo non abbia contratto matrimonio con un individuo estraneo al consesso degli editori.
In ogni caso alla morte della vedova, il monopolio sulla pubblicazione dell’opera era destinato ad essere rassegnato alla corporazione.
Sull’altra sponda della Manica il sovrano si guarda bene dal delegare la formazione delle regole sul commercio librario alle corporazioni interessate.
Se la gilda degli stampatori parigini si vede attribuire il monopolio di stampare, essa l’ottiene nella forma di una pluralità di privilegi spesso concessi ai suoi membri, intesi quali singoli atti di concessione che il Re può revocare in ogni momento.
La fonte di legittimazione delle prerogative degli stampatori transalpini resterà l’atto di concessione gracieuse del sovrano secondo una dinamica che va collocata nel top-down approach , in contrapposizione del modello di botton up , che opera con riferimento alla formazione delle regole amministrate dalla Stationers Company.
La regolamentazione dell’attività editoriale in Inghilterra e in Francia vive un contesto istituzionale diverso. In Francia è frammentaria e irriducibile a principi uniformi, espressione di una pluralità di atti di concessione della Corona e di regole localmente osservate dagli stampatori.
In Inghilterra invece la Stationers Company, forte della sua capacità di rappresentare unitariamente gli interessi commerciali di una nuova categoria produttiva, si accredita con la Corona come un interlocutore istituzionale affidabile, pronto ad offrire i propri servigi censori in cambio del riconoscimento del potere di darsi, con margini di autonomia che rimarranno sconosciuti agli editori francesi per tutto l’Anciem Regime, regole atte a tutelare i propri investimenti produttivi.
Tuttavia occorre osservare che nonostante le differenze indicate in alcuni punti le due tradizioni giuridiche per taluni aspetti sembrano invece coincidere.
Un’ulteriore conferma proviene dai fondamenti storici delle due tradizioni giuridiche: il diritto d’autore francese e il copyright inglese emergono entrambi dalla parallela cessazione dei monopoli reali e dalla censura statale come necessità del nascente mercato editoriale. La ragione politica, insomma, si tramuta in ragione economica man mano che il potere del denaro e della classe che lo detiene assumono un ruolo centrale nella società.
Le problematiche da questi affrontate sono, perciò coincidenti e sono strettamente legate in primo luogo alle esigenze si stampatori e mercanti .
Ed invero, sin dalle origini, la legislazione francese si assimila alla dottrina del copyright con la legge del 19 luglio 1973 che attribuisce agli autori di ogni genere il diritto esclusivo di riprodurre, distribuire e vendere sul territorio nazionale le loro opere il che permette di “céder la propriété en tout ou en partie” .
L’intuizione è stata quindi quella di separare i “droits moraux”, cioè la titolarità morale di un’opera, dalla ownership ovvero il suo possesso e lo sfruttamento economico.
La authorship, riflette nei contenuti la dottrina dei diritti naturali che sono inalienabili; la ownership riguarda la sfera economica e commerciale ed è perfettamente trasferibile o affidabile .
In qualche modo la authorship costituisce la giustificazione per l’attribuzione dell’ownership in nome di un principio etico, relativo all’attività creativa e poiche, in realtà, è proprio quest’ultima che interessa gli scambi, il mercato può agilmente funzionare. Il paradigma istituzionalista è perfettamente rispettato e il copyright si rivela come un efficiente strumento che garantisce l’esistenza del mercato.
Il suo ruolo, è quello di creare un monopolio che affida al detentore dell’ownership il potere esclusivo di duplicare e vendere l’espressione dell’idea, il prodotto creato.
Anzi l’interpretazione consolidata, che attinge formalmente le proprie origini nel sistema utilitaristi di common law, ma che di fatto è presente anche nella tradizione francese, è che tale potere di monopolio costituisce un mezzo inevitabile per perpetuare la creazione.
Il diritto esclusivo attribuito ai creatori è l’incentivo a continuare la loro attività.
L’authorship, però, salvo casi particolari e straordinari, è collocata ed agisce al di fuori del mercato (attenzione, i diritti morali degli autori possono incidere notevolmente sullo sfruttamento economico delle opere, cerca dati normativi in questo senso), mentre è la ownership che ha effetti economici con una duplice conseguenza: da una parte procura al titolare (che salvo cessione, è l’autore) una rendita, sia essa una somma fissa una percentuale su ogni copia venduta; dall’altra garantisce a chi la detiene (normalmente un editore) il diritto esclusivo di disporne economicamente.
Ora, secondo la teoria economica “una primaria funzione dei diritti di proprietà è quella di pilotare incentivi per acquisire una maggiore internalizzazione di esternalità” dove per esternalità si intende ogni costo o beneficio associato alle interazioni sociali . Questo processo porta all’allocazione efficiente delle risorse. L’istituzione dei diritti di proprietà intellettuale, nasce perciò come risposta ad un problema di esternalità, che viene identificata nell’attività creativa.
Il diritto esclusivo conferito da tale apparato giuridico diviene, allora, il canale che permette agli autori di beneficiare del proprio lavoro e, quindi, di continuare a farlo.
Ciascun mercato emeregente, poi, modella i propri diritti in modo funzionale a se stesso e appaiono così le differenti dottrine del brevetto, del diritto d’autore e così via.
La divisione tra authorship e ownership può creare uno scollamento tra intenzione del legislatore e risultati.

2) Problemi applicativi del diritto d’autore nell’era digitale
Le odierne discipline sul diritto d’autore riconoscono al creatore dell’opera un pacchetto di prerogative che spaziano dal diritto di rivendicare in ogni modo la paternità dell’opera, ai diritti di sfruttamento economico dell’opera quali i diritti di pubblicazione, riproduzione, trascrizione, esecuzione, diffusione, distribuzione, traduzione e cosi via.
Quando quelle regole sono state concepite, lo stato della tecnologia era tale per cui la riproduzione di una determinata opera richiedeva un vero e proprio processo industriale attivabile solo con un cospicuo impiego di risorse.
Ma in ambito industriale, con lo sviluppo tecnologico delle tecniche di realizzazione delle opere dell’ingegno  si sono posti una serie di problemi.
Innanzitutto un primo problema attiene alle notevoli le possibilità offerte dalla nascita di nuove forme di creazioni intellettuali quali programmi per elaboratori e opere multimediali.
Con l’avvento delle nuove tecnologie telematiche sono, inoltre, sorte forme di sfruttamento, di trasmissione e fruizione delle opere stesse (distribuzione via cavo, via satellite, tramite Internet) del tutto nuove rispetto al passato.
L’interesse principale dell’autore è stato sempre rivolto allo sfruttamento dell’opera tramite il riconoscimento di una esclusiva di produzione e distribuzione dell’opera stessa. Più precisamente, l’autore era in grado di controllare e determinare la quantità di prodotti disponibili sul mercato. Il fenomeno della “digitalizzazione”, invece, implica la possibilità di una infinita ed incontrollata riproduzione delle opere, di una loro facile e veloce trasferibilità nonché un notevole abbattimento dei costi delle operazioni ad esse collegate . L’opera dell’ingegno è, in altre parole, sempre più “dematerializzata”, proprio perchè si riduce l’utilità e l’utilizzazione dei supporti (corpus mechanicum) che in passato costituivano il mezzo più comune di comunicazione e diffusione dei prodotti dell’ingegno. Conseguentemente, l’autore perde una fondamentale possibilità di controllo sull’opera .
Anche i diritti cosiddetti morali, come ad es. quello di vedersi riconosciuta la paternità dell’opera e il diritto di opporsi a deformazioni o modificazioni della stessa, appaiono costantemente in pericolo, in quanto la facilità di circolazione, di appropriazione e manipolazione delle stesse opere rende sicuramente incerta la provenienza e l’autenticità dei materiali, anche nel caso in cui ne sia stato identificato l’ideatore.
Inoltre proprio queste condizione contribuiscono senza dubbio una revisione necessaria del classico concetto di “autore”: chiunque vi sia autorizzato può prendere un’opera preesistente e trasformarla, rielaborarla, manipolarla o presentarla sotto forme diverse. Il tradizionale senso assegnato al concetto di autore si presenta, perciò, sempre più caratterizzato da tratti confusi o sfumati, tanto che, per esempio, nel caso delle opere multimediali si può più parlare di “autore”, ma di una pluralità di “contributi autoriali” all’opera stessa .
In questo senso si osservi che alcune moderne correnti musicali si contraddistinguono per l’uso di frammenti di brani in precedenza pubblicati. Si pensi ad esempio agli esponenti della musica rap. Con il termine sampling si indica per l’appunto l’incorporazione di opere registrate in precedenza in composizioni musicali.
Gli strumenti per il digital sampling permettono agli artisti di catturare e manipolare elettronicamente brani preesistenti.
Il fenomeno può interessare anche gli audiovisivi, si pensi alla possibilità di far comparire nella stessa scena personaggi con in sottofondo parole e rumori decontestualizzati.

2.1) Peer to peer
I c.d. protocolli peer to peer , connettono vari utilizzatori di computer, ognuno dei quali intento a compiere upload , o download, o entrambe le pratiche, di un particolare file o set di files: ogni utilizzatore si definisce peer, ed il gruppo che condivide il processo dello sharing, è definito swarm .
I c.d. peers che, dispongono dell’intero file da scaricare (si pensi, per esempio, ad un album musicale) si chiamano in gergo seeds. Quindi, per semplificare ulteriormente, ad esempio un software rende disponibili i codici alfanumerici complessi, in grado di identificare univocamente i singoli file e consentire agli utenti registrati di scambiare tra loro copie, integrali o parziali, dei files stessi.
Questo meccanismo quindi suddivide la condotta punibile tra vari utenti, che hanno condiviso il materiale coperto da diritto d’autore, la cui identificazione pertanto è più difficilmente rintracciabile, e soprattutto volatilizza e rende estremamente evanescente il criterio di collegamento con il territorio italiano, atteso che i server, intanto, sono più d’uno, e soprattutto sono collocati all’estero.
Per ovviare a questa situazione si sono già verificati casi nei quali è stata sancita la illiceità della raccolta e della elaborazione automatizzata di dati personali, afferenti utenti operanti su reti di comunicazione elettronica internet peer to peer, da parte di società che monitorando il file-sharing (tramite un software denominato fsm) di opere protette da diritto d’autore, avevano poi contestato ai predetti clients la violazione della normativa al riguardo .
Per offrire la usuale carrellata comparatistica, si noti che: in Svizzera, dove è stata ratificata la Convenzione di Strasburgo n. 108/1981, l’Autorità di protezione dei dati ha già dichiarato l’illiceità del file sharing monitoring, che violerebbe alcuni principi fondamentali della legge federale: liceità, finalità, buona fede, trasparenza e proporzionalità;
In Spagna, nell’ambito di una controversia tra un Associazione senza scopo di lucro posta a tutela dei produttori di musica e la società telefonica, in merito al rifiuto opposto dalla seconda di comunicare una serie di dati personali relativi all’utilizzo di internet mediante connessioni fornite dalla stessa, il Juzgado de lo Mercantil n. 5 di Madrid ha rimesso gli atti alla Corte di Giustizia delle Comunità Europee, che ha deciso rinviando alla normativa nazionale . In Francia sono stati siglati, nel novembre 2007, i c.d. Accordes de l’Elysèe, per lo sviluppo e la protezione di opere e programmi cultura sulle nuove reti, e prevedono tra l’altro l’istituzione di un’autorità indipendente con funzioni di contrasto alla pirateria sulle reti p2p nonché l’adozione di reti di filtraggi dei contenuti illeciti .
In Belgio, il Tribunal de Premiere instance de Bruxelles, con decisione del 29 giugno 2007, ha stabilito invece che i fornitori di diritto di accesso sono tenuti ad adottare misure di filtraggio dei contenuti per impedire lo scambio di opere protette dal diritto d’autore attraverso le piattaforme di peer to peer.
La Sabam, società di intermediazione di diritti belga, ha ottenuto così dalla SA Scarlet (già SA Tiscali) di adottare una complessa tecnologia di filtraggio dei contenuti, con addebito a carico del fornitore dell’accesso (comunque riaddebitato sugli utenti) .

2.2) Soluzioni normative nel contesto europeo
I diritti di proprietà intellettuale sono stati fonte di preoccupazioni e riflessioni nel contesto europeo.
I diritti di monopolio temporaneo da essa provveduti in materia di marchi, brevetti, diritto d’autore e diritti sui generis erano visti come un ostacolo per il raggiungimento dell’obiettivo primario del Trattato : la creazione di un mercato unico che presenti le caratteristiche di un mercato nazionale unificato .
Gli effetti anticompetitivi sottesi all’esistenza e all’esercizio di tali diritti risultano aggravati dal fatto che, per il combinato disposto degli art. 30 e 295 del Trattato istitutivo della Comunità Europea, la loro definizione e applicazione resti prerogativa dei Legislatori nazionali.
Si aggiunga poi che in materia di diritto d’autore, la sola adesione alle Convenzioni internazionali non è mai stata sufficiente a determinare un riavvicinamento delle legislazioni nazionali.
La proposta “Nuova frontiera di sviluppo”, volta a costruire un’Europa non identificabile solamente in un grande mercato unico ma anche in termini di “Società dell’Informazione”, fu elaborata per la prima volta da Delors  nel Libro Bianco sullo “Sviluppo, competitività e occupazione” che venne presentato alle Istituzioni europee alla fine del 1993. Il messaggio politico espresso dalla presidenza Delors fu, in seguito, ripreso e ridefinito nel Rapporto su “L’Europa e la Società dell’Informazione globale” (meglio conosciuto come “Rapporto Bangemann” ), elaborato da un gruppo di eminenti personalità e presentato il 26 maggio 1994 al Consiglio d’Europa. Il Rapporto Bangemann sollecitava l’Unione ad affidarsi ai meccanismi del mercato, rimuovendo i vincoli e gli ostacoli derivanti dai contesti monopolistici e anticoncorrenziali che, ancora oggi, non permettono all’Europa di superare le situazioni di svantaggio competitivo in cui si trova.
Seguendo questa impostazione, il Rapporto conteneva un ampio capitolo riservato alla tutela del diritto d’autore nei sistemi informatici. In questo contesto, la Commissione ha presentato, nel tempo, una serie di atti normativi.
La prima è stata la Direttiva 91/250/CEE in materia di “tutela giuridica dei programmi per elaboratore” .
Sono seguite, quindi, la Direttiva 92/100/CEE  che ha introdotto alcuni diritti esclusivi (distribuzione, noleggio, prestito) in capo agli autori e ai titolari di diritti connessi; la Direttiva 93/83/CEE relativa al “diritto d’autore e diritti connessi applicabili alla radiodiffusione via satellite e alla ritrasmissione via cavo”  e quella (93/98/CEE, attuata con D.Lgs. 26 maggio 1997 n. 154) sulla “armonizzazione della durata di protezione del diritto d’autore e di alcuni diritti connessi”; importante, poi, la Direttiva 96/9/CE sulla tutela giuridica delle banche dati, recepita con D.Lgs. n. 169 del 6 maggio 1999.
A conferma dell’importanza riconosciuta alla materia in ambito comunitario, nel 2000 il diritto d’autore è stato inserito nella “Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea”, che può essere considerata il primo passo verso nascita di una futura Costituzione europea.
Soltanto nel 2001 viene emanata la Direttiva 2001/29/CE “sull’armonizzazione di taluni aspetti del diritto d’autore e dei diritti connessi alla Società dell’informazione” . Quest’ultima direttiva è stata emanata al fine di promuovere gli investimenti nelle infrastrutture informatiche e di incentivare la produzione e circolazione delle opere. Le discipline già emanate negli Stati membri per rispondere alle sviluppo tecnologico in materia di creazione, produzione e sfruttamento delle opere dell’ingegno, non possono prescindere da un’armonizzazione a livello comunitario che contribuisca a superarne le differenze e le incertezze normative.
Queste ultime potrebbero diventare ancora più evidenti con l’ulteriore sviluppo della società dell’informazione che ha già incrementato notevolmente lo sfruttamento transfrontaliero della proprietà intellettuale.
La Direttiva si pone sulla scia delle risultanze dei Trattati OMPI del dicembre 1996, che hanno “aggiornato notevolmente la protezione internazionale del diritto d’autore e dei diritti connessi anche per quanto riguarda il piano d’azione nel settore del digitale”; anzi essa “serve anche ad attuare una serie di questi nuovi obblighi internazionali” , in attesa di una loro ratifica. Il contenuto degli strumenti di tutela, infatti, nonché la stessa formulazione delle norme riprende, in determinati casi, quanto previsto dai Trattati OMPI.
Il diritto di comunicazione al pubblico, viene inteso come la comunicazione diretta ad un pubblico potenziale, “su filo o senza filo, compresa la messa a disposizione del pubblico in maniera che ciascuno possa avervi accesso dal luogo e nel momento scelti individualmente” (art. 3).
In questo caso la norma si riferisce alla pubblicazione di contenuti mediante trasmissioni interattive su richiesta (“on-demand”), tra le quali deve farsi, ovviamente, rientrare la trasmissione via Internet.
Il diritto di distribuzione (art. 4) è codificato, invece, sul modello dell’art. 17 della Legge 633 del 1941 come modificato dal D.Lgs 16 novembre 1994 n. 685.
L’art. 2, dimostrandosi particolarmente innovativo, riguarda il diritto di riproduzione.
La Direttiva 2001/29/CE in sostanze allarga il concetto che inizialmente era legato alla moltiplicazione dei supporti materiali. Per riproduzione si intende la copia “diretta o indiretta, temporanea o permanente, in qualunque modo o forma, in tutto o in parte”  di un materiale fedele all’originale.
È chiaro l’intento di allargare la tutela, che consiste nella necessaria autorizzazione degli aventi diritto, anche a quelle ipotesi di riproduzione che non si materializzino in beni materiali. Questo è il caso, ad es., delle copie Mp3 di brani musicali , nel caso in cui la riproduzione in sé presenti un chiaro risvolto economico .
Per quanto riguarda la cosiddetta “riproduzione digitale temporanea” vale, invece, la scriminante di cui all’art. 5 che prevede l’esenzione dal dovere di ottenere l’autorizzazione nel caso in cui si tratti di atti “privi di rilievo economico proprio”, cioè funzionali alla navigazione in rete e/o che siano “parte integrante ed essenziale di un procedimento tecnologico” .
In ogni caso nonostante l’adeguamento legislativo europeo, ci si chiede se quest’ultimo non abbia finito per oltrepassare in qualche modo limiti posti al diritto d’autore da principi ritenuti comunemente fondamentali per le moderne democrazie liberali, quali la libertà di espressione e la libera circolazione e fruizione delle idee e delle informazioni attraverso l’uso dei mezzi di comunicazione di massa.
Infatti il complessivo disposto della direttiva 2001/29 finisce per sancire la legittimità di veri e propri monopoli elettronici che mettono in discussione nel nuovo ambiente digitale la sopravvivenza di categorie quali il pubblico dominio e le libere utilizzazioni, relegandole in una posizione di preoccupante incertezza e subalternità .
Venendo ora alle direttive più recenti, esaminando il diritto d’autore in relazione alla privacy va evidenziato come spetta agli Stati decidere se, per assicurare la tutela del diritto d’autore, le società che forniscono servizi di comunicazione elettronica siano tenute a rivelare l’identità e l’indirizzo Ip delle persone alle quali hanno messo a disposizione un servizio di accesso a internet, che ha condotto a una violazione di alcuni diritti civili.
Quest’orientamento nasce a seguito di un’importanete sentenza della Corte di giustizia delle Comunità europee che, nella pronuncia risalente al 29 gennaio 2008 , non limita la libertà degli Stati nella scelta tra la volontà di privilegiare la tutela del diritto d’autore e il diritto alla protezione dei dati personali. Questo perché, chiarisce la Corte di giustizia, le direttive europee adottate in questi settori non impongono scelte obbligate negli ordinamenti nazionali. Ed invero, è stato proprio grazie alle direttive 95/46, 2002/58 e 2006/24 che gli Stati membri si sono dotati di una legislazione idonea ad assicurare la protezione dei dati personali, esigenza che si è via via rafforzata con l’utilizzo di strumenti come internet.
Anche l’Italia, d’altra parte, si è dotata di una normativa sulla tutela della privacy a seguito della spinta comunitaria. Infatti, la direttiva 95/46 è stata recepita con la legge n. 25 del 5 febbraio 1999 e la 2002/58 con legge n. 14 del 3 febbraio 2003. A ciò si aggiunga che il codice in materia di protezione dei dati personali, adottato con decreto legislativo 30 giugno 2003 n. 196, ha codificato gli atti comunitari nel settore e ha fissato nel titolo X, riguardante le comunicazioni elettroniche, le modalità di conservazione dei dati.
Il quadro tracciato nelle direttive parte dal presupposto che le società che si occupano di fornire servizi di comunicazione devono impedire la memorizzazione di dati senza il consenso degli interessati.
È stabilita, come regola generale, la cancellazione dei dati se non più necessari alla trasmissione di una comunicazione, a meno che il cliente non abbia dato il consenso al trattamento ai fini commerciali o nel caso in cui si tratti di dati necessari per la fatturazione o per il pagamento della connessione via internet.
La questione controversa è l’individuazione delle circostanze che impongono la trasmissione di dati a soggetti diversi rispetto a quelli che agiscono sotto il controllo delle società di fornitura dei servizi di comunicazione elettronica, partendo dal presupposto che l’indicazione degli utenti ai quali sono stati forniti indirizzi Ip in una determinata data e ora significa fornire dati personali, perché si tratta di informazioni su una persona fisica identificabile.
Punto centrale è quindi l’individuazione delle situazioni che permettono la divulgazione di questi dati con una inevitabil compressione della privacy. L’articolo 15 della direttiva 2002/58/Ce attribuisce agli Stati la possibilità di limitare l’obbligo di garantire la riservatezza dei dati sul traffico, a condizione che, in quanto deroga al principio generale di tutela della privacy, tale limite sia necessario, opportuno e proporzionato “all’interno della società democratica per la salvaguardia della sicurezza nazionale (cioè della sicurezza dello Stato), della difesa, della sicurezza pubblica e per la prevenzione, la ricerca, l’accertamento ed il perseguimento dei reati ovvero dell’uso non autorizzato del sistema di comunicazione elettronica”.
Tuttavia, come osservato dalla Corte, l’ultima frase dell’articolo 15 rinvia all’articolo 13 della direttiva 95/46 che consente agli Stati di derogare all’obbligo di riservatezza dei dati se ciò è necessario per la tutela dei diritti e delle libertà altrui.
Si tratta, di una deroga di portata molto più ampia rispetto a quelle specificate dall’articolo 15 che circoscrive il campo d’intervento degli Stati a questioni legate all’ordine pubblico o alla sicurezza nazionale.
Riconosciuto il potere d’intervento degli Stati che, nella predisposizione della legislazione interna sulla protezione dei dati personali, sono liberi, nei limiti disposti dalle direttive settoriali, di stabilire i casi in cui la tutela della riservatezza arretra dinanzi alla tutela di altri diritti, la Corte di giustizia è passata a verificare se un obbligo di prevedere la divulgazione di dati attinenti all’utilizzo di internet, possa essere rintracciato in altri atti di diritto comunitario derivato. Nel caso esaminato dalla Corte, la società Promusicae ha invocato le direttive a tutela del diritto d’autore e in particolare la 2004/48 .
Basta una simile direttiva a imporre un obbligo di divulgazione dei dati sugli Stati o addirittura su privati? La Corte di giustizia ha dato una risposta negativa, rilevando che dalla lettura di della direttiva nel suo complesso non si può desumere che gli Stati membri debbano imporre la divulgazione di dati personali per la tutela della proprietà intellettuale. Pertanto, non si può rinvenire una regola volta a limitare la libertà d’azione degli ordinamenti nazionali.
Del pari, un obbligo di tutela del diritto d’autore fino al punto di imporre una prevalenza di quest’ultimo su altri diritti come quello alla tutela dei dati personali non può essere rinvenuto nella Carta dei diritti fondamentali adottata a Nizza nel 2000. Nell’elenco dei diritti fondamentali, infatti, accanto al diritto di proprietà che include quello d’autore, vi è anche il diritto alla tutela dei dati personali. Questo vuol dire che nelle legislazioni interne gli Stati sono tenuti a contemperare i diversi diritti fondamentali. Pertanto, spetta ai Paesi membri, alla luce dei principi indicati nelle direttive, individuare i meccanismi che consentano il raggiungimento di un simile equilibrio, nel rispetto dei principi generali del diritto comunitario incluso quello di proporzionalità, tenendo conto però, che le direttive sul diritto d’autore non imponendo la preminenza di questo diritto su quello alla tutela dei dati personali, sembrano non voler incidere in alcun modo sulla disciplina fissata nelle direttive specifiche a tutela della privacy o imporre agli Stati la comunicazione dei dati personali ai titolari del diritto d’autore .
Ma le direttive in materia di diritto d’autore sono molte. Ed infatti occorre ricordare la 2006/115/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 12 dicembre 2006 concernente il diritto di noleggio, il diritto di prestito e taluni diritti connessi al diritto di autore in materia di proprietà intellettuale, che sostituisce la direttiva 92/100, oggetto nel passato di modifiche sostanziali a più riprese, con l’obiettivo di offrire una migliore chiarezza interpretativa e l’armonizzazione delle legislazioni nazionali in tema. Ed ancora la direttiva 2006/116/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 12 dicembre 2006 concernente la durata di protezione del diritto d’autore e di alcuni diritti connessi, che sostituisce la precedente 93/98, anch’essa nel tempo modificata in modo sostanziale. Anche qui l’obiettivo è quello di uniformare le legislazioni nazionali.
Tuttavia va evidenziato che malgrado l’affannoso iter di adeguamento delle legislazioni nazionali alle varie direttive, questo strumento ad oggi sembra del tutto inadeguato a perseguire seriamente l’obiettivo della creazione di un diritto d’autore uniforme nella società dell’informazione.
A trasposizione avvenuta infatti, restano profondamente incerti e divergono da Paese a Paese i confini negativi del diritto d’autore (eccezioni e limitazioni) come pure i meccanismi di tutela di certe categorie di utilizzazione.
E dunque in un ambiente tecnologico che favorisce sempre di più la comunicazione transnazionale, tali disarmonie sono certamente di grave ostacolo alla libera circolazione e commercializzazione d’opere in formato digitale nel c.d. mercato interno, sia per ciò che concerne la tradizionale distribuzione di supporti materiali, sia per le nuove modalità di distribuzione di formati intangibili attraverso Internet .
Infatti, a fronte di interpretazioni disomogenee nei venticinque paesi dell’unione europea si concretizzano forti disparità di trattamento tra autori, editori e utenti, secondo la diversa legge nazionale, applicabile a ciascun caso concreto.

2.3)  Le lacune normative e prospettive de iure condendo
L’innovazione tecnologica degli ultimi anni ha reso notevolmente inadeguati il corpus di leggi esistenti in materia di diritto d’autore a seguito dell’estrema facilità di riproduzione delle opere in formato digitale.
Tale formato consente di prescindere dal supporto materiale per la trasmissibilità del contenuto , la cui regolarità diventa perciò difficile da controllare.
Ne consegue che la condivisione telematica dei files in ambienti informatici come Internet costituisce, dal punto di vista del diritto d’autore, un problema centrale.
A partire da Internet, infatti, la condivisione di dati non avviene più all’interno di reti “proprietarie”, come avveniva nei modelli precursori EDI  ed ARPANET , bensì attraverso un sistema universale senza alcun limite spaziale, che rende la fruizione delle opere intrinsecamente transnazionale e non facilmente governabile .
Il problema per il diritto d’autore è, in primo luogo, di ordine pratico, a causa dell’estrema volatilità del contenuto  senza riguardo per alcuna frontiera geografica : mentre prima bastava sottoporre a rigidi controlli gli esemplari originali di ogni singola opera, ora la proliferazione di sistemi digitali di riproduzione consente a qualsiasi possessore di concorrere col fornitore d’opera originario nell’offerta di quel bene. Ciò ha provocato una sorta di mutazione genetica nel sistema di tutela offerta: le sanzioni per la violazione del diritto d’autore non sono più esclusivamente incentrate sulle attività correlate alla diffusione illecita del contenuto verso il pubblico, ma anche su quelle che avvengono in ambito privato.
Inoltre, nel contesto digitale entrano in gioco fattori ulteriori, quali il diritto all’informazione, alla diffusione, al libero accesso e all’anonimato; questi diritti si intrecciano con la disciplina del diritto d’autore sotto alcuni aspetti importanti.
Spesso il digitale ha dunque cercato di modificare il sistema di produzione e di trasmissione del contento di ogni opera. Allo steso modo, il codice informatico rappresenta un’arma di difesa a tutela degli autori. In sostanza, perciò, è uno strumento in grado di rafforzare il controllo sulle opere che in passato era garantito dal semplice processo di produzione.
Va evidenziato, inoltre, che questi strumenti fanno sorgere implicazioni secondarie che molto di frequente vengono trascurate da chi ritiene che la crittografia possa essere ricondotta molto semplicemente ad una mera questione di legittima difesa della proprietà.
Questo perché, in primo luogo non ci si sofferma a considerare la legittimità o meno del processo e in secondo luogo non si ritiene che l’animus possidendi sia di buona o male fede.
Infatti la tutela si esplica a salvaguardia della semplice detenzione con il rischio di sconfinamento dall’ambito di applicazione delle regole predeterminate dalla società civile con il relativo esercizio arbitrario delle proprie ragioni, in cui chi possiede un’opera a qualsiasi titolo può di fatto imporre la propria volontà al di là di quanto prescrivono le norme di legge.
Questa impostazione non si è affermata contemporaneamente all’origine del digitale: infatti, nonostante la rivoluzione del codice binario risalga a più di cinquant’anni fa (con l’invenzione dei primi computers ), la piattaforma digitale ha effettivamente attratto il contenuto solo negli ultimi dieci grazie al raggiungimento, da parte dei computers, di una velocità ed una memoria tali da trasmettere un vasto insieme di informazioni, nonché alla loro generalizzazione sul mercato associata alla rapida evoluzione degli standards tecnologici e ad un continuo calo dei prezzi.
Questo ha permesso lo sviluppo di peculiari caratteristiche come ad es., la portabilità, la facilità di gestione di localizzazione e la qualità della riproduzione, nonché lo sfruttamento di una distribuzione economica, facile e veloce tramite le reti .
Nel nuovo scenario, il diritto d’autore ha trovato numerose difficoltà dovute alla completa assenza di regole idonee a gestire le nuove tecnologie .
Un ruolo fondamentale lo hanno avuto le pressioni esercitate dai vari gruppi di pressione o lobbies , come quella che si impone con forza per timore di un completo tramonto del diritto d’autore tradizionale , che vede come unica via di uscita quella di rafforzare la protezione delle opere con lo strumento delle Misure Tecnologiche, che di fronte alle varie attività di riproduzione e trasmissione avevano il pregio di assicurare una tutela fattuale (al di là delle statuizioni e dei divieti riscontrabili nella legge).
Di fronte alla svolta tecnologica i trattati WIPO  del 1996, profilavano la soluzione ottimale schierandosi (pur nella consapevolezza dei problemi che potevano conseguirne: in primis, la sfida dell’interoperabilità ed il rispetto della privacy e l’influenza sulla ordinaria gestione collettiva dei diritti tramite le collecting societies ) a favore delle misure tecnologiche di protezione dei diritti d’autore . Va evidenziato a tal proposito che si sarebbe dovuto tener maggior conto del fatto che in passato, in parallelo alle grandi innovazioni tecnologiche, si è sempre modificata la disciplina legislativa vigente per evitare la paralisi del progresso derivante dalle innovazioni tecnologiche .
Un esempio è la scoperta di Gutenberg nel XV secolo (la stampa) che ridefinì il potere fattuale che era associato al possesso dell’opera, fondamentale per l’autore in quanto godendo della difficoltà di riproduzione esercitava una pressione sul mercato.
La stampa quindi rivoluzionò completamente le logiche di mercato e quindi le considerazioni alla base degli autori  (fino ad allora essenzialmente spinti da interessi idealistici), e configurò un nuovo potere in capo alla corporazione degli stampatori (consistente essenzialmente nel privilegio di pubblicare una data opera o un intero genere di opere sulla base di licenze o concessioni rilasciate dai sovrani, che in cambio arricchivano il loro potere di un controllo sulle idee contenute nelle opere che venivano pubblicate ).
In questo caso il legislatore non ha opportunamente apportato adeguamenti alla legislazione seguendo le ragioni degli autori in virtù del fatto che in questo caso era in gioco la possibilità di garantire la permanenza di una fetta di mercato assai rilevante delle opere dell’ingegno, e con un potenziale di crescita sempre maggiore: il mercato di Internet e più in generale del formato digitale. Questa linea interpretativa del legislatore si spiega con l’accoglimento del progresso in relazione alle “capacità di mercato”.
L’associazione di questa posizione del legislatore e della discrezionalità lasciata dai trattati WIPO appare come una eccessiva preclusione all’utilizzo delle possibilità offerte da Internet e dalle nuove tecnologie digitali. Su questo punto va evidenziato che in base alle normative emanate in attuazione dei trattati WIPO sia in Europa che negli Stati Uniti si rileva una cristallizzazione dell’evoluzione tecnologica che impedisce la fabbricazione (o comunque il pieno sfruttamento ) di alcuni programmi (magari di per sé utilissimi e particolarmente innovativi) che tra le funzioni possibili ne abbiano anche una che comporta o è in grado di comportare l’elusione di misure tecnologiche di protezione.
In questo quadro il diritto d’autore si inserisce per trovare il giusto equilibrio tra gli incentivi alla produzione creativa (tipicamente concretizzati nell’assegnazione di monopoli) e la repressione della produzione di strumenti potenzialmente dannosi per tali “creazioni”.
Si aggiunga come notato da Marco Ricolfi , che una delle principali trasformazioni avvenute con la digitalizzazione dell’ordinamento, consiste nel fatto che il “terzo” è diventato, più spesso, il grande detentore privato di diritti connessi all’opera dell’autore.
Oltre ai gravi problemi legati alla pirateria e alla criminalità organizzata, alle ricadute sull’occupazione e l’economia, basti accennare alla pletora di denunce per violazione di copyright o altri diritti di proprietà intellettuale, che ha visto opporsi non solo il Congresso americano alla Cina, sul piano dei trattati WTO, ma anche alcuni dei più importanti protagonisti dell’economia mondiale.
Tra gli innumerevoli esempi possibili mi limito a segnalare lo scontro tra Qualcomm e Nokia nella primavera 2007, la denuncia nel maggio di quell’anno di Microsoft, attraverso Brad Smith , contro Linux e OpenOffice, rei rispettivamente di violare 42 e 45 brevetti della Microsoft, la lite sul software dei cellulari tra Motorola e Fujifilm nel settembre 2007, fino alla causa intentata da Viacom nei confronti di Google per la supposta reiterata “massiccia violazione intenzionale del copyright” da parte di YouTube  .
Un esempio ancora di riferimento sulla lacunosità delle norme è dato dal caso che ha visto coinvolto iTunes , uno dei più famosi on-line music store. Si tratta, di uno dei più famosi e frequentati negozi virtuali di musica dove è possibile acquistare, attraverso il download, sia interi album musicali che singoli brani.
Questo servizio di musica on-line ha, tra le sue caratteristiche peculiari, quella di variare le proprie condizioni generali di contratto attraverso un sistema di DRM chiamato “FairPlay”. Secondo i termini di utilizzo del servizio, il provider si riserva il diritto di modificare, sostituire o correggere discrezionalmente le condizioni e i termini relativi all’utilizzo dei files scaricati dagli utenti .
Tale meccanismo di modifica contrattuale unilaterale delle condizioni d’uso dei files già legittimamente acquistati dagli utenti del servizio, può essere di fatto imposto e reso efficace attraverso una semplice modifica dei sistemi di Digital Rights Management che sovraintendono alla corretta gestione delle licenze di utilizzo ed accesso ai contenuti protetti.
All’interno del mercato europeo, tale comportamento risulta contrario alle regole stabilite dalla direttiva 93/13/CEE del Consiglio, del 5 aprile 1993, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori
Tale direttiva ha avvicinato le disposizioni degli Stati membri sulla presenza di clausole che, nei contratti stipulati fra un libero professionista ed un consumatore, stabiliscono condizioni particolarmente favorevoli per chi li predispone e particolarmente sfavorevoli per il consumatore che vi aderisce.
La clausola presente nel contratto standard di iTunes, non soggetto a negoziazione è, verosimilmente, da ritenersi abusiva, in quanto comporta a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto.
Secondo quanto dispone la direttiva 93/13/CEE, un tale comportamento è riconducibile ad alcune delle fattispecie contemplate nell’allegato contenente l’elenco indicativo e non tassativo di clausole che possono essere dichiarate abusive. Specificatamente, la direttiva fa riferimento a quelle clausole che hanno per oggetto o per effetto quello di autorizzare il professionista a modificare unilateralmente le condizioni del contratto senza valido motivo specificato nel contratto stesso”  oppure di “autorizzare il professionista a modificare unilateralmente, senza valido motivo, alcune caratteristiche del prodotto o del servizio da fornire” .
Sulla base delle argomentazioni suesposte, il 25 gennaio 2006 l’associazione norvegese a tutela dei consumatori ha presentato un esposto all’autorità garante norvegese per i consumatori (Forbrukerombudet: Mr. Bjørn Erik Thon) lamentando una violazione di fondamentali diritti dei consumatori da parte del servizio iTunes Music Store Norvegia. Benché la Norvegia non faccia parte dell’Unione ma soltanto del cd. Spazio Economico Europeo (EEA), il suo quadro normativo interno in materia di diritto d’autore e di protezione dei consumatori è perfettamente conforme a quello dei ventisette paesi appartenenti all’Unione. Per questo motivo l’Ombudsman norvegese ha potuto riscontrare che alcune delle condizioni contrattuali presenti nel servizio di Apple iTunes sono palesemente in contrasto con il paragrafo 9a del Marketing Control Act norvegese . Tale provvedimento normativo implementa nell’ordinamento del paese scandinavo la direttiva 93/13/CEE sulle clausole abusive nei contratti stipulati dai consumatori.
Il paragrafo 9a prevede che: “i termini e le condizioni che sono applicate o che si intendono applicare in una pratica commerciale avente come controparte un consumatore possono essere proibite se i termini e le condizioni sono considerati ingiusti per i consumatori e se le considerazioni generali richiedono una tale proibizione. Nel determinare se i termini e le condizioni di un contratto siano ingiusti, sarà messo in evidenza l’equilibrio fra i diritti e gli obblighi delle parti e se il rapporto contrattuale è ben definito oppure no” Sulla base di tale provvedimento normativo il garante norvegese, su richiesta di un’associazione di consumatori o di un’altra autorità, può intervenire e proibire l’uso di condizioni inique in contratti con consumatori).
Nel caso in discussione l’Ombudsman ha ritenuto di poter considerare vessatorie alcune delle condizioni contrattuali stabilite da iTunes.
In particolare ha considerato inique le clausole nelle quali Apple si riserva il diritto di modificare senza alcun avviso i termini di utilizzo del servizio, nonché l’esclusione di responsabilità per virus o altri danni ai sistemi hardware derivanti dall’attività di download di brani musicali dal proprio servizio.

2.4) Le misure tecniche a tutela dell’opera digitale
Le misure tecnologiche di protezione (MTP) sono state suddivise  dalla dottrina in gener  e da quella internazionale  in due categorie: misure anti-accesso e misure anti-copia.
Le Misure anti-copia sono quelle più utilizzate dalle grandi case discografiche, anche nel mercato off-line. Esempi: SCMS (Serial Copy Management System), LaserLock, CopyControl e Key2Audio.
Queste misure servono al fine di rendere tecnicamente possibile il commercio di musica in forma protetta attraverso tecniche di filtraggio.
Le misure c.d. anti-accesso permettono l’utilizzazione delle opere solo a soggetti autorizzati e possono applicarsi sia ad un servizio sia ad un contenuto.
Più precisamente rientrano in questa categoria i classici codici d’accesso o password, che possono essere richiesti sia per un singolo bene o servizio o per l’accesso ad una determinata area protetta. Questo sistema viene solitamente sconsigliato in quanto facilmente eludibili.
Altri tipi di misure anti-accesso sono i c.d. watermarking e il c.d. fingerprinting che sono due sistemi che associano all’opera una sorta di “tatuaggio digitale” o marchio digitale (si parla rispettivamente di apposizione di “filigrana” e di “impronta digitale”) che non può essere elusa e può essere sia visibile che invisibile all’utente, in modo da renderla rintracciabile anche nel caso di compressione o trasformazione in altri formati.
Questi ultimi sistemi, oltre alla estrema difficoltà nelle operazioni di elusione delle protezioni, permettono di rintracciare l’opera anche se questa viene masterizzata su un altro supporto tangibile. Watermarking e fingerprinting possono interagire con altre tecnologie che consentono di identificare e “tracciare” le copie dei contenuti digitali e gli utenti degli stessi. Il primo tipo di marchiatura elettronica è stato il GRId (Global Release Identifier), una versione elettronica dell’UPC (Universal Product Code, cioè il codice a barre utilizzato per la vendita dei CD).
Rientrano inoltre nelle misure c.d. anti-accesso tutte quelle tecniche di crittografia, che presuppongono l’utilizzo della chiave per la decrittazione.
Le opere criptate sono contenute in c.d. “buste o contenitori digitali” (digital envelopes o containers) che includono informazioni circa l’uso, il titolare dei diritti e le condizioni d’uso. Abitualmente però non risolvono il problema, perché una volta rimossa la cifratura da chi era autorizzato, l’opera diventa nornalmente accessibile e facilmente applicabile.
Vanno incluse nelle misure anti-accesso anche il c.d. metering system, che registra tutti gli utilizzi di un’opera, le tecniche ECMS (Electronic Copyrights Management System), che identificano le opere, controllano la circolazione del materiale protetto in rete e corrispondono un compenso ai titolari. Esse si basano su un codice detto DOI (Digital Object Identifier System) , e le tecniche DRMS (Digital Rights Managment Systems), che consentono ai titolari di avere un controllo sulle opere fornendo le chiavi all’utente per rendere possibile l’effettuazione delle varie operazioni (tipico sistema utilizzato per gli e-books).
Ma in base a questa suddivisione vano evidenziate non solo la inadeguatezza della suddivisione delle misure tecnologiche di protezione, ma altresì l’imprecisione dei termini utilizzati dal nostro ordinamento.
Infatti, ci si è direi distanziati  dal concetto che era stato descritto più precisamente dalla EUCD come “misure a tutela del titolare dei diritti d’autore, dei diritti connessi e del diritto c.d. sui generis  previsto dalla dir. 96/9” .
Un’idea dell’imprecisione e della incompletezza del concetto di misure “anticopia” è rappresentato dalla catalogazione in esse delle tecnologie volte ad impedire l’attività di streaming , la cui violazione non comporta alcuna copia sul disco rigido del computer dell’utente.
Va sottolineato che tale imprecisione non sia altro che un segno evidente di come il baricentro della normativa che ha introdotto le misure tecnologiche di protezione del diritto d’autore graviti intorno all’interesse preminente di alcuni gruppi di pressione al fine di impedire l’accesso alle opere digitali.
Così continua ad essere utilizzato nel cyberspazio  il modello di tutela del diritto d’autore incentrato essenzialmente sull’attribuzione di un diritto di esclusiva .
Si è quindi sostenuta l’adeguatezza delle norme già esistenti, seppur con qualche adattamento (nel caso in questione per l’appunto con il rafforzamento del diritto d’autore tramite l’apposizione di misure tecnologiche di protezione e l’irrogazione di sanzioni per le condotte di aggiramento).
La sfida lanciata alla legge dalle tecnologie è dunque stata sempre più ricorrente, e l’esito delle molteplici intersezioni tra diritto e tecnologia ha rappresentato uno snodo centrale ai fini della risoluzione di molte problematiche inerenti i più svariati settori del diritto.
Ebbene, la produzione delle informazioni digitali e la diffusione dei servizi interattivi sono fenomeni che hanno completamente rivoluzionato le condizioni di accesso alla conoscenza come pure le modalità di distribuzione dei contenuti .
Il controllo sull’informazione, essenzialmente basato sull’uso del contratto, della tecnologia e del diritto d’autore, è stato trasformato e rimodellato dalla rivoluzione digitale .
Contratto e tecnologia, infatti, hanno stabilmente preso il sopravvento sul diritto.

2.5 La giurisprudenza in materia di misure tecniche di protezione
Appare quindi interessante dar conto delle posizioni di alcuni organi giudiziari e di garanzia di fronte a casi di mancata informazione sulle limitazioni imposte dall’uso di DRM, nonché a pratiche contrarie agli interessi degli utenti e del mercato.

2.5.1 Il caso Sony-BMG rootkiti
Un primo è conosciuto come Sony-BMG rootkit  ed è un esempio di come, nell’impiego di contenuti digitali, il consumatore ha la possibilità di avere forme di riconoscimento di proprie prerogative anche al di fuori  del diritto d’autore. Il caso si riferisce all’uso nei CD musicali commercializzati da Sony-BMG di un sistema tecnologico anti copia chiamato XCP (i.e. Extended Copyright Protection) . Tale sistema di protezione ha come effetto quello di installare un particolare software sui computers degli utenti che intendono ascoltare tali CD attraverso i propri lettori.
Uno dei problemi principali relativi a tale protezione, è essenzialmente legato al fatto che l’installazione di tale software, seppur dichiarata nell’End Users License Agreement (EULA), difetta sia di un’idonea identificazione che di uno strumento di rimozione. Inoltre tale programma è in grado di interferire con il normale funzionamento del sistema operativo Microsoft Windows, nonché con la lettura degli stessi CD musicali.
Soprattutto si è riscontrato che l’installazione di tale software ha come effetto collaterale quello di aprire delle “falle di sicurezza”. In altri termini esso produrrebbe una breccia nel sistema operativo utilizzabile per accedere al computer e quindi alle informazioni ivi contenute. Il computer infetto è pertanto potenzialmente vulnerabile, consentendo l’accesso a qualsiasi informazione, comprese quelle di carattere confidenziale, all’invio di informazioni riservate, nonché all’attacco di virus.
L’EULA di Sony BMG non dichiarava la reale natura del software installato né i rischi di sicurezza e privacy creati e neppure la pratica impossibilità di rimozione oltre ad altri potenziali problemi per il sistema operativo ed il computer dell’utente. Al contrario l’EULA travisava la reale natura del software includendo condizioni ambigue ed alquanto restrittive.
Non appena gli utenti e le associazioni dei consumatori sono venuti a conoscenza della questione sono state intentate più di venti cause contro Sony BMG in Canada, Stati Uniti ed Europa.
Nel novembre del 2005, in seguito alla scoperta dell’uso di tale surrettizio e discutibile strumento anti-copia, il procuratore generale dello Stato del Texas ha promosso un’azione collettiva contro Sony-BMG  sulla base del Texas’ Consumer Protection Against Computer Spyware Act of 2005 (“Texas Spyware Act”). Nel resto degli Stati Uniti altre azioni collettive sono state consolidate e conciliate. Molte di queste class actions sono state promosse in California dall’ Electronic Frontier Foundation sulla base di un’asserita violazione del California’s Consumer Protection Against Computer Spyware Act.

2.5.2  Il caso CLCV – EMI Music France
Un altro caso interessante attiene al caso francese, conosciuto come CLCV – EMI Music France .
L’associazione di consumatori Consommation, Logement et Cadre de Vie (CLCV) ha promosso una causa nei confronti della succursale francese della casa discografica EMI Music, lamentando la mancanza di sufficienti e corrette informazioni fornite ai consumatori di CD musicali dotati di tecnologie anti-copia . In particolare, il giudice della Corte di prima istanza ha considerato che la mancata informazione nei confronti dei consumatori circa il fatto che un medium digitale, come il compact disc, possa non funzionare correttamente su alcuni lettori multimediali, può effettivamente rappresentare una “tromperie sur les qualités substantielles des CD”, ovvero un inganno sulle qualità sostanziali del supporto digitale. Per questa ragione, l’assenza di informazioni tanto rilevanti può costituire un comportamento ingannevole circa la natura e le qualità sostanziali del prodotto così come riconosciuto dall’articolo L213-1 del Code de la Consummation.
In seguito la Corte d’appello di Versailles ha confermato la decisione del Tribunale de Grande Instance di Nanterre, rigettando gli argomenti richiamati a propria difesa da EMI Music France .
In questo caso il tribunale ha ordinato alla casa discografica di provvedere affinché i propri prodotti fossero opportunamente etichettati con l’indicazione delle eventuali limitazioni all’utilizzo connesse con la presenza di sistemi di protezione.
Questi tre esempi offrono, una chiara testimonianza di come l’attuale sistema economico transnazionale sia spesso in contrasto con gli ordinamenti giuridici nazionali, incapaci di conformarsi rapidamente ai cambiamenti in atto nella società.

CAPITOLO 2
Il COPYRIGHT NEGLI STATI UNITI

  1. Cenni introduttivi relativi al copyright
    Il c.d. copyright è il sistema che presiede alla tutela degli interessi degli autori sulle opere dell’ingegno  vigente sia nella legislazione  anglosassone che in quella statunitense .
    Ma per comprendere la genesi del copyright statunitense occorre indagare a fondo le circostanze storiche che precedettero la redazione della intellectual property clause costituzionale.
    Ed invero nel 1782, Thomas Paine, in una lettera aperta indirizzata ad un cronista francese della rivoluzione americana, l’abate Raynal, espresse l’auspicio che, terminato lo sforzo bellico, i giovani Stati americani si dotassero al più presto di una legislazione a tutela della proprietà letteraria, sull’esempio di tutti quei Paesi nei quali la tutela dell’impegno creativo dell’autore aveva posto le condizioni perché una letteratura nazionale prendesse a svilupparsi
    Ma nel dopoguerra il problema di una regolamentazione oltre che sul piano politico, cominciò ad essere percepito più nettamente anche nei suoi contorni giuridici. In quegli anni i giuristi d’oltreatlantico familiarizzavano infatti con la concezione blackstoniana (e quindi mainsfeldiana) della proprietà letteraria, veicolata dalle 1400 copie dei Commentaries on the Law oJ England smerciate nel biennio 1781-¬82 dall’editore Beli di Philadelphia .
    Fu dunque la versione giusnaturalistica e proprietaristica del copyright  illustrata nei Commentaries e non quella positivistica ed utilitaristica delineatasi dopo il caso Donaldson a rendersi da subito moneta corrente nel bagaglio culturale dei giuristi statunitensi della neonata nazione. Le implicazioni di questo fenomeno non tardarono a manifestarsi.
    Successivamente Il 10 marzo del 1783 il Congresso della Confederazione incaricò un comitato di esperti, nel quale spiccava il nome di James Madison, di studiare “the most proper means of cherishing genius and useful arts through the United States by securing to the authors or publisher of new book their property in such works”. Su parere favorevole del comitato di esperti, il Congresso emanò il 2 maggio 1783 una raccomandazione non vincolante rivolta ai singoli Stati, nella quale si indicava l’opportunità di proteggere (securing) in via legislativa il copyright sui libri per un periodo non inferiore a 14.
    L’atto di indirizzo del Congresso interstatale accelerò il processo di adozione dei copyright statutes da parte degli Stati nati dalle ceneri del New England, che si compì, in New Jersey, New Hampshire e Rhode Island quello stesso anno, per poi proseguire nel 1784 in Pennsylvania, South Carolina, in North Carolina e Virginia nel 1785, e chiudersi in Georgia e nello Stato di New York nel corso del 1786 .
    Sul piano applicativo, le legislazioni sul copyright degli Stati confederati ebbero una modesta incidenza nel breve periodo in cui furono vigenti prima dell’emanazione della legge federale sul copyright del 1790: solo pochi autori espletò le formalità richieste in ciascun Stato per usufruire dei meccanismi di tutela, mentre non è rimasta traccia di applicazioni giurisprudenziali di queste normative. Nondimeno, le legislazioni post-coloniali giocarono un ruolo chiave nel delineare i futuri sviluppi che i Framers avrebbero impresso al copyright statunitense.
    Ma alla vigilia dell’avvio dei lavori che avrebbero condotto all’inserimento della lntellectual Property Clause nella Costituzione federale, il modo di concepire la tutela dell’autore oltreatlantico era ancora lontano dall’identificare univocamente quale fosse la raison d’ètre concettuale dei diritti riconosciuti ai creatori delle opere letterarie.
    Ebbene nella stesura del testo della Costituzione, l’idea che agli autori potesse essere riconosciuto il diritto al monopolio sul copyright venne proposta – e subito rifiutata.
    Quest’impostazione seguita dai Padri Fondatori  era sorretta in virtù del principio secondo cui il copyright non è un diritto naturale degli autori, quanto piuttosto una condizione artificiale concessa loro per il bene del progresso .
    In quest’ottica, è stato pertanto inserito nella Costituzione degli Stati Uniti il seguente paragrafo (articolo I, sezione 8): “Il Congresso avrà il potere di promuovere il progresso della scienza e delle arti utili, garantendo per periodi di tempo limitati ad autori e inventori il diritto esclusivo ai rispettivi testi scritti e invenzioni”.
    In realtà la Corte Suprema ha ripetutamente affermato che promozione del progresso significa apportare dei benefici agli utenti delle opere sotto copyright .
    Malgrado ciò,  nella Costituzione statunitense il copyright viene soltanto consentito in quanto opzione possibile.
    Il sistema del copyright funziona infatti tramite l’assegnazione di privilegi e relativi benefici per editori e autori: ad esempio fornendo  un incentivo agli autori a scrivere di più e agli editori a pubblicare di più. Insomma, il governo utilizza i diritti naturali del pubblico, a nome di quest’ultimo, come parte di una trattativa contrattuale finalizzata ad offrire allo stesso pubblico una maggior numero di opere. La dottrina americana definisce questo concetto “contratto sul copyright”.
    Ci si chiede tuttavia  se l’esistenza di un tale contratto può davvero considerarsi un buon affare per il pubblico. E tra l’altro se sia possibile considerare molte altri accordi alternativi e tra questi quale sia il migliore. Ogni singola questione inerente le procedure sul copyright rientra nel contesto di una simile domanda.
    La Costituzione autorizza l’attribuzione dei poteri di copyright agli autori. In pratica, costoro tipicamente li cedono agli editori; generalmente spetta a questi ultimi, non agli autori, l’esercizio di tali diritti onde trarne la maggior parte dei benefici economici. Ne consegue che normalmente sono gli editori a spingere per l’incremento dei diritti patrimoniali conferiti dal copyright.
    Il contratto sul copyright dunque pone il pubblico al primo posto: il beneficio per il fruitore è un fine in quanto tale; i benefici per gli editori non rappresentano altro che un mezzo per il raggiungimento di quel fine.
    Ed invero, si dice spesso che la legislazione statunitense sul copyright mira al “raggiungimento di un equilibrio” tra gli interessi degli editori e quelli dei lettori. I sostenitori di questa interpretazione la presentano come una riproposizione delle posizioni di partenza affermate nella Costituzione; in altri termini, ciò viene ritenuto l’equivalente del contratto sul copyright.
    Ma le due interpretazione sono tutt’altro che equivalenti; sono differenti a livello concettuale, come pure nelle implicazioni annesse. L’idea di equilibrio dà per scontato che gli interessi di editori e fruitori differiscano per importanza soltanto a livello quantitativo. Le conseguenze di una simile alterazione della situazione appaiono di ampia portata, perché la grande protezione del pubblico inclusa nel contratto sul copyright viene ripudiata dall’interpretazione del “raggiungimento di un equilibrio” .  A livello pratico, la conseguenza di tale concetto di “equilibrio” consiste nel ribaltare l’onere di motivare i cambiamenti da apportare alle legislazioni in materia. Il contratto sul copyright prevede che gli stessi editori convincano i c.d. fruitori a cedere loro determinate libertà. Praticamente l’idea di equilibrio capovolge quest’onere, perché in genere non esiste alcun dubbio che gli editori trarranno beneficio dalle attribuzioni aggiuntive. Così, a meno di non comprovare un danno arrecato ai lettori, sufficiente da “pesare di più” di tale beneficio, siamo inclini a concludere che agli editori vada garantito pressoché qualsiasi privilegio richiesto.
    L’idea del “raggiungimento di un equilibrio” tra editori e lettori va respinta, in quanto nega a questi ultimi la priorità cui hanno diritto.
    Un altro “errore” che potrebbe riscontrarsi nella legislazione statunitense  consiste nell’adottare l’obiettivo di massimizzare la quantità di opere pubblicate, non soltanto di incrementarle.
    Il principio del “raggiungimento del giusto equilibrio” aveva posto gli editori al medesimo livello dei lettori; questo secondo errore li eleva molto al di sopra .
    E così l’accettazione dell’obiettivo di massimizzare la quantità delle pubblicazioni comporterebbe il rifiuto aprioristico di tutti questi accordi più saggi e vantaggiosi – tale posizione imporrebbe al pubblico di cedere quasi tutte le propria prerogative di utilizzo delle opere pubblicate, in cambio di un incremento modesto delle pubblicazioni.
    In pratica, l’obiettivo di massimizzare le pubblicazioni prescindendo dal prezzo imposto alla libertà si fonda sulla diffusa retorica secondo cui la copia privata sia qualcosa di illegale, ingiusto e intrinsecamente sbagliato .
    In genere la retorica del “pirata” viene accettata perché inonda a tal punto tutti i media che pochi riescono ad afferrarne la radicalità. Si dimostra efficace perché la copia a livello privato è fondamentalmente qualcosa di illegittimo. In altre parole, quando il pubblico viene sfidato a spiegare perché gli editori non dovrebbero ottenere ulteriori poteri, il motivo più importante di tutti – “vogliamo copiare” – subisce una degradazione aprioristica.
    Ciò non lascia spazio per controbattere l’incremento di potere assegnato al copyright se non ricorrendo a questioni collaterali. Di conseguenza oggi l’opposizione al maggior potere del copyright poggia quasi esclusivamente su tali questioni collaterali.
    A livello pratico, l’obiettivo della massimizzazione consente agli editori di sostenere che una pratica che consente la c.d. copia privata porta alla riduzione delle vendite e ciò di conseguenza è la causa della diminuzione di una quantità imprecisata di pubblicazioni, e di conseguenza occorre proibirla”.
  1. La legislazione statunitense in materia di copyright
    In tema di diritto d’autore il Copyright Act  del 1976 successivamente modificato nel 1998 ha completamente riscritto la regolamentazione federale statunitense – rìdisegnando, tra l’altro, i criteri della federal preemption – e l’ha integrata nel title 17 dell’United States Code.
    Si tratta di una legge complessa e di mole notevole (anche rispetto agli standard americani), che giunge in porto a quasi settanta anni dalla precedente disciplina in materia (il Copyright Act del 1909). La sua gestazione è stata lunga (circa vent’anni) e travagliata in conseguenza dell’acceso confronto tra i vari gruppi di pressione coinvolti nel processo legislativo.
    Nonostante le molte disposizioni ritagliate su interessi settoriali, la legge presenta anche la “codifica” alla sec. 107 di una delle doctrines più emblematiche del copyright statunitense: il fair use .
    La formulazione in termini di clausola generale, ovvero il tentativo di stilare un elenco (non esaustivo) dei quattro più importanti fattori che la giurisprudenza americana aveva fino a quel momento utilizzato per dichiarare fair l’utilizzo potenzialmente illecito di un’opera dell’ingegno, rende la sec. 107 profondamente diversa dalle norme italiane sulle libere utilizzazioni.
    Tuttavia la norma citata non definisce cos’è un fair use ma si apre esplicitando che lo stesso include qualsiasi forma di utilizzazione compresa la riproduzione in copie o fonogrammi e si riconnette a scopi come la critica, il commento, la cronaca, l’insegnamento, lo studio e la ricerca. Come detto sopra la legge n. 633/1941 vigente in Italia, invece, non contiene una clausola generale paragonabile a quella della sec. 107 Unites State Code ma al contrario presenta una disciplina sintetica, frammentaria e restrittiva delle libere utilizzazioni .
    Infatti tutte le disposizioni (65-71) consistono in compressioni del diritto di riproduzione, che possono riflettersi anche sul diritto di distribuzione.
    Per quanto riguarda il campo di applicazione del “Copyright Act” questo presenta un elenco non tassativo di categorie di opere ed un riferimento generico al criterio dell’originalità.
    Infatti circa le tipologie di opere protette va detto che la sec. 102 dell’USC fa riferimento a categorie generali, e va perciò letto tenendo presente le altre disposizioni ed in particolare le definizioni della sec. 101 (dalle quali si evince che sono incluse nella tutela da copyright opere con caratteristiche particolari come gli useful articles, le compilations e, dal 1980, i computer programs).
    Un’importante peculiarità nordamericana sta nell’indicazione tra le categorie di opere protette dei “sound recordings”. La tutela delle “registrazioni sonore” risale ad una legge del 1971 (il Sound Recording Amendament Act che aveva novellato il Copyright Act del 1909) poi integrata nel Copyright Act del 1976. Essa risponde ad un’istanza di tutela che nel nostro ordinamento è stata accolta ponendo regole specifiche mediante diritti connessi (v., in particolare, art. 72 e ss. della 1. 633/41). I diritti sulle “registrazioni sonore” sono indipendenti dai diritti sulla composizione musicale e possono essere vantati da interpreti e produttori delle registrazioni. Per opera della lobby degli organismi di diffusione radiotelevisiva, qualsiasi forma di performance right è stata esclusa dai diritti sulle registrazioni sonore fino a tempi recenti. Con l’avvento dell’era digitale ed il riavvicinamento – al fine di far fronte comune contro la pirateria – degli interessi gravanti sulle registrazioni sonore, è stato emanato il Digital Performance Right in Sound Recordings Act del 1995, codificato alla sec. 106 del title 17 dell’ Unites State Code, il quale riconosce un limitato exclusive right “in the case of sound recordings, to perform the copyrighted work publicly by means of a digital audio transmission”
    Per quanto concerne invece la titolarità dei diritti esclusivi il fascio degli exclusive rights elencati dalla sec. 106 dell’ Unites State Code presenta alcune differenze rispetto alla normativa italiana dei diritti di utilizzazione economica. La sec. 106 statuisce quanto segue: “the owner of copyright under this title has the exclusive rights to do and to authorize any of the following”:
    (1) to reproduce the copyrighted work in copies or phonorecords; (2) to prepare derivative works based upon the copyrighted work;
    (3) to distribute copies or phonorecords of the copyrighted work to the public by sale or other transfer of ownership, or by rental, lease, or lending;
    (4) in the case of literary, musical, dramatic, and choreographic works, pantomimes, and motion pictures and other audiovisual works, to perform the copyrighted work publicly;
    (5) in the case of literary, musical, dramatic, and choreographic works, pantomimes, and pictorial, graphic, or sculptural works, including the individual images of a motion picture or other audiovisual work to display a copyrighted work publicly and
    (6) in the case of sound recordings, to perform the copyrighted publicly by means of a digital audio transmission .
    Una prima differenza che salta all’occhio sta nella mancanza nella legge statunitense di una clausola come quella contenuta nell’art. 12 comma 2 legge n. 633 del 1941 che induce ad interpretare l’elencazione dei diritti in maniera esemplificativa. Un’altra evidente differenza emerge dalla maggiore estensione delle categorie americane.
    La maggiore peculiarità statunitense sta però nella definizione di performance right e display right. Il primo riguarda una modalità dinamica dello sfruttamento dell’opera, il secondo una modalità statica. In questo senso il performance right si identifica con il diritto di rappresentare o eseguire in pubblico opere teatrali, balletti, film, letture di  opere letterarie; specificamente, esso copre ogni forma di sfruttamento, che rende percepibile alla vista, o all’udito.
    Mentre, il display right può essere descritto come il diritto di esporre in pubblico quadri, sculture, fotografie, singoli fotogrammi di un film. Entrambi i diritti di esclusiva riguardano solo atti di sfruttamento dell’opera che avvengano in pubblico.
    La legge italiana invece adotta una diversa configurazione delle forme di sfruttamento non connesse alla riproduzione di copie, basandosi sulla dicotomia tra diritti di rappresentazione, esecuzione e recitazione (che si riferiscono ad atti di sfruttamento di fronte ad un pubblico presente) e diritti di comunicazione e diffusione (che invece riguardano forme di utilizzazione basate su tecnologie di comunicazione a distanza) .
    Se il right to make copies ed il right to prepare derivative works possono essere considerati rispettivamente corrispondenti ai nostri “diritto di riproduzione” e “diritto di elaborazione”, qualche chiarimento merita il contenuto del distribution right. Il distribution right comprende ogni forma di commercializzazione di copie o fonogrammi dell’opera, ma occorre tenere a mente che la sec.101 equipara la pubblicazione alla distribuzione, specificando – con una disposizione simile a quella dell’art. 3, comma 3 della Convenzione di Berna – tra l’altro che “a public performance or display of a work does not of itself constitute publication”.
    Nella legge italiana, invece, la (prima) pubblicazione è oggetto di un diritto autonomo (art. 12 della legge n. 633 del 1941; ma v. anche l’art. 2577 c.c.) ed è integrata da qualsiasi forma di esercizio del diritto di utilizzazione economica (comprese la rappresentazione, esecuzione, recitazione e diffusione).
    Inoltre, la first sale doctrine rinvenibile alla sec. 109 (a), benché funzionalmente simile, non è esattamente sovrapponibile al nostro principio di esaurimento del diritto di distribuzione. In base alla sec. 109 (a), infatti, l’acquirente di una copia dell’opera può liberamente disporne senza bisogno di chiedere l’autorizzazione del titolare del distribution right. Nel 1984 il legislatore statunitense ha poi posto come eccezione alla first sale doctrine il mantenimento in capo al titolare del distribution right del diritto di autorizzare “rental, lease, or lending” per “purposes of direct or indirect commerciai advantage” di fonogrammi e programmi per elaboratore (v. sec. 109 (b).
    Per quanto riguarda la circolazione dei diritti di utilizzazione va evidenziato che attualmente facendo un’analisi comparativa i due sistemi (quello statunitense e quello americano) sono meno lontani che in passato.
    Per cominciare, solo un cenno va fatto alla regola in base alla quale il trasferimento della proprietà di una copia dell’opera non implica il trasferimento delle titolarità sul copyright nel suo complesso o su uno diritti di esclusiva che lo compongono (v. la sec. 202.
    Un’altra innovazione di primo piano apportata dal Copyright Act consiste nel potere inalienabile del titolare originario e dei suoi eredi di revocare (to terminate) l’atto di trasferimento (grant of transfer) e tornare nella titolarità del copyright (v. sec. 203 (a)). Tale power to terminate transfers of copyright è esercitabile – rispetto alle opere create dopo il 1976 – tra il trentacinquesimo ed il quarantesimo anno successivo all’atto di trasferimento .
    Anche nella normativa italiana si parte dalla chiara indicazione che i diritti di utilizzazione economica (come d’altra parte i diritti connessi) possono essere acquistati, alienati o trasmessi in tutti le forme e i modi consentiti dalla legge (art. 107 della legge n. 633 del 1941). Tuttavia, profonde differenze si avvertono sul piano della libertà contrattuale. Rispetto a questo profilo, infatti, la legge italiana esprime una caratteristica dei modelli continentali di tutela delle opere delle ingegno, ovvero la predisposizione di limiti penetranti alle modalità ed al contenuto degli atti dispositivi sulle opere dell’ingegno, che si vanno ad aggiungere all’inalienabilità dei diritti morali.
    Ed ancora, le innovazioni del Copyright Act hanno sensibilmente avvicinato il modello nordamericano a quelli continentali (anticipando su questo punto l’adesione alla Convenzione di Bema). L’ultima revisione generale del copyright statunitense ha, infatti, mutato l’individuazione del dies a quo, eliminato il meccanismo del rinnovamento ed allungato la durata del termine (ulteriori dilatazioni dei termini sono il frutto del Sonny Bono Copyright Term Extension Act del 1998). La regolamentazione delle opere create dopo il 10 gennaio 1978 si ricava, perciò, dalle sec. 302 e ss. dell’ Unites State Code. Essendo la creazione (oltre, che la fissazione su un supporto tangibile) e non più la pubblicazione presupposto per la tutela federale, in via generale, il termine inizia a decorrere dalla data di creazione dell’opera (sec. 302 (a)) e si estingue settanta anni dopo la morte dell’autore. Nel caso di joint works il diritto dura fino a settanta anni dopo la morte dell’ultimo autore sopravvissuto. Nel caso di opere anonime, pseudonime o works for hire il diritto dura novantacinque anni dalla data di pubblicazione o centoventi anni dalla data di creazione, con prevalenza del termine che spira prima.
  1. Il sistema peer to peer
    Le disposizioni del DMCA dedicate alla responsabilità degli ISP nacquero vecchie. All’indomani dell’emanazione della legge ci si dovette confrontare con la prima generazione di reti P2P (capeggiata da Napster) e poco dopo con la seconda generazione diretta (KaZaA, Morpheus, Grokster, eDonkey etc.).
    La seconda generazione di reti P2P prescinde da qualsiasi funzione accentrata o gerarchica. Non esiste una distinzione tra server e client, in quanto tutti i computer della rete svolgono funzioni ibride.
    Il produttore del software per la gestione della rete mette a disposizione del pubblico – mediante Internet stessa – il proprio prodotto. Chi vuole, può scaricarlo (ad esempio, dal sito Web dell’azienda produttrice) e poi installarlo sul proprio computer. A quel punto, l’utente si dota di uno pseudonimo, detto anche screen name, e può cercare altri utenti della rete P2P disposti ad effettuare il file sharin g. Può limitarsi a scaricare (to download), ma il più delle volte procede – secondo lo spirito ed i costumi delle comunità P2P – anche a caricare (to upload) file o, per meglio dire, a mettere a disposizione una parte della propria memoria fissa, ovvero del proprio hard disk.
    Nell’ambito della strategia che mira a colpire direttamente gli utenti delle reti P2P, i titolari di file musicali protetti da copyright svolgono – come si è accennato sopra – attività di monitoraggio delle reti P2P allo scopo di procurarsi gli screen names degli utenti della rete e gli indirizzi IP corrispondenti ad attività che si assumono in violazione del copyright. In particolare la Recording Industry Association of America (RIIA) ha avviato da anni una massiccia campagna tesa ad individuare i soggetti che si presume commettano violazioni del copyright dei propri associati. Né lo screen name, né l’indirizzo IP, che è semplicemente un numero, consentono l’identificazione del presunto trasgressore. La RIIA è costretta chiedere all’ISP di turno l’identità dell’utenza associata all’indirizzo IP.
    Nella controversia sfociata nel più importante precedente in materia, la RIIA aveva chiesto, mediante lo strumento stragiudiziale del subpoena speciale previsto dalla 17 Unites State Code § 512 (h), a Verizon, l’ISP di riferimento, di rivelare le identità associate agli indirizzi IP tracciati dalla stessa RIIA. Verizon si era rifiutata in base ad una serie di considerazioni giuridiche.
    In primo grado la RIIA ha avuto successo, ma in appello la Corte federale del Circuito di Columbia ha ritenuto illegittimo il ricorso al subpoena .
    Le argomentazioni della corte si arrestano su un piano formale. La 17 Unites State Code § 512 (h) va interpretata nel senso che non è possibile fare ricorso allo strumento del subpoena, quando l’ISP non proceda a memorizzare sui propri computer il materiale in violazione, ma si limiti ad offrire – come nel caso delle reti P2P – la mera connessione ad Internet.
    La sentenza Verizon ha rappresentato un argine solo per la deriva più estremista della privatizzazione della tutela del copyright: quella appunto che fa leva sul subpoena previsto dal DMCA.
  1. Problemi del copyright nell’era digitale
    Nella prima fase della rete Internet, dall’incontro tra le tecnologie di riproduzione digitale e le telecomunicazioni, sono fiorite inedite forme di interazione fra persone e gruppi di persone e una masse sterminata di nuove informazioni, banche dati e opere ha iniziato a circolare sulla stessa. Questa tappa è stata segnata da una marcata anarchia regolamentare accompagnata da uno sviluppo significativo della creatività autoriale.
    Negli anni più recenti però, con la crescita della componente commerciale della rete, la tecnologia digitale ha posto sul tappeto tre tipi di problemi che lanciano una sfida senza precedenti al copyright .
    In primo luogo, le copie digitali delle opere sono davvero molto diverse da quelle analogiche. Queste ultime erano anch’esse poco costose, ma imperfette . Ora invece chiunque possieda un PC, un modem, un masterizzatore, è in grado di produrre un numero infinito di copie perfette e gratuite (nemmeno per immagazzinarle). Qualsiasi consumatore, scaricando un’opera in formato digitale, ad es. un CD, può moltiplicarla in un numero illimitato di copie, ritrasmetterla e quindi diventare, senza l’impiego di un apparato industriale vero e proprio o di risorse materiali di rilievo, un concorrente dell’imprenditore che per primo l’abbia immessa sul mercato. E’ iniziata l’epoca della copia ovvero della pirateria di massa.
    Vi è una seconda novità: gli intermediari tradizionali sembrano  in via di estinzione .
    In effetti per la messa in circolazione delle opere le case discografiche e le case editrici diventano pertanto sempre meno necessarie. Anche i “pirati” possono trasmettere in rete le copie non autorizzate delle opere, direttamente agli utenti finali.
    Talora il “pirata” avrà i lineamenti del consumatore che, scaricata una canzone, ne trasmette una copia ad uno o più amici.
    Talaltra quelli di un imprenditore scaltro, che si localizza in giurisdizioni remote e allestisce un sito web da cui scaricare le opere protette.
    In simili contesti, per i titolari dei diritti di autore diventa assai difficile agire a tutela della loro esclusiva. Non vi sono più magazzini colmi di libri e neppure depositi di musicassette pirata da sottoporre a sequestro; le misure di blocco delle merci alle frontiere doganali, previste dalle convenzioni internazionali, possono frenare l’ingresso dei giocattoli o delle musicassette, ma non il flusso di informazioni. Agire contro i singoli consumatori finali è antieconomico e talora legalmente dubbio.
    Ma vi è un terzo profilo da considerare: anche attaccare giudiziariamente i fornitori on line non autorizzati presenta difficoltà che appaiono insormontabili. Le norme a tutela del diritto d’autore hanno efficacia geograficamente limitata (“territoriale”); i flussi di informazione in rete hanno carattere globale.
    il Digital Millennium Copyright Act (DMCA) , è stato ideato per imporre nuovamente protezioni anti-copia (detestate dagli utenti informatici), rendendo reato ogni infrazione alle misure  tecniche di protezioni, o perfino la pubblicazione di informazioni sul modo di superarle.
    Queste norme permettono loro l’imposizione di qualsiasi tipo di restrizioni sull’utilizzo di un’opera, con le annesse sanzioni repressive, purché le opere siano dotate di qualche tipo di crittazione o di licenza onde poterle applicare.
    Una delle tesi a sostegno di questa legge era che sarebbe servita all’implementazione di un futuro trattato mirato all’espansione dei poteri del copyright. Il trattato è stato promulgato dalla World Intellectual Property Organization, entità in cui dominano gli interessi dei detentori di copyright e di brevetti; poiché il trattato non fa altro che ampliare i poteri conferiti ai titolari di copyright, è assai dubbio che possa servire gli interessi del pubblico in altri paesi. In ogni caso, la normativa andò ben oltre quanto richiesto dal trattato stesso.
    Il DMCA è stato approvato nel 1998. Nella stesura finale si legge che l’uso legittimo rimane formalmente tale, ma gli editori hanno la facoltà di vietare l’uso del sistema di software o l’hardware necessario per poterlo mettere in pratica. Di fatto, ogni uso legittimo viene proibito.
    Sulla base di questa legge, l’industria cinematografica ha imposto la censura sul software libero per la lettura e la visione dei DVD, e perfino sulle relative informazioni.
    Nell’aprile 2001 il professor Edward Felten della Princeton University, minacciato di denuncia dalla Recording Industry Association of America (RIAA), ha ritirato una ricerca scientifica in cui illustrava quanto aveva imparato sul sistema cifrato proposto per impedire l’accesso alla musica registrata .
    Stiamo inoltre assistendo all’avvento di libri elettronici (e-book) che cancellano molte delle libertà tipiche del lettore tradizionale – ad esempio, quella di prestare il libro a un amico, di rivenderlo a un libreria dell’usato, di prenderlo in prestito da una biblioteca, di acquistarlo senza dover fornire le proprie generalità al database aziendale, perfino la libertà di poterlo rileggere. Generalmente i libri elettronici cifrati impediscono tutte queste libertà – è possibile leggerli soltanto grazie ad un particolare software segreto, progettato per imporre simili restrizioni al lettore .
    Ed ancora sempre nel 2001 il senatore Hollings, sovvenzionato dalla Disney, ha presentato una proposta di legge chiamata “Security Systems Standards and Certification Act” (SSSCA) , la quale prevede la presenza in tutti i computer (ed altri apparecchi digitali per la registrazione e la lettura) di sistemi anti-copia imposti dal governo.
    Ciò rappresenta l’obiettivo finale dell’industria, ma il primo punto all’ordine del giorno mira a vietare qualunque dispositivo in grado di intervenire sulla sintonia della HDTV (High Definition TV, la TV digitale ad alta definizione), a meno che non sia progettato in modo tale da impedire all’utente di “manometterla” (ovvero, di modificarla a scopo personale). Poiché il software libero è tale proprio perché gli utenti possano modificarlo, qui ci troviamo di fronte per la prima volta a una proposta di legge che vieta esplicitamente il software libero per determinate funzioni. Certamente seguiranno analoghi divieti per ulteriori funzioni. Nel caso la Federal Communications Commission statunitense dovesse adottare simili proposte, programmi di software libero già esistenti quali GNU Radio verrebbero censurati.
  1. Il copyright e i problemi legati alla privacy
    Uno dei problemi che attualmente domina non solo la scena americana ma ancor più quella mondiale attiene ai sistemi peer2peer di condivisione dei file.
    Infatti la possibilità di copiare e distribuire un gran numero di file digitali di alta qualità, solo con l’utilizzo di computer ed una connessione internet, è stata di gran lunga molto semplice grazie all’avvento di programmi di condivisione file di tipo peer2peer, che permettono agli utenti di cercare e scaricare file richiesti direttamente  da computer di altri utenti connessi in rete.
    Il contesto legislativo nordamericano rimane un terreno sostanzialmente favorevole alla strategia che mira a colpire direttamente gli utenti delle reti P2P con quel che ne deriva in termini di compressione del diritto della privacy. Lo comprova il fatto che la RIIA ha continuato a perseguire la sua politica di identificazione dei presunti violatori sia per via giudiziale sia per via stragiudiziale .
    I risvolti in termini di privacy di questa politica non sono però sfuggiti alle associazioni per la difesa della libertà su Internet ed ampi settori della dottrina.
    La strategia che mira a colpire direttamente gli utenti delle reti P2P si basa sulla privatizzazione della tutela del copyright. Tale tendenza alla privatizzazione riguarda l’intero settore del diritto dell’era digitale.
    La punta più avanzata è rappresentata dai sistemi di DRM finora utilizzati dall’industria dell’intrattenimento. Tali sistemi di DRM possono inglobare componenti volte a garantire l’autotutela tecnologica.
    Si può, ad esempio, confezionare un file limitando la possibilità di copia e facendo sì che il tentativo di aggirare la limitazione sia “sanzionato” dalla disattivazione totale del file. Inoltre i sistemi di DRM possono inglobare componenti destinate a tracciare l’utilizzo del contenuto digitale, anche al fine di individuare le condotte che violano la legge o i termini della licenza d’uso . L’invasività dei sistemi di DRM non è una questione teorica. Lo dimostra, tra l’altro, il recente caso Sony Rootkit .
    Secondo alcuni, il contesto digitale sembra delineare un rovesciamento della prospettiva tradizionale che vede la proprietà come baluardo della privacy. Di sicuro, nella dimensione di Internet la sempre più aggressiva autotutela della proprietà intellettuale tende a comprimere progressivamente i confini della privacy . Le grandi imprese dell’intrattenimento perseguono strategie che mirano a spostare il confine tra pubblico e privato. Ad esempio la politica di identificazione degli utenti delle reti P2P prende le mosse dall’assunto che, stante il fatto che le reti oggetto di controversie sono aperte al pubblico (nel senso che chiunque può accedere alla rete), è possibile tracciare massivamente gli indirizzi IP. In altri termini, secondo questa prospettiva, l’utente che consente ad altri utenti sconosciuti di accedere e prelevare file dalla propria memoria fissa espone, per la natura stessa della rete P2P, la propria identità digitale (in particolare, il proprio indirizzo IP) al pubblico.
    Spesso questa visione è supportata da argomentazioni che fanno leva sull’analogia con il contesto non virtuale, cioè con la dimensione giuridica posta al di fuori di Internet. Nel solco di tale analogia si possono incontrare argomentazioni di questo tipo: se si praticano pubblicamente atti in violazione della proprietà intellettuale altrui, allora il titolare della proprietà intellettuale può autotutelarsi anche procedendo ad acquisire informazioni sulle identità dei soggetti che compiono l’illecito.
    Questo tipo di argomentazione distorce il quadro di riferimento . Come sempre, nei discorsi sul diritto dell’era digitale, le analogie con la dimensione giuridica non digitale possono essere fuorvianti .
    Il punto di partenza di qualsiasi discorso sul tema della tutela è il principio del divieto di autotutela privata, principio (e valore) cardine della tradizione giuridica occidentale . Le eccezioni a tale principio sono severamente limitate .
    Tali limitazioni sono tanto più giustificate nel contesto specifico dell’identificabilità degli utenti della rete Internet, ed, in particolare, delle reti P2P. Il fatto che qualsiasi navigazione Web implichi l’esposizione del proprio indirizzo IP a chi è in possesso di tecnologie che ne consentono il tracciamento, non fa della stessa navigazione un’attività pubblica. Anzi, è vero esattamente il contrario: si tratta di un’attività privata eminentemente protetta dalla privacy. Allo stesso modo, le attività di file sharing su reti P2P sono attività private. In particolare, quando riguardano la sfera delicatissima del consumo dei prodotti intellettuali, consumo che si pone alla base dell’autonomia e della libertà di pensiero . Il fatto che l’utente consenta ad altro utente di “entrare” nel proprio computer allo scopo specifico del prelievo dei file messi a disposizione non può essere considerato un consenso implicito al monitoraggio ed al tracciamento, mediante potenti tecnologie che permettono l’aggregazione di immense quantità di dati, delle proprie attività.
    L’acquisizione di informazioni relative all’identificazione degli utenti delle reti P2P si basa su tecnologie, costruite da privati, particolarmente invasive che conferiscono ad altri privati (le industrie dell’intrattenimento) un inedito potere di sorveglianza che può portare alla disintegrazione non solo della privacy, ma anche della libertà di pensiero .
    Le vicende americane dimostrano che il tracciamento attuato mediante le tecnologie c.d. antipirateria sono soggette ad un elevato numero di errori e si prestano ad abusi opportunistici. Le industrie dell’intrattenimento, una volta ottenute (magari per via stragiudiziale) le identità corrispondenti agli indirizzi IP tracciati, contattano i soggetti identificati e li minacciano di azione giudiziaria offrendo contemporaneamente l’alternativa di una costosissima transazione. Si tratta di una strategia di difesa ai limiti (in alcuni casi, oltre i limiti) della condotta estorsiva .
    In un settore come quello del copyright dove l’estensione del diritto di esclusiva è circondata da confini indistinti (si pensi all’incertezza che sostanzia la teoria universale della dicotomia tra idea, non protetta, e forma espressiva, protetta, o il fair use statunitense, ma anche le libere utilizzazioni di stampo continentale), anche chi compie attività lecite potrebbe essere bloccato dalla paura di essere tracciato e raggiunto dai titolari di proprietà intellettuale.
    Messo in termini di analisi economica del diritto: se è vero che la sorveglianza privata può comportare (oltre che benefici privati anche) benefici sociali in termini di risparmio dei costi della sorveglianza statale, è altresì vero che la sorveglianza privata può comportare enormi costi sociali in termini di compressione della privacy e della libertà di pensiero .
  1. Le lacune in tema di normativa sul copyright
    Qual è la maniera adeguata per stabilire una corretta politica del copyright? Se quest’ultimo è un patto raggiunto a nome del pubblico, dovrebbe innanzitutto servire l’interesse pubblico. Il dovere del governo, quando si appresta a smerciare la libertà pubblica, è quello di vendere soltanto quanto necessario e al prezzo più caro possibile. Come minimo dovremmo controbilanciare al massimo l’estensione del copyright pur conservando un’analoga quantità di pubblicazioni disponibili.
    Poiché è impossibile raggiungere questo livello minimo di libertà tramite gare d’appalto competitive, come nel caso dei progetti edilizi, quale strada conviene seguire?
    Un metodo possibile consiste nel ridurre i privilegi del copyright in maniera graduale ed osservarne i risultati. Verificando se e quando si raggiunge un livello misurabile nella diminuzione delle pubblicazioni, potremo capire quanto sia il potere del copyright effettivamente necessario per il raggiungimento degli obiettivi del pubblico. Ciò va giudicato tramite l’osservazione diretta, non sulla base di quanto gli editori ritengano debba accadere, perché questi hanno tutto l’interesse a esagerare le previsioni negative in caso ne venga ridotto in qualche modo il potere.
    Le politiche sul copyright comprendono svariate dimensioni tra loro indipendenti, le quali possono essere organizzate in maniera separata. Dopo aver raggiunto il livello minimo relativo a una di tali dimensioni, è sempre possibile ridurre altre dimensioni del copyright pur mantenendo la voluta quantità di pubblicazioni.
    Una dimensione importante del copyright riguarda la sua durata, che tipicamente oggi è dell’ordine di un secolo. La limitazione del monopolio sulla copia a dieci anni, a partire dalla data di pubblicazione di un’opera, potrebbe rivelarsi un buon passo iniziale. Un altro aspetto del copyright, quello concernente la realizzazione di lavori derivati, potrebbe invece continuare a esistere per un periodo più lungo.
    Perché si parte dalla data di pubblicazione? Perché il copyright su lavori inediti non limita direttamente la libertà dei lettori; avere la libertà di copiare un’opera è qualcosa di fittizio quando non ne circolano degli esemplari. Consentire perciò maggior tempo per pubblicare qualcosa non procura alcun danno. Raramente gli autori (che in genere prima della pubblicazione sono titolari del copyright) sceglieranno di ritardare la pubblicazione soltanto per estendere all’indietro l’esaurimento dei termini del copyright .
    Perché dieci anni? Perché è una proposta adeguata; a livello pratico possiamo ritenere che questa riduzione produrrà scarso impatto sulle odierne attività editoriali in generale. Per la maggior parte dei settori e dei generi, le opere di successo sono molto remunerative nel giro di qualche anno, e perfino tali opere di successo generalmente vanno fuori catalogo assai prima dei dieci anni. Anche per i testi di consultazione generale, la cui vita d’utilità può estendersi fino a parecchi decenni, un copyright di dieci anni dovrebbe risultare sufficiente: se ne pubblicano regolarmente nuove stesure aggiornate, e gran parte dei lettori preferiranno acquistare l’ultima edizione sotto copyright anziché una versione di dominio pubblico del decennio precedente.
    Dieci anni potrebbe comunque essere un periodo più lungo del necessario: una volta sistemate le cose, potremmo provare un’ulteriore riduzione per meglio rifinire il sistema. Nel corso di una discussione sul copyright durante una manifestazione letteraria, dove proponevo il termine dei dieci anni, un noto autore di testi fantastici che mi sedeva accanto protestò con veemenza, sostenendo che qualunque termine superiore ai cinque anni sarebbe stato intollerabile.
    Ma non c’è motivo di applicare la medesima durata a tutti i tipi di lavori. Il mantenimento di una stretta uniformità per le politiche sul copyright non è cruciale all’interesse pubblico, e già le legislazioni correnti prevedono numerose eccezioni per impieghi e ambiti particolari. Sarebbe folle pagare per ogni progetto autostradale la stessa somma necessaria per i progetti più difficili realizzati nelle aree più costose del paese; parimenti folle sarebbe “pagare” ogni tipo di produzione artistica al prezzo più caro in termini di libertà ritenuto necessario per un’opera specifica .
    Così forse i romanzi, i dizionari, i programmi informatici, le canzoni, le sinfonie e i film dovrebbero seguire una durata diversa per il copyright, in modo da poterla ridurre per ciascun genere al termine necessario a garantire la pubblicazione di un certo numero di lavori. Forse i film che durano più di un’ora potrebbero avere un copyright di vent’anni, considerandone le spese di produzione. Nel mio settore, la programmazione informatica, tre anni dovrebbero bastare, perché i cicli di produzione sono anche più brevi di un tale periodo.
    Un’altra dimensione delle politiche sul copyright riguarda l’estensione dell’uso legittimo: quelle modalità di riproduzione totale o parziale di un lavoro, legalmente consentite anche quando l’opera pubblicata è coperta da copyright. Il primo passo naturale nella riduzione di questa dimensione del potere del copyright consiste nel permettere la copia e la distribuzione tra i singoli individui a livello occasionale, privato e in piccole quantità. In tal modo si eviterebbe l’intrusione della polizia nella vita privata della gente, pur avendo probabilmente scarso effetto sulle vendite dei lavori pubblicati. (Potrebbe rivelarsi necessario intraprendere ulteriori passi legali onde assicurarsi che le licenze incluse automaticamente nelle confezioni originali dei prodotti non possano essere utilizzate in sostituzione del copyright per limitare tali attività di copia). L’esperienza di Napster dimostra che dovremmo altresì consentire la redistribuzione integrale non-commerciale ad una comunità più vasta – quando una parte così ampia del pubblico decide di copiare e condividere qualcosa, considerando assai utili simili pratiche, ciò potrà essere bloccato soltanto ricorrendo a misure draconiane, e il pubblico merita di avere quanto chiede.
    Per i romanzi, e in generale per le opere d’intrattenimento, la redistribuzione integrale non-commerciale potrebbe dimostrarsi una libertà sufficiente per i lettori. I programmi informatici, essendo utilizzati per scopi funzionali (portare a termine determinati compiti), richiedono ulteriori libertà aggiuntive, compresa la pubblicazione di versioni migliorate. A motivazione delle libertà che dovrebbero avere gli utenti di software si veda il testo incluso in questo stesso volume “La definizione di software libero” .
    Questa serie di modifiche finirebbero per allineare il copyright con la volontà del pubblico di usare le tecnologie digitali per copiare. Senza dubbio gli editori considereranno “sbilanciate” simili proposte; potrebbero minacciare di prendere le proprie biglie e andarsene via, ma non lo faranno sul serio, perché il gioco rimarrà comunque redditizio e sarà l’unico possibile.
    Mentre si vanno considerando le possibili riduzioni ai poteri del copyright, dobbiamo accertarci che le varie aziende del settore non lo sostituiscano semplicemente con apposite licenze relative all’utente finale. Sarà necessario vietare l’uso di contratti mirati a imporre restrizioni sulla copia che vadano oltre quelle già previste dal copyright. Nel sistema legale statunitense è pratica comune stabilire simili disposizioni su quanto previsto dai contratti non-negoziabili per settori di grande consumo.
  1. Misure tecniche e limiti
    Non esistono tecnologie buone e tecnologie cattive. L’uomo piuttosto può utilizzare la tecnologia per differenti finalità. Infatti gli antecedenti storici del diritto d’autore moderno nascono in connessione all’invenzione della stampa a caratteri mobili. Sulla stampa si fondano i concetti di “originale” e di “copie” legittime dell’originale. Ma fu quella stessa innovazione tecnologica a rendere possibile la c.d. pirateria (contraffazione), cioè la stampa non autorizzata dal potere costituito. Anzi qualcuno rovescia l’assunto e dice che il primo embrione del diritto d’autore nasce in conseguenza dell’emersione della pirateria. Dunque, la stampa ha costituito il primo strumento tecnologico per reclamare, ma anche per violare, i diritti d’autore .
    Lo stesso si può dire oggi per le tecnologie digitali. Ad esempio, la crittografia digitale – in particolare, quella a chiavi asimmetriche – può essere usata per proteggere le opere, ma è lo stesso studio della crittografia a rendere evidenti le falle delle protezioni crittografiche .
    Questo ragionamento non sembra condiviso dalle ultime leggi sul diritto d’autore. Esse cercano di scavare un solco tra tecnologie di protezione e tecnologie di elusione della protezione.
    Le corti federali statunitensi si confrontano da tempo sui criteri per distinguere le tecnologie lecite da quelle illecite nell’ambito della violazione indiretta del copyright per contributory or vicarious infringement. Semplificando, si può dire che in base a questo istituto di creazione giurisprudenziale, al ricorrere di una serie di presupposti, è possibile imputare una responsabilità indiretta al soggetto che ha concorso con (o che si è avvantaggiato della) violazione diretta del copyright da parte di un terzo soggetto. Si tratta della doctrine applicata al leading case Sony Betamax concernente i videoregistratori . In quell’occasione la Corte Suprema degli Stati Uniti aveva posto l’accento sul fatto che la violazione per concorso (contributory infringement) va esclusa quando una tecnologia è suscettibile di sostanziali e rilevanti usi legittimi (cioè non in violazione del copyright).
    Nell’era digitale, la doctrine è stata applicata alle controversie riguardanti il file sharing su reti peer to peer (P2P).
    Il caso Grokster, che riguardava la produzione di un P2P c.d. puro, è giunto fino alla Corte Suprema federale . Quest’ultima, rovesciando la decisione d’appello del Nono circuito , ha condannato i produttori del software P2P per violazione indiretta del copyright, ponendo l’accento sull’attività di induzione alla violazione (inducement of direct infringement) effettuata dai produttori del software al fine di promuovere l’utilizzo del proprio prodotto. Pur formalmente non rovesciando il proprio autorevole precedente del caso Sony, la Corte Suprema rielabora la doctrine della responsabilità indiretta. In buona sostanza, la Corte afferma che anche quando un prodotto è suscettibile di usi legittimi sussiste la responsabilità se lo stesso prodotto
    è messo in commercio con il fine effettivo di indurre alla violazione del copyright.
    Le discussioni della giurisprudenza americana sulla responsabilità indiretta per violazione del copyright costituiscono esempi eloquenti di uno slittamento del diritto d’autore dalla disciplina di un diritto di esclusiva alla disciplina (indiretta) della tecnologia. Un passo ulteriore in questa direzione è stato provocato dalla disciplina delle misure tecnologiche di protezione. L’ultima frontiera è la disciplina diretta attraverso l’imposizione di standard di MTP .
    La prima rilevante forma di tutela giuridica delle misure tecnologiche di protezione (MTP) si deve ai WIPO Treaties del 1996. Il legislatore statunitense ha dato attuazione al mandato internazionale emanando il Digital Millennium Copyright Act (DMCA) del 1998.
    Il nucleo di detta normativa sta nel triplice divieto:
    a) di elusione delle misure tecnologiche poste a protezione dei diritti;
    b) di produzione o diffusione di tecnologie “principalmente finalizzate” all’elusione
    delle MTP;
    c) di rimozione o alterazione delle informazioni sui diritti annesse alle opere.
    Si tratta di una normative assai complesse ed assistite anche da severe sanzioni penali. I problemi che esse pongono sono oggetto di una vasta letteratura. In prima battuta è sufficiente rilevare da una parte che la normativa non costituisce una regolazione organica del DRM, ma piuttosto una disciplina minimale di alcuni risvolti dell’uso di alcune componenti del DRM (MTP e informazioni sul regime dei diritti), dall’altra che la fattispecie sub b) punta a rovesciare la logica del principio applicato, pur in diverso ambito, al caso Sony Betamax: la norma sembra affermare che è sufficiente la prevalenza della finalità elusiva a far scattare il divieto (mentre è sicuro che la norma arretra il momento della tutela, prescindendo dal requisito, richiesto nell’ambito della contributory and vicarious liability, della sussistenza della violazione diretta).
    In definitiva, la disciplina si muove nel senso della regolazione indiretta della tecnologia resasi necessaria a fronte di una prassi che punta sempre di più sulle MTP. Tuttavia, detta legislazione parte da un assunto errato e cioè che la disciplina possa ridursi alla tutela giuridica delle tecnologie utilizzate dai titolari dei diritti di esclusiva. Invece, questo tipo di normativa deve necessariamente porsi il problema dell’impatto delle MTP sul diritto dei contratti, sulla tutela della concorrenza, sulla privacy e sulla libertà di pensiero. In altri termini, se è vero che le MTP ed ancor più il DRM generano un potere di controllo dell’informazione finora sconosciuto e che il principio giuridico dal quale prendere le mosse nella tradizione giuridica occidentale è il divieto di autotutela privata, allora la disciplina delle MTP doveva essere non tanto una disciplina di tutela quanto di limitazione del potere di controllo tecnologico dell’informazione.
    Il DMCA ha inserito nel Copyright Act, contenuto nel title 17 dell’ Unites State Code, la section 1201 relativa all’elusione (o aggiramento) di misure (tecnologiche) di protezione del copyright. Il legislatore statunitense è andato ben oltre il “mandato” dei Trattati WIPO del 1996, disegnando una disciplina palesemente sbilanciata (e peraltro presidiata, per alcuni risvolti, da severe sanzioni penali) , destinata a diventare una tra le più criticate degli ultimi decenni.
    La § 1201 (a) (1) (A) proibisce l’elusione di efficaci misure tecnologiche usate dai titolari di copyright per controllare l’accesso alle proprie opere (c.d. disposizioni sull’elusione delle misure antiaccesso). Le §§ 1201 (a) (2) e 1201 (b) (1) vietano lo sviluppo o la distribuzione di tecnologie che siano, principalmente, progettate o prodotte allo scopo di eludere misure tecnologiche usate dai titolari di copyright per proteggere le proprie opere, e che abbiano solo un limitato fine o uso commercialmente rilevante diverso da quello elusivo, ovvero che siano immesse sul mercato per un uso finalizzato all’elusione (c.d. “anti-trafficking provisions”). Le due sottosezioni differiscono per il fatto che la (a) 2 vieta tecnologie finalizzate all’elusione di misure antiaccesso , mentre la (b) 1 vieta tecnologie finalizzate all’elusione di altre misure poste a protezione dei diritti di copyright .
    La regolamentazione della § 1201 non è simmetrica. In quanto non esiste una disposizione equivalente alla § 1201 (a) (1) (A) che proibisca direttamente l’atto di elusione di una misura tecnologica di protezione diversa da quelle destinate a controllare l’accesso. Essa consacra la distinzione tra misure antiaccesso e ed altre misure di protezione dei diritti di copyright (comunemente, dette anche, con espressione riduttiva e fuorviante, “misure anticopia”).
    Il fatto che le misure di protezione diverse da quelle antiaccesso sono meno protette delle altre misure di protezione, in quanto alle prime si applicano solo le anti-trafficking provisions, sembra sia dovuto all’intenzione del legislatore di non disarmare gli utenti della possibilità di compiere atti giustificabili mediante fair use su materiali ai quali gli stessi possono legittimamente accedere. Tuttavia, se questa era l’intenzione, vi è da rilevare che l’utente medio, anche in considerazione del divieto di commercializzare tecnologie di elusione, potrebbe non disporre degli strumenti per fruire del fair use .
    A questa complessa regolamentazione delle misure tecnologiche corrisponde una serie di eccezioni (pur severamente circoscritte) .
    Occorre, inoltre, rilevare che il DMCA non impone in via generale l’adozione di standard tecnologici al fine di conformarsi alla disciplina delle misure tecnologiche.
    Il risultato incredibile sta nel fatto che molti dei soggetti colpiti dall’applicazione della tutela giuridica delle MTP – definita anche come “paracopyright” – non sono i c.d. pirati della rete, ma persone che operano nel mondo della scienza, della tecnologia e dell’editoria . Il sospetto è che alcuni settori imprenditoriali, interessati all’emanazione della legge, abbiano mostrato un bersaglio (i c.d. “utenti-pirati”), volendo colpirne (almeno anche) un altro (coloro che sono in grado di sviluppare nuove e competitive tecnologie). Più in generale, in un ambiente già sovraffollato di diritti di proprietà intellettuale (sempre più restrittivi), la comunità scientifica teme che la tutela delle misure antielusione possa infliggere un vulnus definitivo al pubblico dominio, ai diritti di proprietà informali, alla libera circolazione delle informazioni, ed alla libera manifestazione del pensiero.
  1. La casistica giurisprudenziale in tema di misure tecniche
    Una parte rilevante della casistica nordamericana dimostra inconfutabilmente che l’invocazione della tutela delle MTP può nascondere finalità anticoncorrenziali .

8.1 Il caso Lexmark International, Inc. v. Static Control Components, Inc
Un esempio chiaro di finalità anticoncorrenziali viene dal caso Lexmark International, Inc. v. Static Control Components, Inc., nell’ambito del quale la Lexmark – impresa leader nella produzione di stampanti – ha reclamato l’applicazione della § 1201 contro un fabbricante di chips incorporabili in cartucce compatibili con le stampanti dell’attore. La Lexmark vende sia stampanti, sia cartucce. Le stampanti laser oggetto della causa funzionano in base un complesso sistema che si basa sul “dialogo” tra due software: uno contenuto nelle stampanti (Toner Loading Program) e l’altro incorporato nei chip delle cartucce-toner (Printer Engine Program). Alcune stampanti vengono vendute ad un prezzo inferiore, ma la shrink-wrap license (licenza d’uso a strappo) prevede che possano essere utilizzate solo cartucce usa e getta vendute dalla stessa Lexmark.
Per evitare che l’acquirente possa installare cartucce (ricaribili) prodotte da altre imprese, la Lexmark adopera una procedura di “autenticazione” delle cartucce originali che si basa sul “dialogo” tra il software della stampante e quello delle cartucce. Il convenuto vende chips che consentono a cartucce prodotte da competitori della Lexmark di essere riconosciute dalle stampanti di quest’ultima. Al convenuto veniva rimproverato di produrre e commercializzare un apparecchio finalizzato all’aggiramento della misura tecnologica posta a protezione dell’accesso ai software della Lexmark.

8.2 Il caso Chamberlain Group, Inc. v. Skylink Technologies, Inc
Un altro esempio è rappresentato da Chamberlain Group, Inc. v. Skylink Technologies, Inc. In questo caso l’attore, Chamberlain, un produttore di apparecchi per l’apertura a distanza delle porte dei garage ha citato un fabbricante – Skylink – di telecomandi. I telecomandi di Chamberlain incorporano un software “rolling code” che muta automaticamente il codice di accesso alla porta di uso in uso (si tratta di una misura di sicurezza tesa ad evitare che maleintenzionati possano scoprire facilmente il codice di accesso).
Al fine di costruire telecomandi compatibili con le porte costruite da Chamberlain, Skylink ha sviluppato un telecomando universale che emula la funzione del software incorporato nei telecomandi di Chamberlain. Skylink veniva citato per illecita produzione di una tecnologia finalizzata all’elusione della misura posta a protezione del rolling code.
Entrambi i casi sono giunti al secondo grado della giurisdizione federale. È da rimarcare che le due decisioni d’appello hanno rigettato le istanze di violazione del DMCA.
Nella decisione della Sesto Circuito relativa al caso Lexmark i giudici , ribaltando la pronuncia di primo grado , rilevano che una causa di questo tipo non ha niente a che fare con la pirateria di materiale protetto da copyright e rappresenta invece un chiaro tentativo di comprimere la concorrenza sul mercato a valle delle cartucce . Il Sesto Circuito sottolinea che i sistemi utilizzati da Lexmark non sono misure tecnologiche poste alla protezione dell’accesso del software incorporato nelle cartucce e di quello installato nella stampante . Inoltre il software elaborato contenuto dai chips della Static Control, essendo un programma scritto autonomamente che necessita di conseguire interoperabilità, giustifica sulla scorta di una della eccezioni alle anti-traffichking provisions – quella prevista dalla 17 Unites State Code § 1201 (f) (3) – le attività di reverse engineering compiute dalla stessa Static Control sulle tecnologie della Lexmark.

8.3 Il caso Chamberlain Group, Inc. v. Skylink Techs, Inc.,
Anche nel caso Chamberlain il Federal Circuit , confermando ed estendendo la portata della decisione di primo grado , rileva la mancanza di qualsiasi relazione tra l’istanza degli attori e la violazione di un diritto di copyright. La corte afferma che il DMCA non crea un nuovo diritto di esclusiva consistente in un diritto a controllare l’accesso . La tutela delle MTP dunque può essere reclamata solo sulla base della ragionevole sussistenza di una relazione tra MTP e diritti garantiti dal Copyright Act .
Queste due pronunce indicano un cambiamento di rotta rispetto ai primi orientamenti relativi all’applicazione della § 1201. In particolare, la giurisprudenza nordamericana mostra di essere consapevole della possibilità che si abusi della tutela delle MTP per finalità (anticoncorrenziali) che niente hanno a che fare con la protezione dei diritti di copyright .
Una tale consapevolezza affonda le proprie radici nei caratteri tipici del copyright statunitense quali la presenza di una clausola costituzionale che pone esplicitamente limiti alla proprietà intellettuale, l’interpretazione dei principi costituzionali finalizzata al bilanciamento degli interessi che stanno a ridosso del copyright e del patent, e l’abitudine a guardare agli effetti economici delle norme.

Capitolo 3
Analisi comparata dei sistemi attinenti la tutela del diritto d’autore e prospettive de iure condendo

  1. Problemi connessi all’era digitale e possibili soluzioni
    I problemi connessi all’era digitale che coinvolgono i modelli tradizionali di tutela si possono individuare innanzitutto nell’estrema facilità di riproduzione delle opere. Se prima per riprodurre un’opera protetta era necessario investire in macchinari costosi oggi un numero praticamente illimitato di copie di opere protette può essere realizzato con attrezzature di larghissima diffusione e di costo contenuto.
    Un altro problema si individua nell’impossibilità di distinguere la copia dall’originale sul piano qualitativo. Tanto più si fotocopia la fotocopia di un’originale (o si registra da una precedente registrazione) tanto più la copia successiva risulta di qualità scadente rispetto alla precedente (e, a maggior ragione, rispetto all’originale). La duplicazione di un file digitale (di testo, di suono, ete.) non comporta nessuno scadimento qualitativo tra file originale e file copiato: è sempre la stessa sequenza di bit ;
    altra problematica è connessa alla facilità di distribuzione delle opere. Grazie alla rete chiunque può porre su un sito file contenenti opere protet¬te che chiunque può successivamente scaricare da qualsiasi punto del globo.
    Sia a livello internazionale che comunitario  e nazionale, è emersa quindi l’esigenza di definire un nuovo assetto della proprietà intellettuale sulla base del nuovo scenario tecnologico che ha portato nell’ultimo decennio all’approvazione di importanti atti normativi che hanno contribuito a creare il c.d. Nuovo Diritto d’Autore e che sono volti principalmente ad assicurare con strumenti giuridici e tecnologici una tutela rafforzata di questi stessi diritti.
    Sulla scia di una regolamentazione così cospicua stanno altresì prendendo piede proposte di modifica di alcuni aspetti, le quali partendo da una diversa prospettiva legislativa portino a soluzioni interpretative più consone alle diverse esigenze di tutela e di fruizione delle opere dell’ingegno proprie dell’era digitale .
    Si è anche tentato di armonizzare le normative nazionali, al fine di consentire una più ampia e libera circolazione in ambito comunitario delle opere e dei prodotti coperti dal Diritto d’Autore (DdA), contribuendo a sviluppare un mercato unico e concorrenziale .
    Ancora sono state introdotte, da un lato, nuove disposizioni in tema di protezione delle misure antielusione e dei c.d. tatuaggi elettronici (di cui si dirà fra breve) e dall’altro, è stato previsto un regime sanzionatorio per il mancato rispetto di tali misure tecnologiche .
    Successivamente, con la direttiva n. 2004/48 si è voluto creare un quadro normativo adeguato a garantire la lotta alla contraffazione e alla pirateria, sanzionate in via civile e amministrativa, indipendentemente dal vantaggio economico ottenuto da chi viola i diritti o dal danno subito dal titolare .
    Il D.Lgs. n. 140/2006 vigente in Italia di recepimento è relativo anch’esso al rispetto dei diritti di proprietà intellettuale sulle opere dell’ingegno nonché alla protezione delle misure tecnologiche poste a protezione di un’opera e delle informazioni sul regime dei diritti, comportando un’ulteriore modifica della lda, con l’intento di offrire una tutela migliore dal punto di vista del risarcimento del danno (che la legge contribuisce a determinare meglio) .
    Tuttavia bisogna osservare che malgrado la regolamentazione sopra illustrata purtroppo nel nostro paese oggi scontiamo l’assenza, di meccanismi istituzionali di monitoraggio. Oggi, certamente, se fosse stato funzionante un meccanismo previsto dalla legge, se tutte le autorità avessero correttamente esercitato il loro compito di monitoraggio e di studio del settore, probabilmente oggi l’attuazione delle Direttive avrebbe generato meno problemi, perché avremmo avuto un quadro chiaro di tutto quello che era il mercato del digitale, quella che era l’incidenza di queste normative sulla diffusione dei supporti, avremmo anche conosciuto meglio che tipo di supporti sono coinvolti, CD-ROM, che è una cosa, DVD, che è un’altra cosa, il CD-R audio che è un’altra cosa ancora.
    Oggi bisogna fare i conti soprattutto con Internet, bisogna fare i conti con una costruzione della comunicazione che tende a essere sempre più personalizzata.
    Quindi, opporre invece una visione in qualche modo eccessivamente rigida della tutela del diritto di autore rischia di avere effetti devastanti, ripeto, devastanti, sull’economia della comunicazione stessa.
    E questo partendo magari da delle premesse ideali che non hanno senso, in un mondo globale di comunicazione, in un mondo interattivo nel quale i file possono essere cambiati, condivisi, scambiati nel giro di pochi secondi.
    Stante quanto detto occorre innanzitutto una ridefinizione del regime dei beni. L’era digitale vede infatti la nascita di nuovi beni: i nomi di dominio, il software, le banche dati, le opere multimediali, e così via.
    La digitalizzazione comporta la necessità di riformulare alcune nozioni. Ad esempio la possibilità di utilizzare la rete per diffondere informazioni e giornali telematici ha posto il problema di chiarire entro quali limiti la legislazione sulla stam¬pa possa essere applicabile ad Internet . Di recente il legislato¬re italiano è intervenuto per ridefinire come “prodotto edi¬toriale” “il prodotto realizzato su supporto cartaceo, ivi com¬preso il libro, o su supporto informatico, destinato alla pub¬blicazione o, comunque, alla diffusione di informazioni presso il pubblico con ogni mezzo, anche elettronico, o attraverso la radiodiffusione sonora o televisiva, con esclusione dei prodotti discografici o cinematografici” . Al prodotto editoriale sono applicabili le norme della legge del 1948 sulla stampa .
    Il superamento della materialità impone ancora di rimeditare ciò che del regime dei beni è legato alla appropriazione (o disappropriazione) delle cose. Occorre capire in che senso si può parlare di pro¬prietà, di possesso o di sequestro quando si ha a che fare con sequenze di bit (ad esempio documento informatico) .
    Occorre altresì ridefinire le modalità attraverso le quali è possibile remunerare il lavoro degli autori;
    Senza contare che la stessa tecnologia può fornire strumenti efficaci (più delle astratte formulazioni normative) per assicurare la tute¬la degli interessi degli autori.
  1. Comparazione tra la normativa comunitaria e la legislazione statunitense
    Sulla scorta della presa di posizione a livello internazionale (il riferimento è al WCT), la tutela del diritto d’autore nell’era digitale ha costituito l’oggetto di importanti tentativi di regolamentazione legislativa tanto oltreoceano quanto sul continente: ovvero il Digital Millennium Copyright Act (DMCA) del 28 ottobre 1998 e la direttiva 2001/29/CE del 22 maggio 2001, relativa all’armonizzazione di taluni aspetti del diritto d’autore e dei diritti connessi nella società dell’informazione.
    L’approccio scelto dalla Comunità nella direttiva in esame consiste esattamente nel disciplinare in maniera orizzontale i diritti di riproduzione, comunicazione al pubblico (e messa a disposizione del pubblico), distribuzione, e le relative eccezioni, nonché nell’apprestare una efficace tutela delle misure tecnologiche e delle informazioni sul regime dei diritti. In particolare, mosso dall’esigenza di creare maggiore certezza e protezione delle opere digitali nella nuova dimensione dischiusa dall’utilizzo massiccio di Internet, il legislatore comunitario ha ritenuto opportuno mantenersi nel mainstream internazionale adattando, integrando e manipolando le attuali normative sul diritto d’autore e sui diritti connessi . Eccettuate specifiche e limitate modificazioni alle direttive 92/l00/CEE e 93/98/CE, resta comunque salvo l’acquis communautaire in materia di diritto d’autore e diritti connessi. Nel complesso si rileva una volontà di armonizzare senza precedenti.
    Concentrando la nostra attenzione principalmente sulle disposizioni in materia di diritto d’autore, si nota subito come il legislatore comunitario vada ben oltre la mera implementazione delle disposizioni del WIPO Copyright Treaty, e dello stesso WIPO Performances and Phonograms Treaty del 1996. Con riguardo al bilanciamento dei molteplici interessi in gioco, il legislatore comunitario, anziché ritagliare nuove esclusive, ha deciso di scegliere la soluzione più rigida definendo in maniera molto ampia i diritti degli autori e giostrando poi sulle eccezioni a tali diritti.
    Ed invero, le questioni più spinose rispetto alla direttiva sono rappresentate dalla disciplina delle limitazioni ed eccezioni ai diritti esclusivi e dalla tutela delle misure tecnologiche.
    Quanto alle prime, la direttiva, rimette alla piena discrezionalità degli Stati membri l’introduzione di ulteriori ipotesi di libere utilizzazioni in relazione ai diritti di riproduzione, comunicazione al pubblico (e messa a disposizione del pubblico) e distribuzione. Resta in ogni caso salva, conformemente alle rilevanti  disposizioni convenzionali l’operatività del c.d. three-step test, ossia le ipotesi di libere utilizzazioni previste dalla direttiva che devono essere applicate solo in casi speciali, non devono essere in contrasto con lo sfruttamento normale dell’opera e non devono arrecare ingiustificato pregiudizio agli interessi legittimi del titolare dei diritti .
    Anche con riguardo alla tutela delle misure tecnologiche (volte a proteggere – quasi come una sorta di private enforcement – le opere e le altre realizzazioni artistiche), la direttiva è andata ben oltre la mera implementazione delle corrispondenti disposizioni del W/PO Copyright Treaty prevedendo la tutela sia contro le attività di aggiramento delle protezioni tecnologiche, sia contro le c.d. attività preparatorie.
    Occorre a tal proposito osservare però che a livello generale il DMCA vigente invece nella legislazione statunitense distingua nettamente tra tutela delle misure anti-accesso – sec. 120 l (a) e tutela delle misure anti-copia – sec. 1201.
    Nel diritto comunitario la distinzione in esame non è così netta, ma a grandi linee potrebbe essere accostata alle tutele apprestate rispettivamente dalle direttive 98/84/CE e 2001/29/CE. Negli Stati Uniti, in particolare, parte della dottrina ha avvertito il mancato bilanciamento tra interessi degli autori ed interessi degli utilizzatori ed ha sollevato la questione della sopravvivenza della dottrina del fair use a seguito della implementazione dei Trattati WIP0.
    Invece in parziale sintonia con il WCT e il WPPT, il legislatore comunitario contempla l’obbligo per gli Stati membri di prevedere un’adeguata protezione giuridica contro l’elusione di efficaci misure tecnologiche  , svolta da persone consapevoli, o che si possano ragionevolmente presumere consapevoli, di perseguire tale obiettivo. Detta protezione si estende alle misure tecnologiche applicate volontariamente dai titolari, anche in attuazione di accordi volontari e alle misure attuate in applicazione dei provvedimenti adottati dagli Stati membri.
    Sulla scorta della scelta normativa nordamericana ma discostandosi dalle previsioni dell’art. 11 del WCT, viene poi sanzionata la fabbricazione, l’importazione, la distribuzione, la vendita, il noleggio, la pubblicità per la vendita o il noleggio o la detenzione a scopi commerciali di attrezzature, prodotti o componenti o la prestazione di servizi, che: a) siano oggetto di una promozione, di una pubblicità o di una commercializzazione, con la finalità di eludere, o b) non abbiano, se non in misura limitata, altra finalità o uso commercialmente rilevante, oltre a quello di eludere, o c) siano principalmente progettate, prodotte, adattate o realizzate con la finalità di rendere possibile o di facilitare l’elusione di efficaci misure tecnologiche.
    Stante ciò ci è chiesti come mai il legislatore comunitario non abbia percorso la strada già battuta qualche anno prima dal legislatore nordamericano, ossia prevedere una gamma di atti che sfuggono esplicitamente alla tutela delle misure tecnologiche. Si ha la sensazione che sia stata posta al centro dell’intervento legislativo comunitario la tutela degli autori mentre la considerazione degli interessi degli utenti (di qualsiasi utente) sembra avere giocato un ruolo poco più che marginale .
    Nel nostro sistema, invece, le registrazioni delle opere dell’ingegno contemplate dalla legge n. 633 del 1941 – quand’anche obbligatorie – non costituiscono presupposti per l’acquisto del diritto, né per il suo esercizio, ma integrano semplicemente l’efficacia probatoria delle presunzioni semplici.
    La maggiore peculiarità statunitense sta però nella definizione di performance right e display right. Il primo riguarda una modalità dinamica di sfruttamento dell’opera, il secondo una modalità statica. In questo senso, il performance right si identifica con il diritto di rappresentare o eseguire in pubblico opere teatrali, balletti, film, letture di opere letterarie; più specificamente, esso copre ogni forma di sfruttamento, che rendendosi percepibile alla vista, o all’udito, o implicando piuttosto una copia transitoria dell’opera, comporta performance. Mentre, il display right può essere descritto come il diritto di esporre al pubblico quadri, sculture, fotografie, singoli fotogrammi di un film o copie di libri. Entrambi i diritti di esclusiva riguardano solo atti di sfruttamento dell’opera che avvengano in pubblico .
    L’ordinamento italiano adotta una diversa configurazione delle forme di sfruttamento non connesse alla riproduzione di copie, basandosi sulla dicotomia tra diritti di rappresentazione, esecuzione e recitazione (che si riferiscono ad atti di sfruttamento di fronte ad un pubblico presente) e diritti di comunicazione e diffusione (che invece riguardano forme di utilizzazione basate su tecnologie di comunicazione a distanza).
    Se il right to make copies ed il right to prepare derivative works possono essere considerati rispettivamente corrispondenti ai nostri diritto di riproduzione e diritto di elaborazione, qualche chiarimento merita il contenuto del distribution right. Il distribution right comprende ogni forma di commercializzazione di copie o fonogrammi dell’opera, ma occorre tenere a mente che la sec. 101 equipara la pubblicazione alla distribuzione, specificando – con una disposizione simile a quella dell’art. 3, comma 3 della Convenzione di Bema – tra l’altro che !a public performance or display of a work does not of itself constitute publication”.
    Nella legge italiana, invece, la (prima) pubblicazione è oggetto di un diritto autonomo (art. 12 della legge n. 633 del 1941; ma v. anche l’art. 2577 c.c.) ed è integrata da qualsiasi forma di esercizio del diritto di utilizzazione economica (comprese la rappresentazione, esecuzione, recitazione e diffusione) .
    Insomma la regolamentazione dei sistemi è sostanzialmente diversa, taluno è teso ad una rigida regolamentazione talaltro trova il suo punto di forza nelle misure di protezione.
  1. Norme anti-pirateria e misure di tutela delle misure tecnologiche
    Nel nuovo scenario delle comunicazioni multimediali basate sulla tecnologia digitale, dal punto di vista delle relazioni tra i fornitori-professionisti e gli utenti-consumatori, le esigenze dei primi di svolgere liberamente la propria iniziativa economica in rete e di ricevere un equo compenso per i contenuti di cui detengono i diritti di sfruttamento, si contrappongono agli interessi dei secondi di poter partecipare alle relazioni sociali e commerciali on line liberamente, eventualmente anche divenendo autori essi stessi con il meccanismo dello user generated content, al riparo da minacce indesiderate ai propri diritti personali – ad esempio quello alla privacy, come nei recenti casi Peppermint e Pirate Bay – ed economici, fra cui quello di disporre dei contenuti con flessibilità tramite i diversi canali multimediali.
    Al fine dell’individuazione di possibili soluzioni di tutela delle creazioni intellettuali che, contemperando i diversi interessi in gioco, consentano un equilibrato sviluppo delle relazioni sociali e commerciali nell’ambiente digitale, oggi in diversi Paesi europei la tendenza appare quella di un approccio basato sulla coregolamentazione .
    In Francia, il Governo ha tradotto in un disegno di legge un accordo nato dai lavori della c.d. Commissione Olivennes per la diffusione e la protezione delle opere dell’ingegno on line.
    In Gran Bretagna, a luglio il Governo, i maggiori fornitori di servizi Internet ed i rappresentanti dell’industria musicale hanno firmato un memorandum d’intesa che potrebbe sfociare in severe sanzioni nei confronti di chi viola l’altrui diritto d’autore, un’intesa di principio cui entro quattro mesi dovranno far seguito soluzioni operative.
    D’altro canto, nell’ottica del contemperamento dei molteplici interessi rilevanti in materia, è opportuno ricordare che in Italia le rationes per la disciplina sul diritto d’autore trovano, se pur non espresso comunque evidente, riferimento in diverse norme della Carta costituzionale.
    Da una lettura della normativa in materia alla luce dei valori costituzionali di riferimento, si evince che il diritto d´autore esprimerà i propri caratteri nel bilanciamento fra i valori medesimi, risultando quindi necessariamente ancorato ad un sistema armonico e proporzionato di tutele ed eccezioni.
    In particolare, il corollario che può trarsi da una simile ricostruzione è quello del carattere non eccezionale, bensí “fisiologico” dei limiti al copyright, ogni volta che essi siano giustificati da un interesse protetto almeno di pari rango nell´ordinamento costituzionale.
    In questo senso, appare utile che le practices in atto negli ultimi mesi in diversi Paesi europei fra cui l’Italia siano poste in essere attraverso una sorta di “doppio approccio“, un twofold approach che combini alla coregolamentazione o autodisciplina delle criticità derivanti dagli sviluppi tecnologici la lettura sistematica, in un’ottica costituzionalmente orientata, della normativa vigente.
    Sul piano delle soluzioni rispetto agli illeciti commessi in rete, in generale, le tendenze in atto negli ultimi mesi in diversi Paesi europei, fra cui l’Italia – già lo scorso anno (2008) con il lavoro del Comitato consultivo permanente per il diritto d’autore e ora con quello del Comitato tecnico per la lotta alla pirateria della Presidenza del Consiglio – sono dichiaratamente volte a perseguire scelte condivise adottate con la collaborazione dei diversi portatori d’interessi in gioco.
    Con specifico riguardo al profilo dei controlli, però, la soluzione che viene spesso riproposta è quella di un ampliamento delle responsabilità poste in capo ai fornitori di connettività (i providers) .
    Una per riconciliare le pur legittime istanze rispettivamente libertarie ed economiche in un approccio sistematico, può essere quella di indirizzare le tendenze in atto verso scelte condivise su un approccio che combini alla coregolamentazione o autodisciplina un solido ancoraggio costituzionale delle scelte normative, che persegua il necessario equilibrio fra i diversi diritti fondamentali rilevanti .
    Ciò, eventualmente anche attraverso distinzioni fra i contenuti culturali o informativi e quelli essenzialmente economici e d’intrattenimento.
    In questo senso, appare quanto mai opportuno un dialogo fra le parti, affinché le istanze di libertà e neutralità, o viceversa di commercialità della rete, trovino composizione in una “ricodificazione”, basata appunto sui valori o interessi prevalenti nelle diverse ipotesi concrete.
    Per quanto concerne poi il diritto di fare una copia privata l’odierna possibilità di distribuire, scambiare e riprodurre agevolmente contenuti digitali attraverso nuovi canali, quali Internet o i terminali mobili, rende possibile in particolare che il contenuto, in qualsiasi forma esso si estrinsechi, venga distribuito e fruito senza limiti di passaggi e riproduzioni.
    Tuttavia, le possibilità offerte dalla tecnologia digitale pongono anche il rischio – notevolmente accresciuto rispetto all’ambiente analogico – che la circolazione o fruizione avvenga senza che i legittimi titolari dei contenuti possano esercitare un effettivo controllo.
    In Italia il dettato normativo non appare riconoscere un vero e proprio “diritto” del privato alla copia per uso personale .
    E’ evidente, peraltro, che il nostro legislatore ha inteso sancire, in conformità al diritto comunitario, la liceità e quindi l’ammissibilità della copia privata, sia pure nel rispetto di alcune condizioni, nonché, d’altronde, la possibilità di limitarla solo nel rispetto delle condizioni anch’esse indicate nei testi legislativi.
    Quest’ottica, a ben vedere, consente di risolvere diverse questioni che si pongono in materia, come ad esempio fra le altre quella della eventuale rilevanza, ai fini della copia privata, della distinzione tra contenuti fruibili a pagamento (pay-per-view, pay-tv) e contenuti in chiaro.
    Sul tema, infine, è opportuno considerare che di recente a livello comunitario la Commissione europea, da un lato, ha lanciato una consultazione pubblica in cui ha raccolto i contributi degli interessati riguardo all’applicazione ed al futuro impatto della direttiva n. 98/84/CE sulla tutela dei servizi ad o di accesso condizionato, recepita in Italia con il d.lgs. n. 373/2000; dall’altro, ha avviato una specifica (e complessa) azione con riferimento al tema, di rilievo centrale, del compenso per la copia privata.
    Traendo delle conclusioni e delle possibili soluzioni sul punto si può ritenere che forse ci si potrebbe anche cominciare a difendersi facendo concorrenza alla pirateria, e anche concorrenza “leale” paradossalmente, abbassando i prezzi e puntando alla creazione di una vera e propria cultura del prodotto originale, altrimenti le norme penali pur se rigorose servono a poco .
    Infatti ritengo che la pirateria audiovisiva può essere battuta, soprattutto quella cinematografica, con una strategia di insieme. Se so di poter trovare una cassetta di ottima qualità a un prezzo ragionevole, magari abbinata a un quotidiano, a un’offerta commerciale particolare, certamente rappresento un rischio in meno per l’industria pirata. Questo è un aspetto che piano piano anche determinate industrie discografiche stanno incominciando ad affrontare.
    Certamente l’MP3 è un problema molto serio, entra in gioco un rischio ancora più forte, ma come si batte? Probabilmente con una diversa politica distributiva, incentivando per esempio a prezzi competitivi, addirittura con quanto si spende per scaricare l’MP3, l’offerta di brani? Una volta c’erano i 45 giri, oggi si scarica l’MP3, non per scaricare l’intero CD ma la singola canzone, per farsi una copia individualizzata di brani che piacciono.
    E io credo che questo possa rappresentare per l’industria un’occasione di sfruttamento di questo mercato di interesse, con le stesse armi dei cosiddetti pirati .
    Naturalmente quello che andrebbe incentivato è un’interazione anche con gli operatori della comunicazione, che rispetto al solito dialogo sul diritto di autore, naturalmente nei massimi sistemi, sono rimasti estranei.
    È necessario quindi individuare delle possibili soluzioni di tutela che, contemperando le anzidette esigenze, permettano un equilibrato sviluppo dei mercati interessati e favoriscano contemporaneamente la competizione fra i relativi players.
    In linea strettamente teorica, un obiettivo di politica legislativa potrebbe essere perseguito mediante due vie:
    a) da un lato si potrebbero prospettare ed incentivare delle modalità di fruizione dei contenuti “aperte”, che prevedano nuovi modelli commerciali atti ad assicurare la remunerazione dei titolari dei contenuti stessi;
    b) dall’altro si potrebbe optare per una tutela proprietaria forte che consenta la rigorosa protezione dei “prodotti creativi” unitamente alla remunerazione degli stessi secondo standards più vicini al modello tradizionale.
    Il primo modello presenterebbe caratteri di forte innovatività: il prodotto creativo, infatti, potrebbe essere messo a disposizione degli utenti interessati con modalità “graduate”, che consentano al consumatore/utente possibilità di godimento e di fruizione dalle più tenui (in quanto connotate da vincoli o limitazioni più o meno penetranti) alle più intense, assimilabili le ultime a quelle derivanti da status giuridici quali il possesso o la proprietà. A tale insieme di facoltà/poteri (ad es. copia, trasmissione, modifica…) che venissero di volta in volta riconosciuti all’utente corrisponderebbero nella prassi altrettanti gradi di contribuzione economica (livelli di prezzo) cui l’utente stesso sarebbe tenuto affinché sia in ogni caso garantita la remunerazione del contenuto (a partire da microfatturazioni per gli utilizzi infinitesimali o comunque caratterizzati da maggiori limitazioni).
    Sempre al primo modello potrebbero ascriversi nuove ipotesi di circolazione e diffusione dei contenuti nel quadro delle quali la remunerazione degli stessi fosse garantita da offerte commerciali di carattere pubblicitario: come accade per un giornale gratuito che copre i costi con i ricavi delle inserzioni  .
    Si tratta, evidentemente, di tipi tutti ancora da disegnare nelle loro specifiche connotazioni, ma accomunati dal tentativo/obiettivo di sfruttare i margini di libertà di fruizione che l’ordinamento concede, per introdurvi nuovi modelli commerciali.
    Il secondo modello, appare piuttosto calibrato su un paradigma autoriale riferito alla circolazione delle opere creative nell’ambiente “analogico”. Ed è, sostanzialmente, quello che l’attuale diritto positivo italiano (e, prima ancora, comunitario) propone (pur con qualche aggiustamento, di recentissima introduzione). Al momento, infatti, il framework giuridico di riferimento è costituito da dati alquanto disomogenei e che rendono imprescindibile un’attenta attività ermeneutica. In questa prospettiva, infatti, occorre avere essenzialmente riguardo da un lato alla disciplina (per così dire “classica”) sancita dalla Legge Autore e dall’altro alle norme della Direttiva sul diritto d’autore nella società dell’informazione, recepita dal legislatore italiano con il Decreto Legislativo del 9 aprile 2003, n. 68.
    In particolare, questa protezione “forte” in ambito digitale non può prescindere anche dal ricorso ad appropriati sistemi tecnici di DRM (Digital Rights Management), cioè misure tecnologiche  (secondo la terminologia del Legislatore italiano) che consentano la prevenzione dagli usi illeciti o comunque non rientranti nella sfera di facoltà dell’utilizzatore.
    Una serratura può dirsi sicura solo fino al momento in cui non viene forzata, e nell’ottica del DRM è assolutamente verosimile prefigurarsi una continua tensione fra lo sviluppo di misure “blindate” e tentativi sempre più arditi (ed, alla fine, efficaci) di aggiramento delle stesse.
    In conclusione, dunque, sul punto della tutela dei contenuti nell’ambiente digitale, si può osservare che, qualunque sia la strada che il Legislatore voglia intraprendere, due dati sembrano innegabili:
    – da un lato la necessità di una regolazione “flessibile” e pronta ad adeguarsi alla evoluzione tecnologica, che mal si concilia con una normativa sclerotizzata o vischiosa al cambiamento.
    – dall’altro la centralità del tema del DRM. Il DRM, infatti, pare un’ottima opportunità per garantire la remuneratività dei contenuti nel rispetto dei diritti di proprietà intellettuale, sia che si intenda aderire al primo modello anzi prospettato, sia che si propenda per una tutela forte.
    I soggetti facenti parte della catena del valore, servendosi del DRM, potranno infatti adottare delle coerenti strategie di business per garantire la flessibilità della gestione dei contenuti, la remunerazione degli stessi e contestualmente il rispetto dei diritti di proprietà intellettuale sui contenuti. In questo modo l’interoperabilità dei sistemi e la multicanalità dell’accesso non verranno sostanzialmente ostacolati e potranno finalmente portare ad un circolo virtuoso.
  1. I DRMS come misure antielusione e come possibile soluzione da adottare nel contesto italiano ed europeo
    Introdurre nell’ordinamento italiano (come negli altri Stati membri) adeguate tutele giuridiche dei diritti esclusivi sui contenuti digitali, significa, infatti, assicurare protezione a efficaci misure tecnologiche, che impediscono elusioni delle regole del DdA on line: il digital copyright è costituito lo si ricorda da norme che si basano su tre aspetti principali: l’estensione dei diritti d’autore all’ambiente digitale, la previsione legislativa delle misure tecnologiche di protezione e delle informazioni elettroniche il regime di eccezioni una misura tecnologica è il mezzo adottato per consentire l’accesso o la copia di un’opera, o limitare atti di fruizione su opere protette, in quanto atti vietati dalle esclusive riconosciute dalla legge al titolare di diritto d’autore o del diritto connesso .
    Perché sia protetta giuridicamente la misura tecnologica deve essere anche efficace, cioè capace di limitare effettivamente atti non autorizzati dai titolari del diritto d’autore, nel caso in cui l’uso dell’opera sia controllato dal titolare mediante l’applicazione di un dispositivo di accesso o una procedura di protezione ovvero sia limitato mediante un meccanismo di controllo delle copie.
    In applicazione della direttiva comunitaria che impone una tutela legale delle protezioni tecnologiche a garanzia del diritto d’Autore, il D.Lgs n. 68/03, in Italia in particolare, ha previsto la tutela giuridica “contro la fabbricazione, l’importazione, la distribuzione, la vendita, il noleggio, la pubblicazione, la detenzione a scopi commerciali di attrezzature, prodotti o componenti che siano principalmente progettati, prodotti, adottati o realizzati con la finalità di rendere possibile o di facilitare l’elusione di efficaci misure tecnologiche” (art. 26) .
    La tutela giuridica si estende anche al rispetto delle informazioni sul regime dei diritti (v. art. 7 della direttiva), ossia sono vietate la rimozione o l’alterazione di qualsiasi informazione elettronica relativa a quest’ultimo (i C.d. metadati). Pertanto è vietato distribuire, importare, diffondere, comunicare o mettere a disposizione del pubblico opere, realizzazioni protette o banche dati, dalle quale siano state rimosse o alterate senza averne diritto le informazioni elettroniche sul regime dei diritti, in quanto queste operazioni agevolano la violazione dei diritti d’autore.
    Dunque, i titolari di diritti d’autore e di diritti connessi possono apporre sulle opere tutelate dalla legge misure tecnologiche di protezione efficaci, che sono a loro volta protette dalla legge e che comprendono tutte le tecnologie, i dispositivi o i componenti che sono destinati a impedire o limitare atti non autorizzati dai titolari dei diritti (l’opera può consistere in una fotografia o in un progetto di architettura, ad esempio).
    L’insieme delle misure tecniche di protezione dei testi, suoni immagini tradotti in informazioni digitali e del sistema hardware e software che consente di gestire e controllare le condizioni (“i diritti”) per l’accesso e l’utilizzo delle stesse è definito con l’espressione DRMS (Digital Rights Management System).
    La nostra legge sul Diritto d’Autore (modificata dal D.lgs n. 68/03 sulla base delle indicazioni comunitarie), contiene, oggi, questa forma di protezione giuridica agli artt. 102 quater e 102 quinquies. In particolare le due norme prevedono il diritto di apporre alle proprie opere MTP, per impedire o limitare atti non autorizzati, e informazioni elettroniche per l’identificazione dell’opera. In tal modo sono tutelate le tecnologie destinate a regolare l’accesso e l’uso di opere protette o a consentire l’identificazione dell’opera attraverso l’inserimento nelle copie digitali della stessa di dati sul regime dei diritti (ossia di indicazioni sul titolo, sull’autore, traduttore, adattatore, produttore, o sull’anno e il paese d’origine) ; costituisce informazione anche l’indicazione dei termini e delle condizioni d’uso dell’opera (cioè il periodo temporale, le modalità con cui può essere effettuato, il versamento del corrispettivo, se dovuto, l’obbligo di citare la fonte) .
    Queste informazioni (i “metadati”), possono essere espresse in qualsiasi forma, compresi numeri o codici e la loro funzione è, quindi, quella di identificare l’opera, di individuare l’autore o altro titolare dei diritti, nonché di indicare le condizioni di utilizzo di un contenuto digitale: è il c.d. tatuaggio elettronico, impresso nel tessuto digitale dell’opera .
    Le misure tecnologiche antielusione sono, dunque, sistemi informatici che consentono di amministrare lo sfruttamento delle opere dell’ingegno (Digital Rights Management, appunto). Allo stato attuale le protezioni digitali offerte dalle moderne tecnologie consistono principalmente nei sistemi di crittografia (che normalmente serve a impedire il godimento non autorizzato di un opera) e nel water marking, che fornisce dati relativi ai diritti patrimoniali sull’opera acquisita (una sorta di etichetta, di tatuaggio, appunto) e ogni informazione utile a gestire lo sfruttamento della stessa a livello internazionale tramite le reti informatiche.
    Il sistema di DRM garantisce la protezione dal momento di produzione e distribuzione dei contenuti digitali a quello della fruizione da parte dell’utente, consentendo di risalire anche più agilmente all’autore della violazione .
    Per riassumere si può dire che il DRM si basa
    1) su una serie di “diritti”, ossia regole per l’utilizzo dell’opera digitale, “interpretabili” dal computer;
    2) su un insieme di tecnologie capaci di tutelare le stesse regole e che nel farlo consentono l’identificazione del contenuto, del produttore, del sistema informatico dell’utente, e via dicendo.
    Data la stretta relazione del loro funzionamento con l’esercizio in concreto dei diritti d’autore e con la maggiore commercializzazione delle opere digitali è evidente l’importanza della tutela giuridica ad essi garantita.

 

  1. Il sistema sanzionatorio e la tutela del diritto d’autore: prospettive applicabili
    Quanto al sistema sanzionatorio la legge sul DdA tiene oggi conto delle violazioni dei diritti d’autore in Internet in seguito alle modifiche apportate negli ultimi anni e consente di punire la violazione delle predette norme con sanzioni penali. I titolari dei diritti hanno così oggi una nuova facoltà esclusiva, quella di controllare l’accesso alle proprie opere tramite l’impiego delle tecnologie informatiche.
    Dapprima la legge Urbani n. 128/04 è intervenuta con una serie di misure di contrasto dirette a tutelare tutti i generi di opere dell’ingegno (tanto che è stata criticata perché giudicata troppo severa), e in seguito il D.L. n. 7/2005 (convertito nella legge n. 43/05) ha modificato le sanzioni penali preesistenti in materia di diritto d’autore (in particolare si vedano gli artt. 171 e 171 ter della legge 633/41), per cui nell’attuale disciplina è punito se il fatto è commesso per uso non personale, con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da 5 a 30 milioni di lire, chiunque “a fine di lucro” abusivamente duplica, riproduce opere dell’ingegno o loro parli ovvero detiene per la distribuzione o la effettua, comunica al pubblico le duplicazioni o riproduzioni abusive fatte da terzi o prive del contrassegno della SIAE, quando ne è obbligatoria l’apposizione. Alla stessa pena soggiace chi fabbrica, importa, distribuisce vende, noleggia cede a qualsiasi titolo, pubblicizza per la vendita o il noleggio o detiene per scopi commerciali attrezzature, prodotti o componenti ovvero presta servizi che abbiano la prevalente finalità di eludere efficaci misure tecnologiche di cui al 102 quater o siano progettati prodotti, adottati con la finalità di rendere possibile e facilitare l’elusione di tali misure.
    Dunque, l’applicabilità della predetta sanzione penale è subordinata alla commissione dell’attività vietata “a fini di lucro” lo stesso illecito commesso per qualsiasi altro fine (con dolo generico) è sanzionato secondo l’art.. 171 della legge sul DdA .
    È stata quindi recentemente eliminata dalla legge Urbani la possibilità di applicare la sanzione al privato che viola il diritto, non a fine di lucro, ma eventualmente a fine di profitto, inteso come obiettivo di realizzare il risparmio di spesa – eccetto che nell’ipotesi in cui l’opera messa a disposizione del pubblico, attraverso un sistema di reti telematiche, sia un’opera inedita o vi sia stata usurpazione di paternità .
    Da sottolineare, a proposito del sistema sanzionatorio, che il D.Lgs. n. 140/2006 ha apportato importanti cambiamenti alla normativa italiana, consentendo all’autorità giudiziaria di ottenere informazioni sull’origine e sulla portata delle violazioni, accedere ai dati bancari degli autori delle violazioni e permettere più facilmente il conseguimento del risarcimento del danno subito.
    In sintesi, quanto alla tutela giuridica delle misure tecnologiche di protezione si può dire che: l’elusione di tali misure è proibita, così come la produzione e distribuzione di strumenti principalmente finalizzati a ciò; altrettanto vietata è la rimozione o alterazione delle informazioni sul regime dei diritti (metadati) .
    Le tecnologie di cui si dispone oggi possono consentire, quindi, da un lato, un aumento delle possibilità di scelta dell’utente e dall’altro una personalizzazione delle scelte e delle offerte su rete; tutto ciò deve avvenire nel rispetto dell’esercizio dei c.d. usi legittimi delle opere dell’ingegno per garantire il diritto di ricerca, il diritto allo studio e quindi al progresso culturale e alla libertà di pensiero .
    La crescita scientifica e culturale infatti può derivare da un adeguato sistema di tutela dei diritti esclusivi, da un lato, e dalle eccezioni agli stessi (come le libere utilizzazioni) dall’altro , in modo tale che, stimolando la creazione di un opera si contribuisce a crearne di nuove: il diritto d’autore, infatti, come equilibrio tra facoltà esclusive e loro eccezioni, è invariato anche nella sua dimensione digitale e il corretto impiego dei sistemi di DRM sarà determinante per assicurare nel prossimo futuro questo equilibrio .
    Com’è stato efficacemente sottolineato, se la disciplina legislativa riconosce e valorizza il ruolo dei controlli tecnologici come oggetto di enforsement autonomo (rispetto alla normativa sostanziale del diritto d’autore), lasciando che l’uso esclusivo di codici (impostando contrattualmente le relative regole) tuteli i diritti di proprietà intellettuale, c’è “da riconoscere la concreta possibilità che in futuro siano i meccanismi di controllo dell’accesso, e non il copyright, a regolare l’utilizzazione delle opere creative”.
    Come sopra accennato si fa sempre più strada in dottrina la consapevolezza che nell’era digitale anche i limiti al diritto d’autore vadano ricercati non più solo nella regolamentazione giuridica del diritto di esclusiva ma nelle regole sull’uso della tecnologia.
    Com’è stato evidenziato  è necessario porre in evidenza le relazioni tra i limiti al controllo privato delle informazioni digitali, basato sull’interazione tra contratto e tecnologia, e altri settori del diritto in cui entrano in gioco altri diritti e interessi garantiti : oltre al diritto alla concorrenza e alla libertà di pensiero, proprio il diritto alla privacy e alla tutela dei dati personali .
    Ci si limita in questa sede ad accennare all’importante relazione che può esistere tra i limiti all’uso dei DRM e la tutela dei dati personali, da un lato, e al possibile impiego degli stessi strumenti di marchiatura tecnologica come efficaci misure a protezione delle stesse informazioni personali .
    Una delle finalità dei limiti al potere di controllo delle informazioni digitali (e quindi all’uso dei DRM) è proprio quella di garantire la privacy degli utenti, ad esempio sanzionando l’uso di MTP che comporta un trattamento dei dati personali all’insaputa dell’interessato .
    La soluzione migliore appare essere l’incorporazione del bilanciamento degli interessi contrapposti (controllo delle informazioni da parte dei titolari dei diritti d’autore e privacy dei fruitori dei contenuti digitali) nei sistemi informatici .
    Diventa allora essenziale la previa individuazione dei valori e dei meccanismi che devono stare alla base della creazione degli standard tecnologici nonché del ruolo dello Stato in questa individuazione (di valori pubblici e privati da tutelare), che pur limitandosi ad un livello generale di formulazione dei principi dovrà consentire di conoscere la sostanza di ciò che deve essere protetto: in altre parole il legislatore potrà limitarsi ad indicare i diritti e doveri, ossia i valori che proprio gli standards tecnici dovrebbero essere in grado di tutelare .
    In particolare, il diritto alla privacy nell’uso delle informazioni digitali dovrebbe includere il diritto a non essere soggetti senza motivo a costrizioni intrusive della sfera privata nella fruizione di opere intellettuali; il diritto a non essere monitorati in questa fruizione né essere oggetto di profilazione sulla base delle proprie preferenze intellettuali. Dovrebbero essere incorporati valori per così dire privacy-oriented nei sistemi DRM, i quali, in quanto restrizioni tecnologiche alla funzionalità dei contenuti digitali, dovrebbero essere flessibili al fine di garantire un apprezzabile margine di libertà nella fruizione degli stessi contenuti ; inoltre dovrebbe essere ridotta al minimo, secondo il principio di necessità di cui all’art. 3 del Codice della privacy, la possibilità per chi gestisce il DRM di trattare i dati personali degli utenti .
    Anche per la nostra dottrina non appare impossibile trovare una forma di equilibrata convivenza tra diritti di proprietà intellettuale e diritto alla protezione dei dati personali , che faccia leva non solo sugli strumenti giuridici ma necessariamente anche su quelli tecnologici, secondo l’idea, che dagli anni 90 in poi si va rafforzando nell’ampio settore della società dell’informazione, che la risposta alla macchina è la macchina stessa .
    Se da un lato, con riferimento all’impiego dei DRM, e quindi alle misure e alle informazioni sul regime dei diritti, troveranno applicazione le specifiche disposizioni della legge sul diritto d’autore , dall’altro, laddove attraverso questi sistemi vengano raccolte informazioni personali che consentono di identificare in modo anche indiretto il fruitore dei beni digitali protetti dai diritti di proprietà intellettuale, dovranno applicarsi le norme in materia di protezione dei dati personali.
    È facile immaginare come il controllo tecnologico sui prodotti e servizi generi banche dati con informazioni sui gusti e le preferenze degli utenti (potendo anche rivelare dati sensibili), da cui risulti agevole la creazione di profili individuali e la limitazione, anche indiretta, degli spazi di autonomia decisionale nella scelta dei prodotti offerti in rete: il rischio di una sorta di controllo e monitoraggio dettagliato degli usi delle opere protette è evidente .
    Dato che le tecniche di protezione mirano anche a identificare le utilizzazioni abusive delle stesse, si pone il problema di contemperare l’esigenza dell’anonimato con quella della identificabilità in Rete: in tal senso strumenti come files di log e cookies, specie se utilizzati insieme alle informazioni ricavabili dai sistemi DRM possono permettere di risalire all’utilizzatore delle opere digitali.
    Però, sia la direttiva e-privacy che il Codice sul trattamento dei dati personali dettano principi generali (come quello di trasparenza, proporzionalità e finalità) e specifiche disposizioni con riguardo ai dati di traffico (art. 123), ossia indicano precisi limiti a garanzia della dignità e dell’autodeterminazione della persona entro cui è possibile individuare il responsabile della violazione di misure di protezione.
    Per cui laddove trova applicazione la normativa a tutela dei dati personali, sarà necessario individuare dei meccanismi di salvaguardia degli stessi, che rispecchino i criteri fondamentali (art. 11), ad esempio precludendo l’utilizzo dei dati personali per finalità di profilazione sulla base delle preferenze degli utenti, e fornendo adeguata informativa.
    Di fronte al rapido sviluppo dei sistemi DRM e alla difficoltà di diffusione delle PET (di cui si parlerà in seguito) è possibile affermare che è il mercato il meccanismo che accelera il processo di sviluppo dei primi e rallenta l’utilizzazione delle seconde .
    Tutti gli aspetti summenzionati mettono in luce la necessità di riconsiderare le previsioni legislative e i principi che le sottendono, nonché l’opportunità di addivenire a soluzioni tecniche che siano in re ipsa in grado di proteggere la privacy dei soggetti, o quanto meno di non violarla .
    Inoltre, sono le stesse aziende e i vari soggetti operanti sul mercato che possono trarre profitto da una maggiore tutela dei dati personali da essi utilizzati ma anche fornire una più efficace protezione.

Conclusioni

Le odierne discipline sul diritto d’autore riconoscono al creatore dell’opera un pacchetto di prerogative che spaziano dal diritto di rivendicare in ogni modo la paternità dell’opera, ai diritti di sfruttamento economico dell’opera quali i diritti di pubblicazione, riproduzione, trascrizione, esecuzione, diffusione, distribuzione, traduzione e cosi via.
Quando quelle regole sono state concepite, lo stato della tecnologia era tale per cui la riproduzione di una determinata opera richiedeva un vero e proprio processo industriale attivabile solo con un cospicuo impiego di risorse.
Ma in ambito industriale, con lo sviluppo tecnologico delle tecniche di realizzazione delle opere dell’ingegno si sono posti una serie di problemi.
Innanzitutto un primo problema attiene alle notevoli le possibilità offerte dalla nascita di nuove forme di creazioni intellettuali quali programmi per elaboratori e opere multimediali.
Con l’avvento delle nuove tecnologie telematiche sono, inoltre, sorte forme di sfruttamento, di trasmissione e fruizione delle opere stesse (distribuzione via cavo, via satellite, tramite Internet) del tutto nuove rispetto al passato.
L’interesse principale dell’autore è stato sempre rivolto allo sfruttamento dell’opera tramite il riconoscimento di una esclusiva di produzione e distribuzione dell’opera stessa. Più precisamente, l’autore era in grado di controllare e determinare la quantità di prodotti disponibili sul mercato. Il fenomeno della “digitalizzazione”, invece, implica la possibilità di una infinita ed incontrollata riproduzione delle opere, di una loro facile e veloce trasferibilità nonché un notevole abbattimento dei costi delle operazioni ad esse collegate. L’opera dell’ingegno è, in altre parole, sempre più “dematerializzata”, proprio perchè si riduce l’utilità e l’utilizzazione dei supporti (corpus mechanicum) che in passato costituivano il mezzo più comune di comunicazione e diffusione dei prodotti dell’ingegno. Conseguentemente, l’autore perde una fondamentale possibilità di controllo sull’opera.
Anche i diritti cosiddetti morali, come ad es. quello di vedersi riconosciuta la paternità dell’opera e il diritto di opporsi a deformazioni o modificazioni della stessa, appaiono costantemente in pericolo, in quanto la facilità di circolazione, di appropriazione e manipolazione delle stesse opere rende sicuramente incerta la provenienza e l’autenticità dei materiali, anche nel caso in cui ne sia stato identificato l’ideatore.
Inoltre proprio queste condizione contribuiscono senza dubbio una revisione necessaria del classico concetto di “autore”: chiunque vi sia autorizzato può prendere un’opera preesistente e trasformarla, rielaborarla, manipolarla o presentarla sotto forme diverse. Il tradizionale senso assegnato al concetto di autore si presenta, perciò, sempre più caratterizzato da tratti confusi o sfumati, tanto che, per esempio, nel caso delle opere multimediali si può più parlare di “autore”, ma di una pluralità di “contributi autoriali” all’opera stessa.
Peraltro l’innovazione tecnologica degli ultimi anni ha reso notevolmente inadeguati il corpus di leggi esistenti in materia di diritto d’autore a seguito dell’estrema facilità di riproduzione delle opere in formato digitale.
Tale formato consente di prescindere dal supporto materiale per la trasmissibilità del contenuto, la cui regolarità diventa perciò difficile da controllare.
Ne consegue che la condivisione telematica dei files in ambienti informatici come Internet costituisce, dal punto di vista del diritto d’autore, un problema centrale.
A partire da Internet, infatti, la condivisione di dati non avviene più all’interno di reti “proprietarie”, come avveniva nei modelli precursori EDI ed ARPANET, bensì attraverso un sistema universale senza alcun limite spaziale, che rende la fruizione delle opere intrinsecamente transnazionale e non facilmente governabile.
Il problema per il diritto d’autore è, in primo luogo, di ordine pratico, a causa dell’estrema volatilità del contenuto senza riguardo per alcuna frontiera geografica: mentre prima bastava sottoporre a rigidi controlli gli esemplari originali di ogni singola opera, ora la proliferazione di sistemi digitali di riproduzione consente a qualsiasi possessore di concorrere col fornitore d’opera originario nell’offerta di quel bene. Ciò ha provocato una sorta di mutazione genetica nel sistema di tutela offerta: le sanzioni per la violazione del diritto d’autore non sono più esclusivamente incentrate sulle attività correlate alla diffusione illecita del contenuto verso il pubblico, ma anche su quelle che avvengono in ambito privato.
Inoltre, nel contesto digitale entrano in gioco fattori ulteriori, quali il diritto all’informazione, alla diffusione, al libero accesso e all’anonimato; questi diritti si intrecciano con la disciplina del diritto d’autore sotto alcuni aspetti importanti.
Un altro problema si individua nell’impossibilità di distinguere la copia dall’originale sul piano qualitativo. Tanto più si fotocopia la fotocopia di un’o¬riginale (o si registra da una precedente registrazione) tanto più la copia successiva risulta di qualità scadente rispetto alla precedente (e, a maggior ragione, rispetto all’originale). La duplicazione di un file digitale (di testo, di suono, ete.) non comporta nessuno scadimento qualitativo tra file originale e file copiato: è sempre la stessa sequenza di bit;
altra problematica è connessa alla facilità di distribuzione delle opere. Grazie alla rete chiunque può porre su un sito file contenenti opere protet¬te che chiunque può successivamente scaricare da qualsiasi punto del globo.
Sia a livello internazionale che comunitario e nazionale, è emersa quindi l’esigenza di definire un nuovo assetto della proprietà intellettuale sulla base del nuovo scenario tecnologico che ha portato nell’ultimo decennio all’approvazione di importanti atti normativi che hanno contribuito a creare il c.d. Nuovo Diritto d’Autore e che sono volti principalmente ad assicurare con strumenti giuridici e tecnologici una tutela rafforzata di questi stessi diritti.

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