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L’OPERA CINEMATOGRAFICA NELL’ORDINAMENTO GIURIDICO ITALIANO ED INTERNAZIONALE

  1. L’OPERA CINEMATOGRAFICA COME OPERA DELL’INGEGNO: LA LEGGE N. 633/194 (LA L.D.A.).

All’interno dell’ordinamento giuridico italiano, l’opera cinematografica viene senz’altro compresa nell’ambito delle opere dell’ingegno, restando dunque assoggettata alla relativa disciplina, sancita dalla LEGGE N. 633/1941 (legge sul diritto d’autore).

In effetti, ai sensi dell’articolo l della suddetta legge, risultano protette “le opere dell’ingegno di carattere creativo che appartengono alla letteratura, alla musica, alle arti figurative, all’architettura, al teatro ed alla cinematografia, qualunque ne sia il modo o la forma di espressione”; nell’ articolo successivo (art. 2 punto 6) viene inoltre specificato, in maniera esplicita, che tale protezione include “le opere dell’ arte cinematografica, muta o sonora”, fatta eccezione per le opere di semplice documentazione.

In forza di quanto detto, è pero necessario precisare a quali condizioni l’opera cinematografica possa considerarsi opera dell’ingegno, rientrando cosi nell’orbita della L.D.A., dal momento in cui le opere dell’arte cinematografica sono oggetto del diritto d’autore e della relativa disciplina solo se ed in quanto possiedano i requisiti per la tutela come opere dell’ingegno; così, in primo luogo è necessario che una tale opera sia configurabile quale “opera finita” al fine di acquisire rilevanza dal punto di vista giuridico[1].

In secondo luogo, un requisito imprescindibile dell’opera è costituito dal “carattere creativo” (ex articolo l della L.D.A.), in base al quale è necessario che in seno all’ opera siano ravvisabili i connotati della novità e dell’ originalità[2].

La L.D.A, oltre a contemplare tra le opere protette le opere dell’arte cinematografica (articoli l e 2), contiene altresì una specifica disciplina di tali opere (articoli 44 – 50): l’articolo 44 concerne la titolarità dei diritti sull’opera cinematografica, ed indica come coautori della stessa l’autore del soggetto, l’autore della sceneggiatura, l’autore della musica ed il direttore artistico.

L’articolo successivo (il 45) affianca loro la figura del produttore, disponendo che l’esercizio dei diritti di utilizzazione economica dell’ opera cinematografica spetti appunto al soggetto che ne abbia organizzato la produzione; gli articoli successivi delimitano invece le rispettive posizioni ed i reciproci diritti ed obblighi[3].

  1. L’OPERA CINEMATOGRAFICA E L’OPERA AUDIOVISIVA: DEFINIZIONI.

Nella L.D.A., che pure reca una specifica disciplina concernente le opere cinematografiche, si avverte la mancanza di un’ esauriente definizione positiva di tali opere.

In passato la definizione forse più completa era quella data dal Capitani, rifacendosi a quella fornita dalla conferenza di Roma del 1928, che qui segnaliamo più per interesse storico che non attuale: “l’opera cinematografica è quella che risulta dal positivo definitivo di montaggio, che è rivelata dallo schermo e dall’apparecchio sonoro, con quei determinati attori, con quella determinata scenografia, con quei risultati ottici ed acustici che sono stati effettivamente ottenuti in sede di realizzazione”[4].

Successivamente, in tempi più recenti, un ulteriore tentativo di definire l’opera cinematografica è riscontrabile nel testo della Legge n° 1213 del 1965 (modificato dal D.L. 14.01.1994 convertito in Legge 01.03.1944 n. 153): “per film o opera filmica si intende lo spettacolo realizzato su supporti di qualsiasi natura, con contenuto narrativo o documentaristico, purché opera dell’ingegno ai sensi della disciplina del diritto d’autore, destinato al pubblico prioritariamente nelle sale cinematografiche dal titolare dei diritti di utilizzazione.”

Tale definizione è stato però oggetto di diverse (e forse giustificate) critiche; alcuni autori[5] ne evidenziano le lacune, riscontrabili sostanzialmente in 2 elementi: in primo luogo sembra perseguire l’intento di ampliare l’ambito cinematografico a tutte le opere audiovisive, senza però utilizzare direttamente questa espressione; in secondo luogo, omette di estendere l’area delle cosiddette “opere filmiche” alle opere che si esprimono con un procedimento analogo a quello della cinematografia. Ed è proprio partendo da questa “imperizia” del legislatore, e dal fatto che manchi nella L.D.A. una definizione positiva dell’opera cinematografica, che si è posto un problema di carattere interpretativo di cui è opportuno occuparci: tale problema è insito nel fatto che nella normativa sul diritto d’autore ci si riferisce alle opere cinematografiche nei modi più disparati, sollevando la necessità di stabilire se nel nostro ordinamento la protezione prevista dalla Legge sia rivolta unicamente alle opere cinematografiche in senso stretto, o se questa sia suscettibile di essere estesa ad ogni tipo di “sequenza di immagini in movimento” (assimilando quindi a livello normativo l’opera cinematografica a quella audio visiva).

In effetti, nella L.D.A. si parla di opera cinematografica in vari modi: all’articolo l ci si riferisce alle “opere appartenenti alla cinematografia” agli articoli 32 e 46 bis, modificati con D.1gs del 13.06.1997, nonché al comma 2 dell’art. 84, si parla invece di “opere cinematografiche o audio visive o sequenze di immagini in movimento”.

All’articolo 80 si parla di “opere cinematografiche o audiovisive”. Agli Artt. 2, 44, 45, 46, 47, 48, 49, 103 (commi 2 e 5) ed art. 171 bis si fa infine riferimento alle “opere cinematografiche o alle opere dell’arte cinematografica”.

Ora è fuor di dubbio che esuli dalla problematica in questione il fatto che vi siano alcune opere, simili per struttura e supporto tecnico alla cinematografia, che nel nostro ordinamento non sono protette come opere cinematografiche[6] (ed in alcuni casi nemmeno come autonome opere dell’ingegno).

La questione posta riguarda piuttosto l’opportunità di procedere all’assimilazione concettuale e normativa dell’ opera cinematografica con l’opera audiovisiva, vista e considerata l’evidente confusione terminologica presente nella L.D.A., sulla base delle similitudini esistenti tra tali opere sia  sul piano dei modi di creazione che sulle possibilità di fruizione. La dottrina prevalente sembra orientata a favore di una tale assimilazione; per cui, in sostanza, le varie espressioni impiegate dal legislatore si riferirebbero, tutte, al medesimo genere di opere (in attesa di un adeguamento della disciplina, quanto meno sotto forma di una revisione terminologica)[7].

Le motivazioni della confusione termino logica di cui sopra vanno ricercate nel concorso di 2 fattori: in primis nel progresso tecnologico che ha caratterizzato tale settore negli ultimi 50 anni; la realizzazione dell’opera cinematografica, inizialmente vincolata alla pellicola cinematografica (ossia ad una serie di immagini fotografiche che, legate assieme, davano l’impressione del movimento) è stata infatti successivamente resa possibile con l’ausilio di altri mezzi tecnici, come la registrazione su nastro (o filo, o disco) elettromagnetico o come il metodo digitale.

Inoltre, la proiezione su schermo ha cessato di essere l’unica forma possibile di presentazione al pubblico dell’ opera, laddove il medesimo scopo può ottenersi mediante la trasmissione televisiva (dapprima via etere, successivamente via cavo e via satellite) o, in tempi più recenti, tramite la trasmissione informatica via computer e modem.

In secondo luogo, la causa del problema terminologico gravante sulla L.D.A. andrebbe individuato in quella che alcuni autori[8] denominano “sciatteria del legislatore”; ossia, a fronte di tali innovazioni, nell’importazione passiva, nella riproduzione pedissequa, nel testo della nostra legge speciale, di espressioni utilizzate dalle convenzioni internazionali e da direttive comunitarie che ne sono state all’origine.

In definitiva, in base a tale orientamento dottrinale, la confusione terminologica presente nella L.D.A. non avrebbe alcuna effettiva giustificazione giuridica, e di conseguenza l’interprete non dovrebbe esserne fuorviato.

Ad avallare la validità di tale orientamento, che ritiene dunque legittimo il ricorso all’analogia con l’opera cinematografica per tutelare quella audiovisiva, soccorrono invero altre considerazioni, derivanti da un’attenta analisi di normative straniere e di convenzioni internazionali (analisi che si è poi rivelata utile anche al fine di giungere ad un’ esauriente definizione dell’opera cinematografica).

Di grande utilità risulta anzitutto la legge statunitense del 1976, il cui oggetto è appunto la protezione delle “motion pictures and other audio visual works”, definite come segue: “works that consist of series of related images which are intrinsically intended to be shown by use of machines or devices such as projectors, viewers , or electronic equipment, together with accompanying sounds, if any, regardless of the nature of the material objects, such as films or tapes, in which the works are embodied”.

Dello stesso tenore risulta poi la legge francese del 1985 (per altro improntata sul modello USA), che ha modificato la precedente legge del 1957, sostituendo i concetti di “opera cinematografica” e di “utilizzazione cinematografica” con quelli, di più ampia portata, di opera audio visiva e di utilizzazione audiovisiva (in cui rientrano la tele diffusione, la cablo diffusione, la diffusione informatica e la distribuzione delle video cassette).

La protezione in essa prevista si estende alle “opere cinematografiche e altre opere consistenti in una sequenza di immagini animate con o senza suoni, denominate nel loro insieme opere audiovisive”.

Infine, è anche in base a quanto disposto da alcune convenzioni internazionali che va affermandosi la tendenza, generalmente avvertita anche dai nostri giuristi, all’ assimilazione concettuale e normativa dell’opera cinematografica a quella audiovisiva.

Così il trattato di Ginevra sulla registrazione internazionale delle opere audio visive, siglato il 18 aprile del 1989, che fornisce all’Art. 2 una completa definizione di tali opere, in cui rientra “tout oeuvre qui consiste en une serie d’images fixees entre elles, accompagne ou non de sons, suscetibles d’etre rendue visible et, si elle est accompagnee de sons, suscetible d’etre rendue audible”.

Allo stesso modo, l’Art. 2 della convenzione di Berna procede all’assimilazione delle opere cinematografiche con le altre opere “espresse mediante un procedimento analogo alla cinematografia” (con palese riferimento alle opere audiovisive[9]).

  1. IL REGISTRO PUBBLICO GENERALE DELLE OPERE PROTETTE

Affidato in gestione alla SIAE, in base al D.lgs. 419/1999, non configura un registro di carattere obbligatorio o costitutivo: il deposito dell’opera si rende di norma necessario solo al fine di far valere i diritti connessi all’esercizio del diritto d’autore[10].

Normalmente condizione per la registrazione è la presentazione d’un esemplare dell’opera, accompagnato da una dichiarazione in doppio originale, avente lo scopo di individuarne con precisione l’autore, oltre che i tratti salienti dell’opera stessa; per quanto concerne le opere cinematografiche è richiesta la presentazione di un esemplare della sceneggiatura corrispondente al film prodotto, e di fotografie e diapositive che siano sufficienti ad individuare l’opera.

Ai sensi dell’art. 103 L.D.A “La registrazione fa fede ,fino a prova contraria, della titolarità dell’ opera da parte degli autori e produttori ai quali è attribuita, nonché dell’esistenza dell’opera e della sua pubblicazione”.

  1. IL REGISTRO PUBBLICO SPECIALE DELLE OPERE CINEMATOGRAFICHE

Istituito con L. 4588/1939 (modificato con d.p.r. 773/1967), è stato tenuto dalla SIAE, presso la sua direzione generale, fino alla sua soppressione.

Diversamente dal suo predecessore, che presupponeva l’esistenza di un opera finita al fine di poter procedere all’iscrizione, in tale registro l’iscrizione avveniva prima che l’opera in questione venisse ad esistenza. In seguito, è stato sostituito dal P.R.C.

  1. IL REGISTRO INTERNAZIONALE DELLE OPERE AUDIOVISIVE

Istituito con la firma del “trattato sulla registrazione internazionale delle opere audiovisive”, il 18 aprile 1989 a Ginevra, ne è stata sospesa l’attività il 13 maggio 1993.

Merito indiscusso del trattato, come abbiamo già visto in precedenza, è di aver fornito a livello internazionale una esauriente definizione dell’opera audiovisiva, comprensiva delle opere cinematografiche e di altre opere (quelle audiovisive) che ai sensi della normativa italiana rischiano invece di non essere ricomprese nella disciplina della L.D.A. (come ad esempio le opere nate espressamente per la televisione).

Il registro è gestita dall’AMPI, ed ha la sua sede istituzionale a Vienna.

Abilitati a richiedere le registrazioni sono le persone fisiche o giuridiche che appartengono o risiedono in uno stato aderente al trattato e che vi svolgono stabilmente un’attività di carattere commerciale o industriale.

Funzione principale della registrazione è di costituire uno strumento di pubblicità notizia, con l’inversione dell’onere della prova relativamente alla veridicità delle notizie contenute nel registro; altro effetto è poi quello di garantire la pubblica conoscibilità di tale notizia.

Nel regolamento di esecuzione (entrato in vigore il 28 febbraio del 1991) sono stabiliti i criteri relativi alla domanda di iscrizione (é qui sufficiente una descrizione dell’ opera idonea ad identificarla, ma non serve dunque il deposito di una copia dell’opera), che deve essere presentata nella forma richiesta e accompagnata dal pagamento della tassa prescritta: dopo di che, avvenuta l’iscrizione, viene rilasciata un’apposita certificazione.

Sono poi oggetto di trascrizione gli atti relativi al trasferimento dei diritti inerenti all’opera registrata; in tal caso, funzione primaria del registro è di dare certezza legale e trasparenza alle negoziazione[11].

  1. LA DISTRIBUZIONE.

I produttori, per procedere allo sfruttamento tradizionale delle opere cinematografiche realizzate, si rivolgono dunque ad apposite imprese di distribuzione, che fungono da intermediarie con gli esercenti delle sale cinematografiche. Si tratta di imprese che possono avere dimensioni sia nazionali che regionali, articolate solitamente in una rete di agenti, il cui scopo principale è quello di proporre e di fornire agli esercenti le opere cinematografiche, e di stipulare con questi dei contratti di noleggio affinché queste possano raggiungere il pubblico. Di norma, le attività delle imprese di distribuzione si estendono poi ad altri ambiti (la cura della pubblicità, della stampa, del doppiaggio), acquisendo un importanza notevole non solo ai fini della circolazione dei film, ma anche per il loro successo[12].

Con tale contratto, il produttore affida al distributore il compito di promuovere la stipula di una pluralità di contratti di noleggio con gli esercenti delle sale cinematografiche, allo scopo di assicurare la proiezione dell’opera prodotta per un certo territorio e per un dato periodo di tempo. In base ad esso, il produttore consegna al distributore il negativo originale del film (o delle copie positive già predisposte per la proiezione), oppure gli fornisce una lettera di accesso al materiale negativo del film, depositato a nome del produttore presso un laboratorio di stampa, al fine di trame delle copie negative destinate al noleggio. Tali copie dovranno di norma essere impiegate secondo la loro destinazione economica e per il tempo stabilito nel contratto, fino al loro deterioramento, alla loro distruzione o alla consegna al produttore al termine del contratto.[13]

Molto frequenti nei contratti di distribuzione sono le clausole riguardanti la loro durata (di 5 anni, tradizionalmente), il “battage” pubblicitario, il tempo di uscita, il compenso del distributore e la ripartizione delle spese riguardanti il produttore ed il distributore (ad es. per la pubblicità, o per la stampa delle copie…).

Al produttore spetta di norma la “quota produttore”, ossia una quota dei proventi derivanti dalle proiezioni, divisi con il noleggiatore. Il distributore riceve invece sulla quota produttore una percentuale, denominata commissione di distribuzione. Tra gli obblighi del distributore, quello di non modificare né alterare l’opera cinematografica, e quello di non apportare tagli (se non per necessità di censura; ed in caso di censura totale si profila l’annullamento del contratto ed il diritto del distributore al rimborso di quanto anticipato).

Quanto alla natura del contratto di distribuzione cinematografica, va sottolineato che questo non è previsto né disciplinato dalla L.D.A.. Né tantomeno appare riconducibile alla figura del contratto di rappresentazione[14].

La qualificazione di tali contratti dal punto di vista giuridico non è cosa di facile attuazione, trattandosi di negozi in cui sono ravvisabili elementi tipici di vari e diversi contratti. Non a caso, nel tentativo di procedere a tale inquadramento, la dottrina e la giurisprudenza hanno assimilato di volta in volta tali contratti alle più disparate forme contrattuali tipiche. In passato, parte della dottrina e della giurisprudenza tendevano ad assimilare il contratto di distribuzione al contratto di noleggio[15]. Per alcuni, la locazione della pellicola andava assimilata alla locazione di una cosa mobile, configurando così l’ipotesi dell’affitto[16].

In giurisprudenza, la tendenza è di considerare il contratto di distribuzione come un mandato con rappresentanza[17]; in altre occasioni, la giurisprudenza ha poi assimilato tali contratti all’appalto[18]; in altre ancora all’associazione in partecipazione, laddove sia presente la clausola del minimo garantito[19] (che vedremo in seguito). Oggi, secondo l’orientamento che appare prevalente, il contratto di distribuzione sembra assimilabile nella maggioranza dei casi ad un mandato o ad un agenzia[20], per via della comune caratteristica in base alla quale una parte s’impegna a compiere per conto dell’altra degli atti giuridici, ossia a promuovere la conclusione di contratti finalizzati allo sfruttamento dell’opera nelle sale, entro un dato territorio e per un dato periodo di tempo, verso corrispettivo[21].

In conclusione, va detto che sono molteplici le forme che un contratto di distribuzione può assumere in concreto, con tutti i problemi propri dei contratti atipici (in primo luogo della disciplina loro applicabile); in sostanza quindi il contratto viene variamente qualificato a seconda della sua formulazione e degli obblighi che le parti decidono di assumersi reciprocamente, senza che esista un modello unico di tali contratti[22]. Inerente alla configurazione giuridica di tali contratti è poi la prassi, assai diffusa, di inserire nei contratti di distribuzione delle clausole concernenti la previsione di un finanziamento a favore del produttore, posto a carico del distributore. Si tratta di regola di un finanziamento sotto forma di anticipazioni, la cui funzione principale è di permettere al produttore di coprire le spese relative alla produzione dell’ opera, o di restituire eventuali mutui contratti a tal fine (l’interesse del distributore sembra invece rivolto ad ottenere, nella formazione del suo listino annuale, delle opere di sicuro richiamo per il pubblico, partecipando finanziariamente alla loro realizzazione). Tali clausole possono configurarsi in due modi diversi: in una prima ipotesi possono prevedere che le somme versate al produttore dal distributore siano state concesse a titolo di mutuo, garantito dai proventi propri della distribuzione[23]. Nella seconda ipotesi, è possibile che la clausola preveda un finanziamento a favore del produttore a titolo di minimo garantito, versato a fondo perduto[24].

È doveroso evidenziare come in questa fattispecie il distributore, oltre ad accollarsi il rischio d’impresa relativo alla distribuzione del film, si assumerà altresì (seppure in parte, nei limiti dell’anticipazione versata) il rischio connesso alla produzione dell’ opera cinematografica, sulla quale non ha peraltro pressoché nessun controllo, salvo l’accertamento delle condizioni del contratto circa la consegna di un film ivi definito (in base ai costi di produzione, alla data di consegna, alla presenza di dati elementi tecnici ed artistici), e circa la realizzazione dell’opera entro una certa data.

Su questo punto, la dottrina e la giurisprudenza si sono espresse in maniera assai diversa: Menozzi rileva come, in questo caso, l’inversione del rischio­ che qui viene assunto dal distributore- può modificare la posizione del mandatario, e giustificare così la configurazione del contratto come associazione in partecipazione[25]; secondo altri autori,[26] il contratto di distribuzione si delinea in questo caso quale un contatto aleatorio, per via del “doppio” rischio assunto dal distributore, di distribuzione e di produzione; dunque ne sarebbero escluse la risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta e l’applicazione delle norme sulla rescindibilità per lesione. Secondo il Tribunale di Milano[27], invece, la clausola del minimo garantito incide marginalmente sulla causa del contratto di distribuzione, che andrebbe comunque disciplinato secondo le norme previste in tema di mandato[28].

Per Fabiani – De Sanctis, infine, il minimo garantito trasforma il mandato semplice in mandato in rem propriam (e irrevocabile, salvo diverso accordo o giusta causa); questo perché il contratto è stipulato non solo nell’interesse del mandante, ma anche del mandatario: il quale, oltre alla provvigione o commissione, ha altresì interesse a recuperare il proprio credito o investimento.

  1. L’UTILIZZAZIONE “HOME-VIDEO”.

Ad ampliare la sfera delle possibili utilizzazioni delle opere cinematografiche, insieme alla Televisione, ha contribuito in maniera incisiva l’invenzione di un sistema semplice, moderno ed economico di registrazione (e di visione) di opere filmiche: il VHS (brevettato in Giappone, nel 1975, dalla Jvc), che va collocato alla base dell’imponente sviluppo e della diffusione dell’home – video nel mercato mondiale. Lo sfruttamento delle opere cinematografiche mediante tale strumento avviene attraverso due distinti canali di distribuzione: da una parte il mercato dell’home – video, in cui l’utente acquista la proprietà di una copia della videocassetta; dall’altra il “video – rental”, in cui le imprese di noleggio forniscono agli utenti un analoga copia del videogramma, ma solo per un breve lasso di tempo. Anche in quest’ambito valgono le considerazioni esposte in precedenza con riguardo all’utilizzazione televisiva, circa la spettanza dei diritti di sfruttamento del film all’interno di questi nuovi circuiti di distribuzione; di norma, dunque, anche qui è comunque il produttore, in un modo o nell’altro, a disporre di tali diritti di sfruttamento.

Questi può decidere di vendere ad un distributore di video grammi il diritto alla loro distribuzione, stipulando un contratto di cessione concernente i suoi diritti di sfruttamento, oppure può limitarsi a stipulare un contratto di licenza, a prezzo fisso o a percentuale sugli incassi. Oltre alla vendita ed al noleggio al dettaglio, per le imprese di distribuzione home video si è poi aperto un ulteriore canale di sfruttamento, relativo al noleggio nelle comunità e negli alberghi[29].

Infine, così come previsto per la distribuzione televisiva, l’art. 55 della L. 213/1965 stabiliva anche per la distribuzione home video un intervallo di non concorrenza con la distribuzione nelle sale, fino alla sua abrogazione ad opera della L. 122/1998.

  1. LA CONVENZIONE DI BERNA.

La Convenzione di Berna è considerata la più ampia e completa Convenzione internazionale in materia di diritto d’autore, ed in particolar modo nell’ambito della protezione delle opere cinematografiche. Conclusa a Berna il 9 Settembre 1886 da sette paesi europei (Belgio, Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia, Spagna e Svizzera) e da tre extraeuropei (Haiti, Liberia e Tunisia), è stata oggetto di numerose revisioni[30]. La prima disciplina internazionale dell’opera cinematografica risale alla revisione di Berlino del 1908 (ratificata dall’Italia nel 1914), che segnò un notevole progresso a livello convenzionale, in particolare ampliando le categorie di opere protette con l’inclusione delle “produzioni cinematografiche”, sancendo il primo passo verso l’autonomia e l’originalità di tali opere nell’ambito delle opere dell’ingegno. In seguito, con la revisione di Bruxelles del 1948, le opere cinematografiche vengono inserite nell’ elenco di quelle appositamente protette, conferendo finalmente a tali opere una tutela autonoma, differenziandola da quella attribuita alla fotografia[31]. Oggi la Convenzione di Berna (nel testo di Parigi) include tra le “oevres artistiques et litteraires” protette le opere cinematografiche, alle quali sono assimilate le opere audiovisive, ossia “quelle che si esprimono con un procedimento analogo alla cinematografia” (artt. l e 2). Va comunque segnalato che oggi, all’interno della Convenzione, manca una specifica disciplina riguardante in via esclusiva l’opera cinematografica, per cui anch’essa sottostà ai principi generali propri della convenzione riguardanti le opere letterarie ed artistiche (pur essendo riscontrabili alcune disposizioni riguardanti in maniera specifica le opere cinematografiche)[32]. Oggi, rientrano in questa Convenzione all’incirca 95 paesi; l’intento principale è la costituzione di un Unione di stati per la protezione dei diritti dei loro autori sulle opere letterarie ed artistiche. Merito innegabile di tale convenzione è stato quello di assicurare una tutela minima uniforme delle opere dell’ingegno degli stati aderenti (al di sotto della quale gli stati aderenti si sono impegnati a non scendere), fungendo così da piattaforma delle diverse legislazioni nazionali in tema di diritti d’autore.

Ai sensi dell’art. 3 par. 1, rientrano nella tutela da essa prevista le opere degli autori facenti capo ad uno dei paesi dell’Unione, nonché le opere di autori di altri paesi, quando queste siano pubblicate per la prima volta in uno dei paesi dell’Unione (o simultaneamente in uno stato dell’Unione ed in uno al di fuori della convenzione). Sono altresì protette da tale convenzione le opere cinematografiche il cui produttore risieda o abbia la propria sede in un paese firmatario.

Principio cardine della Convenzione d’Unione è quello del “trattamento nazionale”, definito in dottrina come “principio di assimilazione”. In forza di tale principio le opere straniere sono assimilate, quanto al trattamento giuridico, alle opere nazionali: dunque gli autori godono in ciascuno stato dell’Unione ove richiedano la tutela della medesima protezione ivi accordata ai propri cittadini (art. 5 par. 1).

Altro principio generale al quale è improntata la convenzione di Berna riguarda “l’indipendenza della protezione dall’adempimento di qualunque formalità” (ex art. 5 par. 2); dunque, a differenza della convenzione universale, la protezione delle opere unioniste è svincolata da qualsivoglia formalità (come ad es. deposito o registrazione[33].

La protezione delle opere cinematografiche nei paesi unionisti è poi indipendente dalla protezione ad esse accordata nel paese d’origine; per cui le opere straniere sono protette in base alla legge del paese dove la tutela è stata richiesta, a prescindere dall’esistenza e dal contenuto della protezione accordata all’opera dal paese d’origine. Costituisce un eccezione a tale principio quello della “comparazione dei termini”, in forza del quale è esclusa la protezione di un opera negli altri stati aderenti qualora nello stato di origine sia caduta in pubblico dominio per il decorso del termine legale di protezione ivi vigente (art. 7 par. 8). Questo principio riveste un importanza particolare in relazione alle opere statunitensi, in quanto prima della riforma del 1976 l’ordinamento USA prevedeva due distinti periodi di protezione di 28 anni ciascuno, subordinando la tutela dell’opera all’adempimento di determinate formalità (registrazione al Copyright office e rinnovo del Copyright alla scadenza del primo periodo); così l’inadempimento di tali formalità avrebbe causato, secondo alcuni, non solo la caduta in pubblico dominio di alcune opere statunitensi nell’ordinamento USA, ma anche il venir meno della tutela negli altri stati dell’Unione (appunto per il mancato adempimento delle formalità costitutive allora previste dalla Convenzione Universale). L’art. 18 della Convenzione di Berna precisa però che “la presente Convenzione si applica a tutte le opere che alla data della sua entrata in vigore non sono ancora cadute in pubblico dominio, nel paese d’origine, per decadenza del termine di protezione ivi previsto dalla legge”.

Per cui se un opera cade in pubblico dominio nel proprio stato d’origine ma per ragioni diverse dal decorso del termine legale di protezione, essa rimane comunque in regime di protezione negli altri stati dell’Unione: ed è proprio ciò che si verifica quando l’opera USA non sia stata registrata, o qualora non sia stata presentata la domanda per il rinnovo del Copyright, trattandosi palesemente di caduta in pubblico dominio non dettata dalla scadenza del termine legale di protezione, ma dall’inadempimento di formalità costitutive (che la Convenzione considera peraltro, come si è visto, irrilevanti ai fini della protezione). Dunque, in sostanza, in base alla Convenzione di Berna l’opera cinematografica americana gode in Italia della medesima protezione assicurata dalla nostra legge interna alle opere nazionali, alla sola condizione che il periodo di tutela legale accordato a tali opere nel loro paese d’origine non si sia esaurito.

Particolare rilievo riveste poi l’ art. 14 bis, che rimette alla legislazione nazionale nel paese in cui è invocata la protezione il compito di determinare i titolari dei diritti d’autore sull’opera cinematografica[34]; dunque il 14 bis tutela l’opera cinematografica come un opera originale (n. 1), lasciando poi alla legislazione dello stato in cui è richiesta la protezione la facoltà di stabilire quali siano i titolari dei diritti d’autore su di essa[35].

L’articolo stabilisce poi una presunzione di legittimazione in base alla quale gli autori dei contributi originali alla realizzazione del film non possono opporsi, salvo patto contrario, alla riproduzione, messa in circolazione, rappresentazione e radiodiffusione dell’ opera ovvero all’ esercizio dei diritti di utilizzazione economica dell’ opera, riconosciuti al produttore in quasi tutti i paesi membri della Convenzione (compresa l’Italia, ex art. 45 L.D.A.).Va dunque evidenziato come la Convenzione di Berna stabilisca come un opera cinematografica debba essere protetta, senza però offrire una definizione di chi debba considerarsi “autore” di tale opera; lasciare quindi ai singoli ordinamenti nazionali la determinazione di quali soggetti siano titolari dei diritti sulle opere protette pone delle difficoltà interpretative, dettate dalle profonde differenze esistenti tra i vari paesi nell’individuare chi sia l’autore di tali opere. Nell’impostazione propria dei paesi dell’Europa continentale, l’autore è la persona fisica che crea l’opera; in altri sistemi legislativi però (come gli USA o la Gran Bretagna) autore è invece il soggetto che prende l’iniziativa economica della realizzazione dell’opera o che la commissiona[36].

In forza dell’art. 6 bis, la Convenzione tutela poi espressamente sia il diritto di paternità che il diritto all’integrità dell’opera. Così, indipendentemente dai diritti patrimoniali (ed anche dopo la loro cessione), gli autori di un opera conservano il diritto di rivendicarne la paternità e di opporsi ad ogni deformazione, mutilazione o altra modificazione (come ad ogni altro atto a danno dell’opera) che possa arrecare un pregiudizio al suo onore o alla sua reputazione.

Infine, la Convenzione prevede all’art. 7 un livello minimo di tutela inderogabile, da assicurare alle opere degli altri stati unionisti, fissata per le opere cinematografiche nel termine di 50 anni dalla data di pubblicazione[37].

Va infine segnalato come, trascorso più di un secolo dalla conclusione della Convenzione di Berna, manchi ancora un regolamento internazionale uniforme dei diversi aspetti del diritto d’autore sull’opera cinematografica, in merito all’identità ed al numero dei suoi autori, alla ripartizione delle loro attribuzioni, al titolo in forza del quale il produttore (nella cui impresa si realizza l’opera) possa esercitare i diritti di sua spettanza, ai limiti entro i quali l’autore di un opera possa esercitare i diritti morali che la Convenzione gli riconosce: tutti questi aspetti sono infatti lasciati, attualmente, alle legislazioni nazionali.

  1. LA CONVENZIONE ISTITUTIVA DELL’OMPI.

Un’altra Convenzione rilevante dal punto di vista cinematografico è poi la Convenzione istitutiva dell’OMPI,[38] (l’organizzazione mondiale della proprietà intellettuale), firmata a Stoccolma il 14 Giugno 1967, alla quale aderiscono attualmente circa 120 stati (l’Italia l’ha ratificata con L. 724/1976).

Scopo primario dell’OMPI è di promuovere l’adozione di misure volte a migliorare la protezione della proprietà intellettuale nel mondo, e ad armonizzare le legislazioni nazionali nel settore. Tra i suoi compiti, lo svolgimento dei servizi amministrativi della Convenzione d’Unione, nonché la tenuta del registro cinematografico internazionale.

Va segnalato il Forum dell’OMPI tenuto si a Napoli nell’Ottobre 1995[39], dedicato alla protezione internazionale dei diritti d’autore nella società dell’informazione globale, ed animato dall’idea (piuttosto utopica) di un unificazione universale delle regole in materia[40]. Va infine menzionata la riunione indetta dall’OMPI nel Dicembre 1998 a Ginevra, finalizzata ad individuare soluzioni di diritto internazionale privato in relazione alla protezione dei diritti di autore trasmessi attraverso le reti digitali mondiali[41].


[1] E’ infatti necessario scindere il momento costituito dall’atto della creazione rispetto a quello dell’ effettiva realizzazione dell’opera: la semplice idea intuizione dell’ autore (o degli autori), il mero progetto, in quanto privo di un completo sviluppo (restando quindi “in mente retentum”) non e tutelabile quale opera dell’ingegno. Per ottenere tale scopo e necessario che il pensiero umano si estrinsechi materialmente in un opera finita, concretamente realizzata, acquistando cosi un valore giuridico, oltre che sociale ed economico.

[2] Perché sussista il concetto di creatività non è però necessario che l’originalità e la novità siano assolute; affinché l’opera dell’ingegno riceva protezione è sufficiente la sussistenza di un atto creativo, se pur minimo, suscettibile di estrinsecazione nel mondo esteriore.

[3] Nell’ambito della disciplina dell’opera cinematografica rientrano altresì gli articoli riguardanti i diritti connessi: artt. 80 – 85 per gli artisti interpreti, art. 86 per gli scenografi, artt. 87-92 per i fotografi, nonché alcune norme di carattere generale. La disciplina viene qui esposta sommariamente a fini generali: per una trattazione più esauriente ed approfondita si rinvia ai capitoli successivi.

[4] Capitani, “Il film nel diritto d’autore”, Roma, 1943, 120.

[5] Menozzi, “Diritto Cinematografico”, 47; V. M. de Sanctis, “La protezione delle opere dell’ingegno”, 244.

[6] E’ il caso della “semplice documentazione cinematografica”, esplicitamente esclusa dalla tutela della L.D.A. dall’Art. 26 del Titolo I; in essa rientrano altresì, oltre ai documentari tecnici o informativi (di per se privi di carattere creativo) le fissazioni di opere già provviste di una loro forma rappresentativa.

[7] Su questo punto, il Menozzi (op. cit.) afferma che “ogni opera realizzata con procedimento analogo alla cinematografia è oggetto dell’intera disciplina contenuta nella L.D.A., quale che sia la terminologia usata dal legislatore per individuarne l’oggetto”.

[8] “I contratti di diritto d’autore”, Fabiani – de Sanctis, 313

[9] Alla luce di quanto esposto, ci sembra utile sottolineare l’esigenza di procedere al più presto, all’interno dell’ordinamento giuridico italiano, ad una riforma strutturale della nostra legislazione in materia, che le permetta di adeguarsi alla disciplina internazionale, riconoscendo a livello normativo l’assimilazione dell’opera cinematografica a quella audiovisiva

[10] L’ art. 106 recita infatti :”l’ omissione del deposito non pregiudica l’acquisto e l’esercizio del diritto d’autore sulle opere protette ai termini delle disposizioni del titolo 1 di questa legge”.

[11] Come abbiamo detto, l’operatività di tale registro, la cui attività era iniziata il l settembre del 1991, è stata per il momento sospesa dall’assemblea dei paesi aderenti al trattato.

[12] COZZI, “Diritto d’autore”, 1983, 2: “in effetti, il valore artistico e commerciale dell’opera e la campagna promozionale e distributiva della stessa sono due aspetti complementari, ed entrambi determinanti per il successo commerciale del film.

[13] v. CAPITANI, “IL FILM NEL DIRITTO D’AUTORE” 1943, p. 184; GIANNINI, “il contratto di noleggio di un opera cinematografica”, in riv. Dir. Comm., 1952, p. 475.

[14] Questo riguarda la presentazione al pubblico di un opera in una sua realizzazione interpretativa non incorporata in un supporto preesistente; questo contratto concerne di nonna opere originariamente espresse in fonna scritta, poi ricreate nell’azione scenica. Nella proiezione di un opera cinematografica, invece, manca il tramite dell’interpretazione, dato che è già di per sé rappresentata ed interpretata nel momento in cui viene girata e prodotta.

[15] GIANNINI, “Il contratto di noleggio dell’opera cinematografica”, 1952, I, p. 475; CAPITANI, op. cit., 1943, 184; Trib. Padova 26.6.51, in RFI, 1952; alla base di tale orientamento le analogie rilevate tra tali contratti (come la temporaneità del trasferimento della pellicola su cui è stampata l’opera cinematografica, e la possibilità d’un autonomo godimento da parte del produttore), nonché l’interesse ad applicare la disciplina dei contratti di noleggio (con l’obbligo del locatore di consegnare al conduttore le cose noleggiate in buono stato, o l’obbligo di gestire il bene locato secondo la destinazione economica della cosa e nell’interesse della produzione).

[16] Ciò che si obietta a tale tesi è che usualmente il produttore non consegna al distributore l’originale della pellicola, ma gli concede solo il diritto di trame delle copie, che non vengono restituite al produttore bensì impiegate fino al loro deterioramento (dopo un dato numero di proiezioni consecutive), o alla loro distruzione (di nonna, al termine del contratto con il produttore).v. CORAPI, 1957, 93; sulla natura giuridica del contratto di distribuzione, Giannini, “Opera cinematografica e contratti cinematografici”, in Riv. dir. civ, 1958, 1, p. 439; Bille, “Sulla natura giuridica del contratto tra produttore e noleggiatore di film”, in Rass. dir. Cinem., teatro e radiotel., 1956, p. 105; Mangini, “Il contratto di distribuzione cinematografica”, in Giur. it., 1959, 1, 2, 861; Fragola, “La cinematografia nella giurisprudenza”, Padova, 1966, p. 128; Micciché, “Contratto di distribuzione”, in Dir. aut., 1993, 441.

[17] v. Cass., 16 Aprile 1958, n. 1232, in Rass. dir. Cinem., 1958, 89 (che ha confermato App. Firenze, 1 Agosto 1956, ivi, 1956, p. 133); Pret. Roma, 3 Marzo 1971, in Giur. di merito, 1971, I, che ritiene si tratti di un contratto atipico che mutua elementi distinti dal contratto di mandato, anche nell’interesse del mandatario, e dal contratto di agenzia. V. anche Cass. 12 Febbraio 1973, n. 406 (in Dir. aut., 1973, p. 177) ritiene invece assimilabile il contratto di distribuzione al contratto di agenzia.

[18] v. Corte d’appello di Roma, 9.12.59, DA, 1959; ved. Anche Montanari­ – Ricciotti, 1953, 142.

[19] Trib. Roma, 21.6.54, RDCI, 1955, 59.

[20] ved. Cass.12.2.73, DA, 1973, 177.

[21] Così MICCICHè, “IN TEMA DI CONTRATTO DI DISTRIBUZIONE CINEMATOGRAFICA”, in dir. aut, 1993, 441. Dello stesso avviso Menozzi, per il quale il contratto di mandato è lo schema più utilizzato in Italia per la distribuzione; inoltre, al di là di alcune decisioni contrastanti (dettate dalle diverse forme che tali contratti possono assumere nella pratica), l’orientamento giurisprudenziale più accreditato si ricollega anch’esso al mandato senza rappresentanza (tra questi Cass. 16.4.58, RDCI, 1958, 89; Pret. Roma 3.3.71, GM, 1971; App. Firenze, 1.8.56, RFI, 1958, “cinematografia”; infine App. Roma del 9.12.58, RDCI, 1959, 164, in cui si afferma: “non si disconosce che il contratto di distribuzione, come si presenta nella pratica, si giova di vari contratti tipici, quali la locazione d’opera, l’appalto, il lavoro autonomo, l’agenzia, il mandato, e persino l’associazione in partecipazione, ma le più strette affinità appaiono con i contratti di agenzia e di mandato, per le caratteristiche, all’uno ed all’altro appartenenti, di promuovere la conclusione dei contratti o addirittura di concluderli, ma confluenti nell’oggetto comune ad entrambi di compimento di atti giuridici(…)il cosiddetto contratto di distribuzione costituisce un caso particolare di locatio operis con elementi misti del contratto di agenzia e di mandato avente per causa obiettiva l’utilizzazione economica di quella frazione di diritto di autore spettante al locatore ed insieme al mandante proponente”).

[22] In forza di ciò, rileva Menozzi (op. cit.), “poiché il contratto di distribuzione può essere con figurato dalle parti in diversa maniera, tutti gli schemi suddetti sono ammissibili, ma devono essere intesi come riferiti a particolari contratti di distribuzione, e non come identificazione di un modello unico ed esclusivo di questo contratto”.

[23] In questo caso il produttore s’impegna a restituirle, entro un certo termine, indipendentemente dal fatto che i proventi del film siano o meno sufficienti a coprire l’ammontare anticipato dal distributore (ciò a portato alcuni autori Miccichè, “In tema di contratto di distribuzione”, in DA, 1993, 441 a ritenere che il contratto non sarebbe un mandato, quanto un “negozio atipico misto” con elementi del mandato e del mutuo).

[24] In tal caso le somme erogate dal distributore costituiscono la garanzia di un ammontare minimo di incassi derivanti dalla distribuzione, senza che vi sia una controgaranzia del produttore.

[25] In realtà, anche in presenza del minimo garantito, l’autore ritiene però che restino prevalenti gli elementi del mandato (anche se con l’inserimento d’un elemento atipico nel contratto).

[26] Miccichè, op. cit.; Mangini, “il contratto di distribuzione cinematografica”, in giur. it., nota a Trib. Mil. 5.2.59.

[27] In GI, 1959, 1, 2, 862.

[28] “per quel che ha tratto poi alla garanzia assunta dalla s.r.l. Cristallo film, accompagnata dal rilascio di vaglia cambiari(clausola di minimo garantito), va osservato che la pattuizione in questione non è contraria ai fini contrattuali propri del mandato, tenendo semplicemente la stessa ad assicurare al mandante la conclusione di un minimo di affari ed a nulla rilevando, per quel che qui interessa, che il rilascio di cambiali avesse altresì lo scopo, della cui natura nell’economia contrattuale si è già detto, di consentire al mandante, attraverso lo sconto, di ottenere parte dei mezzi finanziari necessari per ultimare il film, in previsione dei futuri utili ricavabili dal suo sfruttamento attraverso l’opera indispensabile dei mandatari-noleggiatori. È in ogni modo indubitabile, quand’anche non si volessero condividere le precedenti considerazioni, che ambedue le clausole esaminate incidono in modo assolutamente secondario sugli elementi del contratto ed, in particolare. sulla sua causa, di guisa che resta fermo che il contratto intercorso fra il Cancellieri e la s.r.l. Cristallo film è un vero e proprio contratto di mandato”.

[29] Un nuovo canale di distribuzione delle videocassette si è infine delineato con la vendita a società editoriali, che le rivendono poi in abbinamento a quotidiani e periodici. va segnalato come una parte della giurisprudenza abbia riscontrato in questa nuova forma di distribuzione un ipotesi di concorrenza sleale a danno delle imprese che vendono o noleggiano videocassette: così si esprime, in proposito, il Trib. di Milano il 5.8.96 (in DA, 1996, p. 430); “appare indubbio che la pure lecita attività intrapresa consente alla resistente di porre sul mercato un prodotto -la videocassetta- gravato da una aliquota di IVA ben minore (4% di contro a 116%)di quella che grava sull’omogeneo prodotto posto in vendita attraverso i canali di videodistributori. Tutto ciò si risolve certamente nella possibilità di porre in vendita il prodotto a diverse e migliori condizioni di mercato. (…) Di qui i profili di danno per le altre imprese che operano sul mercato attraverso i canali della videodistribuzione attraverso normali punti vendita le quali si vedono di certo sottratta una fetta del mercato alla quale non è detto che non potrebbero aspirare, ma che non riescono a gestire per quanto sopra detto”.

[30] A Berlino, il 16 Novembre 1908; a Roma, il 2 Giugno 1928; a Bruxelles, il 25 Giugno 1948; a Stoccolma il 14 Luglio 1967 ed infine a Parigi, il 24 Luglio 1971; l’Italia ha via via ratificato tutti gli atti di revisione; da ultimo la L. 399/1978 ha autorizzato la ratifica dell’atto di Parigi, avvenuta nel 1979. Va sottolineato come nessuno degli attuali paesi.

[31] Alla quale era subordinata, dato che la cinematografia era vista come un “insieme di fotografie in movimento”.

[32] v. M. Ferrara Santamaria, sulla necessità di una disciplina specifica delle opere cinematografiche; “Norme di legge e prassi contrattuale basilare internazionale per le opere cinematografiche”, in Dir. Aut., l979, p. 436: l’autore auspica una sistemazione specifica dell’opera cinematografica, in considerazione della sua diversità ontologica e strutturale rispetto alle altre opere protette dalla Convenzione di Berna, augurandosi che “le opere cinematografiche come espressione di un linguaggio autonomo di un arte nuova, e come organizzazione industriale internazionale per la loro produzione e diffusione hanno bisogno di una convenzione nuova a vocazione mondiale…”

[33] Il fatto costitutivo dei diritti riconosciuti agli autori è quindi individuato nella sola creazione dell’opera dell’ingegno.

[34] Questa disposizione tiene conto della peculiarità propria delle opere cinematografiche, ossia della diversificazione dei titolari dei diritti su di esse derivante dalla sua natura complessa, di opera trotto dell’impegno creativo di più soggetti ma anche dell’organizzazione industriale – commerciale facente capo al produttore.

[35] Secondo alcuni autori si tratterebbe di un criterio incongruo per individuare i titolari di tali diritti; su tutti M. Ferrara Santamaria, in “Norme di legge e prassi contrattuale internazionale per le opere cinematografiche”, p. 450, secondo il quale “l’incongruità di un tale criterio balza evidente se si consideri l’ipotesi di un opera cinematografica inglese ( perciò prodotta in Inghilterra) se la protezione del diritto d’autore fosse richiesta in Francia. Il Produttore è il titolare del Copyright sull’opera secondo le leggi del suo paese, ma non lo è secondo la legge francese”.

[36] Basandosi su tali differenze, si pone un problema nel caso di trasferimento di diritti d’autore da un paese ad un altro, per stabilire quale sia la legge applicabile in relazione all’autore dell’opera: secondo alcuni autori occorre fare riferimento alla legge del paese d’origine dell’opera, mentre per altri è necessario riferirsi alla legge del paese ove la protezione è invocata(sulle diverse opinioni in materia, Geller, “Internatinal Copyright”, p. 112 – 113.

[37] L’esercizio di tali diritti da parte degli autori può ovviamente implicare delle difficoltà non indifferenti sia riguardo alla fase della produzione del film che riguardo all’adeguato sfruttamento economico di tali opere. Va evidenziato come gli USA, aderendo a Berna, ottennero di non cambiare la propria legge sul diritto d’autore, che com’è noto non prevede la tutela di diritti morali d’autore (sostenendo che questa tutela fosse già garantita da altre norme interne). Attualmente l’Italia riconosce e protegge i diritti morali d’autore: infatti con il DPR n. 19 /1979, l’ordinamento italiano ha sostituito l’art.20 c. 1 della L.D.A., con la traduzione pressoché letterale dell’art. 6 bis della convenzione. Da segnalare come, con il DPR n. 19/1979, l’ordinamento italiano adeguò la durata della protezione delle opere cinematografiche, originariamente fissato in 30 anni, al precetto convenzionale. L’estensione di tale termine legale di protezione pose il problema di valutare l’applicabilità del nuovo termine alle opere preesistenti già cadute in pubblico dominio (per scadenza del termine trentennale previgente): la giurisprudenza dominante apparse di parere favorevole ad una tale ipotesi, e su tale posizione si allineò poi la dottrina, sulla base del principio della reviviscenza dei diritti di autore (in tal senso C. App. Roma 25.10.95 e 22.10.86; Trib. Roma 29.5.95 e 17.2.95; Trib. Cassino 2.3.87; in senso contrario all’applicabilità retroattiva di tale termine, Pret. Milano ordin. 22.10.90, il Diritto d’Autore 1990, 100, ed in Dottrina Auteri, commento al DPR 19/79, in Nuove leggi civili commentate 1980, 167.

[38] Sulla struttura, gli scopi, le attribuzioni dell’OMPI v. de Sanctis, “La conferenza diplomatica di Stoccolma”, in Dir. Aut., 1967, pp. 373 ss.

[39] Il “WIPO”, “world forum on the protection of intellectual creations in the information society.”

[40] Riguardo all’esigenza di un armonizzazione delle regole sul diritto d’autore, Geller osservato come “In a world in witch copyright law is not fully harmonised, not to mention standardised, the choice of law will become a critical issue in every international copyright case, and the determination of the results will have nothing to do with the treaties, but rather everything to do with the giudici al discretion exercised at the level of choice of law analysis” (“Atti del forum”, p. 142 ).

[41] Geller, “Conflicts of Law and Internet” in “Essays in Honour of Cohen Jehoram”.

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