Contrarietà alle norme imperative
- Contratto genericamente contrario a norma imperativa.
In via preliminare possiamo dire che il contratto stipulato in contrasto con una norma imperativa è invalido. In tal caso però la nullità può essere di due specie. Infatti il contratto che contrasta con norme imperative può essere: nullo, o, solo, annullabile.
Abbiamo detto quindi che il contratto concluso in contrasto con la norma imperativa è invalido come dimostro dall’art. 1343 c.c. secondo cui la causa è illecita quando è contraria a norme imperative.
Queste ultime, argomentate nell’art. 1343 c.c., sono le norme che proibiscono direttamente e specificatamente ciò che il contratto vuole realizzare, in nome di interessi pubblici o generali prevalenti, che il contratto metterebbe a rischio. Non tutte le norme che regolano la deduzione in contratto di beni o comportamenti sono imperative.
Norma imperativa è quella che proibisce determinati comportamenti o risultati, perché ritenuti dannosi o pericolosi per l’interesse generale.
La qualifica di imperatività può ricavarsi da riferimenti testuali come nel caso in cui la norma stessa si autodefinisce inderogabile, o dispone la nullità del contratto che la violi.
Può, però, ricavarsi anche da dati extra testuali, ovvero da un giudizio di rilevanza sociale degli interessi che la norma stessa protegge.
Un tale giudizio può, a sua volta, dedursi dalla gravità della sanzione con cui la norma presidia gli interessi tutelati: da questo punto di vista si considerano tendenzialmente imperative tutte le norme penali.
Parte della dottrina, comunque, suggerisce di distinguere fra contratto propriamente illecito e contratto semplicemente illegale, a seconda del modo in cui il contratto contrasta con la norma imperativa.
Contrapponendo l’art. 1418 c.c., 1° comma, all’art. 1418 c.c., 2° comma, nel momento in cui fa riferimento all’illiceità della causa o dell’oggetto, si afferma la distinzione tra contratto illecito e contratto illegale.
Il contratto è illecito, quando il contrasto con la norma imperativa investe la causa o l’oggetto o il motivo comune o la condizione. È semplicemente illegale quando viola la norma imperativa sotto profili diversi da quelli richiamati.
L’identificazione dei contratti illegali, nulli per contrasto con norme imperative, passa attraverso due livelli di giudizio.
Il primo livello riguarda la natura della norma violata dal contratto: si tratta di valutare se sia imperativa, quindi inderogabile, ovvero dispositiva e dunque derogabile. In quest’ultimo caso non c’è nullità.
Difatti la clausola che esclude la garanzia per i vizi nella vendita è contraria all’art. 1490 c.c., 1° comma; ma dato che questa norma non è imperativa, dato che attribuisce al compratore un diritto disponibile, la clausola non è nulla.
Un problema di nullità si pone solo quando la norma è imperativa, vale a dire se definisce posizioni o tutela interessi non disponibili dai privati.
Anche in questo caso, comunque, la nullità non è automatica e/o inevitabile. In alcuni casi, in effetti, il contratto contrario a norma imperativa è nullo, mentre in altri casi non lo è.
Quanto al secondo livello di giudizio lo stesso si affida a due ulteriori criteri, suscettibili di escludere la nullità.
Quest’ultima può escludersi in base ad un criterio testuale al quale fa riferimento lo stesso art. 1418 c.c., 1° comma, che, enunciata la regola del contratto contrario a norma imperativa, fa salva l’ipotesi “che la legge disponga diversamente”.
La nullità, inoltre, può escludersi anche in base a criteri extratestuali, legati alla ratio della norma imperativa violata, e più precisamente al modo in cui il contratto incide sugli interessi protetti dalla norma.
Per questa ragione, nell’ambito dei contratti illegali si distingue tra contratti invalidi, e quindi nulli, e contratti solo irregolari. Distinzione questa praticamente più importante di quella fra contratti illeciti e contratti illegali.
Il contratto illegale è nullo quando i suoi effetti andrebbero a ledere direttamente gli interessi protetti dalla norma, la quale ha come scopo precipuo quello di impedire, appunto, quegli effetti.
Ciò comporta che per attuare lo scopo della norma occorre cancellare gli effetti contrattuali, effetto questo che si ottiene infatti con la nullità[1].
Il contratto, invece, è semplicemente irregolare, e non nullo, quando viola si la norma, e tuttavia non sono propriamente i suoi effetti a ledere l’interesse protetto da questa; onde l’annientamento degli effetti contrattuali sarebbe rimedio eccedente rispetto all’esigenza di ripristinare l’interesse leso, cui provvedono meglio altri rimedi.
Questo può essere il caso del contratto che viola o elude norme fiscali: esso è civilisticamente valido, ancorché fiscalmente irregolare; viene colpito non con la cancellazione degli effetti, ma con sanzioni fiscali o perdite di benefici fiscali.
Inoltre la legge può prevedere, per la violazione di norme imperative, conseguenze diverse dalla invalidità.
La materia risulta regolamentata dall’art. 1418 c.c. in base al quale “Il contratto è nullo quando è contrario a norme imperative, salvo che la legge disponga diversamente”.
Tra le due forme di invalidità, la nullità è quella di portata generale posto che la nullità è considerata conseguenza prevista dall’ordinamento dovuta ad un vizio particolarmente grave che investe un negozio giuridico. Vizio che può consistere nel difetto di un elemento essenziale, o nella illiceità del negozio, della causa o dei motivi o ancora nella mancanza dei requisiti richiesti dall’oggetto. Inoltre per considerare nullo un contratto non è necessario che la legge preveda la nullità come conseguenza della violazione di una determinata norma imperativa, ma è sufficiente che una norma imperativa sia stata violata[2]. L’annullabilità, dall’altra parte, ha, invece, carattere speciale: difatti si parla di annullabilità del contratto quando la stessa sia espressamente prevista dalla legge come conseguenza della violazione di una norma imperativa.
Appare utile, dunque, riportare una breve classificazione delle norme ed i relativi casi di nullità e/o annullabilità.
Innanzitutto abbiano detto che il contratto risulta essere nullo nel momento in cui contrasti con una norma imperativa salvo che la legge disponga diversamente. Le ipotesi nelle quali la legge dispone diversamente possono essere quelle in cui sia prevista la forma di invalidità diversa dalla nullità che corrisponde all’annullabilità del contratto. Per i contratti tali ipotesi possono essere, in generale, l’incapacità di contrarre delle parti; i vizi del consenso; il conflitto di interessi tra rappresentato e rappresentante. Inoltre possono essere previste altre specifiche cause di annullabilità relative a singoli contratti come nel caso del contratto di assicurazione o del contratto di lavoro.
A ben vedere, quindi, la contrarietà di un atto ad una qualsiasi norma imperativa ne determina automaticamente la nullità.
Stabilendo, pertanto, la nullità degli atti contrari a norme imperative come criterio generale, il legislatore ha voluto imporre questa sanzione anche nel caso in cui la nullità non sia espressamente prevista dalla legge. Ovviamente bisognerà sempre verificare che la norma violata sia poi effettivamente una norma imperativa.
Sono previste peraltro ipotesi nelle quali la legge tende a garantire l’effettività della norma imperativa prevedendo rimedi diversi dall’invalidità del contratto, come la sua inefficacia[3] o come la sottoposizione delle parti ad una sanzione amministrativa[4].
Tanto premesso, occorre chiarire il concetto di norma imperativa. Espressione questa con la quale si usa solitamente classificare quelle norme non derogabili per volontà delle parti. E la loro identificazione è facilitata dalla circostanza che le stesse non presentano l’inciso “salvo patto contrario” o “salva diversa volontà delle parti”.
Ma le norme imperative non rappresentano il solo tipo di norme esistenti. Abbiamo infatti le norme dispositive caratterizzate dal fatto che ammettono una diversa volontà delle parti in quanto anticipate da formule come quelle in precedenza richiamate; o ancora le norme suppletive che prevedono la disciplina di un dato rapporto per l’ipotesi in cui non vi abbiano provveduto gli interessati, e che in genere risultano essere anticipate da formule del tipo “se le parti non dispongono diversamente” o simili.
Quanto detto ha una valenza comunque relativa in quanto una norma può essere considerata dispositiva, e non imperativa, anche in mancanza di una formula che tradisca la sua natura, se dal sistema di norme nel quale risulta inserito risulta chiaro che si tratta di una norma derogabile.
A volte la legge per rendere certo che una determinata norma abbia natura di norma imperativa, predispone le conseguenze della sua violazione e redige formule come a “pena di nullità” o avvertimenti del tipo “altrimenti il contratto è nullo” e simili.
A rendere nullo il contratto non è solo la violazione di norme imperative nazionali ma sono altrettanto fonti di nullità del contratto tutte le violazioni di norme imperative di rango comunitario.
A rafforzare tale posizione sta il fatto che il giudice nazionale può dichiarare la nullità di un contratto per violazione di norme imperative straniere , quando secondo le preleggi egli debba applicare il diritto straniero. Non si verificano, invece, ipotesi di nullità del contratto nel caso in cui la violazione riguardi norme imperative regionali, essendo l‘ordinamento civile materia di competenza esclusiva dello Stato come disposto dall’art. 117 Cost..
Dunque come conseguenza della violazione di una norma di legge emanata nell’ambito della competenza delle Regioni non avremo mai la nullità del contratto che appartiene al diritto civile. Ma ne deriveranno solo sanzioni amministrative.
Concluso questo breve excursus sulla classificazione delle norme giuridiche va chiarito che il concetto di norma imperativa rilevante ai fini dell’art. 1418 c.c. è molto più rigoroso di quello appena delineato[5]. Infatti, il grado di imperatività della norma violata che si richiede ai fini della nullità del contratto è più elevato di quello che si esprime nella contestazione della non derogabilità per volontà delle parti.
Questo più elevato grado di imperatività è postulato dallo stesso art. 1418 c.c.: infatti, se la violazione di una norma imperativa non comporta nullità nel caso in cui la “legge dispone diversamente” e se tale diversa disposizione legislativa non deve necessariamente consistere nell’esclusione espressa della nullità, in quanto può essere desumibile dalla ragione del divieto, occorre identificare criteri idonei a distinguere norma imperativa da norma imperativa.
I citati criteri sono ormai consolidati in giurisprudenza: deve infatti trattarsi di un comando o di un divieto qualificabile come assoluto, in quanto posto a tutela di un interesse generale.
In particolare comando o divieto assoluto è quello che non solo non ammette una diversa volontà delle parti, ma neanche un’eccezione o un esonero previsti dalla stessa legge[6]; ancora comando o divieto posto a tutela dell’interesse generale è quello formulato dalla legge o da fonti a questa equiparate, non da fonti normative di grado inferiore.
Possono essere considerate imperative, in linea di massima, le norme penali: l’essere un fatto penalmente sanzionato è indice, infatti, del più alto grado di imperatività visto che il precetto risulta essere posto a salvaguardia di un valore di rilevante importanza[7]. Tuttavia quanto detto non vale quando la sanzione penale sia posta a tutela non dello Stato-comunità, ma a protezione dell’efficiente azione dello Stato-persona.
Importante in merito l’art. 2098 c.c. il quale stabilisce che “il contratto di lavoro stipulato senza l’osservanza delle disposizioni concernenti la disciplina della domanda e dell’offerta di lavoro può essere annullato salva l’applicazione delle sanzioni penali”.
Allo stesso modo non si avrà nullità del contratto in caso di frode fiscale, anche se penalmente perseguita, e nel caso di contrarietà del contratto a norme tributarie.
Per restare in tema vediamo come la giurisprudenza non considera nullo, ma annullabile, il contratto estorto con la truffa. E ciò è giustificato sulla base dell’equiparazione della truffa, penalmente sanzionata, al dolo civilmente considerato come causa di annullamento del contratto[8].
Per un discorso più esaustivo non si può evitare di menzionare le nullità di cui al terzo comma dell’art. 1418 c.c. Le nullità in esso menzionato sono quelle che vanno sotto il nome di nullità testuali: nullità, cioè, espressamente previste dalla legge e del quale troviamo un uso smodato soprattutto nella legislazione speciale in materie quali ad esempio quella urbanistica.
- L’interpretazione kelseniana e la natura imperativa della norma giuridica.
Nell’affrontare l’interpretazione kelseniana sulla natura giuridica della norma imperativa è opportuno soffermarsi su alcuni concetti di primaria importanza per lo stesso Kelsen.
Importante, da subito, è evidenziare come l’autore veda nella teoria giuridica del riconoscimento una tipica forma di esemplificazione dell’errore di proiettare sul concetto di dovere giuridico la struttura del dovere morale.
La definizione del dovere inteso come “stato psichico di costrizione interna della volontà” ha valore per Kelsen solo in riferimento al dovere morale in conseguenza dell’esistenza solamente interiore e soggettiva dell’autonoma legge morale. Il riconoscimento alla legge morale di una tale autonomia comporta, di riflesso, l’esaurimento dell’obbligazione morale stessa nell’interiorità del soggetto. Il che conduce a considerare la norma morale ed il dovere morale come due metà indistinte di un unico insieme. Lo stesso Kelsen, infatti, dice che entrambe le denominazioni riguardano la medesima cosa, ma che nella pratica con dovere si vuole esprimere la relazione col singolo soggetto mentre con norma si fa riferimento al postulato della generale validità.
Nell’ottica kelseniana, dunque, norma e dovere sono solo due nomi diversi utilizzati per descrivere lo stato di costrizione interna caratterizzato da una direzione morale della volontà. La norma morale, intesa come voce della coscienza, va attribuita la struttura della norma giuridica che conduce nella legge un’esistenza del tutto oggettiva ed indipendente dall’interiorità dei soggetti da obbligare[9].
In pratica Kelsen persegue l’obiettivo di dimostrare come anche il dovere giuridico debba essere compreso sulla base di criteri oggettivi che esulino dalla sfera emotiva del soggetto.
Analizzando il percorso dell’obbligazione morale[10] appare immediatamente chiara l’impossibilità di ripercorrere tale percorso per il dovere giuridico. Infatti, la norma morale, di per sé autonoma, si presenta come nudo imperativo di fronte alla coscienza dell’individuo. Ma perché vi sia obbligazione morale sono necessari ulteriori due atti psichici.
Innanzitutto l’individuo deve prendere coscienza della norma, deve quindi esserne a conoscenza. Non essendo però tale conoscenza sufficiente a far insorgere nella volontà quel senso di costrizione avvertito come dovere, l’individuo dove compiere un’ulteriore atto: deve far propria la norma morale e sottoporvisi. Ed è proprio in quest’ultimo passo che consiste il riconoscimento, quale momento essenziale e decisivo per il nascere del sentimento del dovere.
Nel campo del diritto assistiamo ad un processo radicalmente opposto. Non si parte infatti da un sentimento individuale ed interiore per finire poi nel riconoscimento di un dovere esteriore. Qui la norma giuridica nasce da un potere legislativo, per sua natura esteriore all’individuo, e non da impulsi individuali. Il percorso qui comprende prima il potere dello Stato e poi la coscienza normativa dell’individuo[11].
La non conoscenza della norma giuridica non esclude l’obbligo giuridico mentre la non-conoscenza della norma morale rende vano l’obbligo morale.
Dunque nel campo del diritto si rompe quello stretto legame tra conoscenza e riconoscimento in quanto anche se un’azione sia contraria al diritto non è detto che questa sia disapprovata. Può infatti aversi il caso di una norma giuridicamente illecita ma che goda di un’elevata considerazione morale.
Se quindi non esiste una norma morale al di fuori della coscienza della norma morale, allora il sentimento di coazione psichica che il soggetto prova verso l’osservanza del precetto è da individuare nell’essenza della norma morale stessa. Kelsen dunque imprigiona la norma morale in un sistema circolare costituito da norma-dovere-osservanza
Al contrario l’indipendenza della norma giuridica dalla coscienza della norma giuridica è confermata dalla mediatezza della costrizione da parte della norma giuridica: quest’ultima infatti non essendo un avvenimento psichico non determina direttamente la costrizione, ma, questa, risulta mediata dal timore della conseguenza dell’illecito.
Ed è qui che si inserisce la critica alla concezione imperativistica della norma giuridica. In quanto l’imperativo non è forma logica modellata sulla norma giuridica perché riguardo al soggetto contiene solo una possibilità di ottemperanza e non di applicazione.
La coscienza normativa dell’individuo appare quindi come un giudizio presunto che contiene la volontà dello Stato di imporre un danno a chi pone in essere una determinata fattispecie[12].
L’inadeguatezza della forma imperativa per la norma giuridica appare evidente poiché l’imperativo stesso della norma giuridica è intrinsecamente debole, posto che non è di per sé capace a creare quello stato di costrizione interiore della volontà che l’imperativo autonomo della norma morale facilmente è in grado di raggiungere, anche perché proviene dallo stesso soggetto al quale è indirizzato.
Kelsen individua nelle teorie imperativistiche l’azione di uno schema comune: la norma giuridica possiede la capacità di creare un obbligo giuridico solo se l’obbligazione giuridica diviene un auto-obbligazione dell’individuo per il tramite di un atto attraverso il quale “la volontà dello Stato contenuta nell’imperativo diviene volontà del soggetto”.
Ed il riconoscimento della norma giuridica altro non è che questo atto di sottomissione. Diviene evidente, dunque, l’errore: il ruolo centrale assunto dal riconoscimento nella costruzione del dovere giuridico secondo la teoria imperativistica non fa altro che ripetere in maniera meccanica la centralità assunta dal riconoscimento nella costruzione del dovere morale.
In questo modo Kelsen dimostra come nell’odierna giurisprudenza la teoria imperativistica trova il suo necessario completamento nella teoria del riconoscimento.
Kelsen promuove questo suo convincimento e finisce col criticare quanto afferma Bierling. Infatti secondo Kelsen, Bierling nelle sue opere arriva ad affermare che norma morale e norma giuridica sono identiche. Tale equivalenza risulta essere inammissibile nell’ottica kelseniana perché l’imperativo è solo una delle molteplici forme nelle quali la norma può presentarsi[13].
Per Kelsen l’imperativo è una forma linguistica, verbale coniugabile in un determinato modo e rappresentante “l’immediata espressione di una volontà rivolta al comportamento altrui”[14].
Ciò che meglio caratterizza l’imperativo è l’immediatezza, immediatezza che si riflette anche nella brevità delle forme verbali imperative, eguagliabili per questo a qualsiasi altro tipo di espressione immediata di un sentimento e diversi solo per la capacità di esprimere con parole i segni muti coi quali si esprimono generalmente dei comandi.
Per Kelsen. Bierling commetterebbe due errori: in primo luogo Bierling commetterebbe l’errore di non riconoscere la natura grammaticale dell’imperativo e le sue implicazioni logiche e psicologiche, ed in secondo luogo sbaglierebbe ulteriormente nel momento in cui definisce la norma come imperativo, attribuendogli in realtà una definizione in chiave di giudizio[15].
Questo secondo errore matura dalla mancata differenziazione tra il livello della natura della norma ed il livello della formulazione linguistica della norma.
In pratica per Kelsen la norma-giudizio può essere espressa linguisticamente tanto nella forma grammaticale tipica dell’imperativo quanto nella forma sintattica propria del giudizio; per Bierling, invece, la norma-imperativo può essere formulata linguisticamente solo attraverso un imperativo.
Una simile conclusione estende però il concetto di imperativo oltre quelli che sono i suoi normali confini meramente grammaticali, collocandolo in tal modo in una situazione di evidente contrasto con la comune esperienza giuridica. Bierling suo malgrado deve, infatti, ammettere l’esistenza di norme che non possono essere formulate ricorrendo ad imperativi. Queste formulazioni giuridiche, d’altro canto, finirebbero col rimandare sempre ad “una formula introduttiva o conclusiva attraverso la quale il carattere imperativo viene impresso al contenuto in questione”[16].
Ma siffatte formule, secondo Kelsen, rappresentano unicamente una caratteristica della legge in senso formale non anche della legge in senso materiale alla quale compete solamente il carattere imperativo.
Per carattere imperativo si intende l’obbligatorietà materiale di un contenuto di legge e tale obbligatorietà materiale di un contenuto di legge, secondo Kelsen, risiede nella relazione che intercorre tra la volontà dello Stato e la sanzione come conseguenza dell’illecito piuttosto che nella forma imperativa o non imperativa della legge.
Una volta eliminata l’uguaglianza norma-imperativo nell’analisi dei molteplici livelli della sua manifestazione, viene in superficie quello che per Kelsen risulta essere l’errore cardinale compiuto dai teorici imperativisti, primo fra tutti ovviamente Bierling.
Gli imperativisti pensano di comprendere l’essenza concettuale della norma giuridica dal momento materiale dell’obiettivo sociale dell’ordinamento giuridico, tralasciando, ma sarebbe più opportuno dire, dimenticando come siffatto obiettivo sia condiviso tra molteplici norme e non-norme e non esclusivo delle norme giuridiche. Per ciò stesso non può indicare l’essenza esclusiva della coscienza giuridica dell’individuo (Rechtssatz).
Anzi, i teorici imperativisti arrivano, secondo Kelsen, ad oscurare l’essenza stessa del Rechtssatz, se non addirittura la sua specifica forma, attribuendo alla norma giuridica la stessa forma delle altre norme giuridiche, vale a dire l’imperativo.
A dire il vero, in merito, la posizione di Bierling è un po’ più complessa ed è chiarita attraverso i concetti di coazione e volontà libera. Al pari di Bierling anche Kelsen è d’accordo sul fatto che l’osservanza di una norma giuridica possa avvenire attraverso la coazione, intesa come effettiva realizzazione della pena o dell’esecuzione, dato che la coazione medesima dimostra qui l’avvenuta violazione della norma non l’impedimento dell’illecito.
In pratica , il rispetto della norma consistente nell’evitare l’illecito, può essere attribuito solo al comportamento personale del soggetto giuridicamente obbligato, mentre secondo la dottrina della vis absoluta, il comportamento deve essere imputato al soggetto che costringe e non può, dunque, essere attribuito al soggetto costretto.
La c.d. coazione assoluta non può, pertanto, essere fatta rientrare nella definizione della norma giuridica se non provocando un inversione della relazione tra condizione e conseguenza ed un ulteriore inversione nell’indicazione dei comportamenti dovuti.
Né può rientrare nella definizione dell’essenza della norma giuridica la coazione intesa come coazione psichica o effettivo esercizio della coazione psichica. Le norme giuridiche, infatti mantengono il loro specifico carattere anche nel caso in cui non esercitino una siffatta coazione.
Anzi, la natura giuridica delle norme si manifesta, proprio nel momento dell’illecito, o meglio a dire, nel momento in cui siffatte norme non hanno determinato alcun potere motivante sul soggetto.
Ciò che fa Kelsen non è negare che le norme giuridiche abbiano come obiettivo quello di perseguire uno scopo sociale nel momento in cui costituiscano una motivazione causale dei comportamenti dovuti e leciti. Ciò che Kelsen, invece, fa è negare che siffatto scopo sia un elemento essenziale del concetto formale del Rechtssatz[17].
Al giurista, infatti, ciò che interessa è solo quella determinata reazione all’illecito che presuppone un difetto dello scopo sociale, ma non per questo bisogna pensare che la norma giuridica sia priva di uno scopo sociale e che tale scopo sociale non possa essere raggiunto prefigurando le conseguenze dell’illecito attraverso la realizzazione di un sistema coattivo che operi nella psiche individuale basandosi sul generale rapporto di causa-effetto.
Risulta interessante notare le diversità esistenti tra le critiche fatte da Bierling e da Kelsen riguardo alla teoria della coazione psicologica, dal momento che il primo, avvalendosi del principio della volontà libera anteposta proprio alla teoria della coazione psicologica, giunge col disconoscere l’aspetto coattivo nell’ambito dei processi motivazionali discendenti dalle norme giuridiche, mentre per Kelsen un comportamento umano non può essere indotto da una norma giuridica ma è, invece, una “volontaria decisione personale”[18]. Ciò che Bierling non coglie è che nel campo meramente psicologico a regolare il comportamento umano e la conseguente volontà è la determinazione causale; in tal guisa il principio della volontà libera non può assolutamente risultare compatibile con qualsiasi logica e/o psicologia.
Nell’analisi di Kelsen, invece, il rifiuto della teoria della coazione è dettata più dalla separazione tra sociologia esplicativa e giurisprudenza normativa, che dalla dichiarazione bierlingiana di una insistente libertà.
Al riguardo non si è fatta certo attendere la risposta di Bierling consistente nel mantenimento della convinzione che il diritto ha certamente una natura imperativistica.
Lo stesso Bierling decide di non modificare le conclusioni in merito all’impossibilità di intendere le norme giuridiche come giudizi ipotetici[19]. Il problema è capire se, stando all’uso linguistico e alla logica, il giudizio sia una proposizione alla quale sia sempre possibile chiedersi se sia vero o meno, anche se un dubbio del genere può considerarsi privo di significato relativamente alle leggi e ai contratti giuridici. Infatti gli stessi possono indicarsi come asserzioni, quindi giudizi, sulla volontà sia del contraente che del legislatore, ma la loro vera natura si coglie solo nella particolare intimazione di osservare la volontà manifestata[20].
La distinzione tra imperativismo e comando giunge ad incrinare l’identità esistente per Bierling tra norma ed imperativo portando a credere le prima citate critiche kelseniane abbiano colto nel segno.
Se, infatti, con imperativo si intende una determinata forma di discorso, allora esiste una differenza concettuale rispetto a ciò che si indica col termine norma, la quale per Bierling rappresenta il contenuto e l’effetto riguardante i destinatari, e non contiene, invece, nessuna relazione con la forma.
In ogni caso Bierling non pensa affatto di dover modificare la propria opinione secondo cui tutte le norme hanno, dal punto di vista linguistico, la loro più pura espressione nella forma più ampia dell’imperativo e per questo possono benissimo essere indicate semplicemente come imperativi.
Si vede per l’ennesima volta come, celato dietro la forma imperativa, vi sia un significato imperativo che rivela l’autentica natura delle norme giuridiche.
In pratica la contraddizione tra imperativo e comando e la non chiara distinzione tra imperativo e norma, sono utilizzate da Bierling per giungere alla conclusione che le norme giuridiche sono tutte qualificabili come imperativi, ma non tutte come comandi.
In questo modo Bierling pensa di evitare un classico ostacolo posto sulla strada dell’imperativismo. La relazione imperativo/comando rinvia ad una posizione di autorità del normatore verso il destinatario, posizione che dal canto suo non trova un effettivo riscontro nei rapporti di diritto privato o in altre norme che stabiliscano autorizzazioni, permessi o annullamenti.
Conclusa la controversia sulla natura della norma giuridica, Bierling evidenzia i risvolti negativi della concezione di Kelsen della norma, intesa come giudizio ipotetico sugli altri concetti giuridici, dal momento che essa confonde il concetto di dovere giuridico e la conseguente figura del destinatario della suddetta norma giuridica.
Secondo l’articolato ragionamento di Bierling, quanto correttamente affermato da Kelsen riguardo al fatto che non vi è norma giuridica se non esiste un corrispondente dovere giuridico, viene reso vano dalla concezione della norma-giudizio, poiché essa valendo in sé e per sé, senza rivolgere il giudizio ad determinato soggetto, non permette di identificare un portatore del dovere.
Va precisato, però, che la norma-giudizio esprime un dovere essendo un’asserzione su un dovere già stabilito, vale a dire se esiste un rapporto di destinazione del dovere che precede il giudizio ed indipendente da esso.
In tale ottica il contenuto tipico della norma-giudizio kelseniana, vale a dire la volontà dello Stato di imporre precise azioni a determinate condizioni, rivela un destinatario nascosto, non coincidente con l’indifferenza di Kelsen verso il problema stesso del destinatario ne tanto meno con una sua predilezione per la concezione della teoria imperativa dei sudditi come destinatari delle norme.
A ben vedere, infatti, quel tipico contenuto sembra includere a prima vista nessun dovere per gli organi ne tanto meno per i sudditi, ma solo la volontà dello Stato. Volontà questa che, nel momento in cui fa riferimento al comportamento dello Stato stesso, determina immediatamente una corrispondente obbligazione per lo Stato, anche se sarebbe più giusto dire che comporta una corrispondente obbligazione solo per alcuni organi dello Stato.
Bierling, nell’ottica di un’identità tra volere e dovere dello Stato, considera la norma giuridica kelseniana al pari della regola vincolante per il comportamento degli organi statali dal quale risulta impossibile dedurre un dovere giuridico per i consociati.
Il problema, quindi, ora è quello di capire da dove proviene il dovere giuridico presupposto violato, posto che, in realtà, il diritto non è nient’altro che una volontà dello Stato che si riferisce unicamente al proprio comportamento. Bierling considera le vie tentate da Kelsen come strade impraticabili.
L’aver individuato uno scopo sociale nelle norme giuridiche non può determinare alcun recupero del comportamento dei consociati all’ordinamento giuridico, in quanto rimane un mistero come un comando considerato di natura sociologica possa dar luogo ad un dovere giuridico del consociato, pur mancando di un significato giuridico.
Altrettanto contraddittoria appare la costruzione kelseniana del concette di dovere giuridico soggettivo attraverso quello di ottemperanza, o a voler utilizzare le parole di Kelsen quello di Anwendung dove è a dir poco singolare che il dovere giuridico del consociato si traduca nel dovere il consociato patire specifici danni da parte dello Stato nel caso in cui egli compia determinate azioni.
In sostanza, al singolo viene imputato ciò che a lui deve essere fatto dallo Stato o da chiunque altro piuttosto che quello che egli stesso è chiamato a fare[21].
Per Bierling il voler destinare la norma giuridica kelseniana agli organi dello Stato si fonda su un ulteriore incomprensione relativa al concetto di volontà dello Stato a sua volta derivante dall’erronea distinzione tra una volontà psicologica ed una volontà giuridica.
Per Kelsen l’incontrollabilità oggettiva del dato psicologico, e dei fatti di esperienza in genere, determina l’inapplicabilità di ogni considerazione della volontà reale nella costruzione della efficacia degli istituti giuridici.
La volontà, infatti, acquisisce un significato giuridico attraverso la forma dell’imputazione normativa, e non per il tramite delle usuali forme negoziali e processuali della dichiarazione, della ricerca e della constatazione delle concrete volontà psicologiche.
Sia la particolare interpretazione kelseniana del ruolo della volontà degli istituti privatisti e penalisti, sia in particolar modo l’approccio mentale di Kelsen che appiattisce l’obbiettivo controllo degli avvenimenti esterni all’immediata percezione sensoriale sono aspramente criticati da Bierling.
Tale disposizione impedisce l’applicabilità di strumenti di verifica più accurati, tanto scientifici quanto logici, alla vita umana interiore, per mezzo dei quali si può giungere ad un controllo, non assoluto ma ponderatamente graduato, dei fatti di esperienza e psicologici.
Secondo Bierling, dunque, è questa la via da seguire per riportare la volontà psicologica a livello di oggetto di scienza e giurisprudenza, sostituendo l’impraticabile certezza kelseniana con la produzione di una verosimiglianza obbiettiva o il conseguimento di una certezza soggettiva, criteri questi esemplari per ricollegare il concetto giuridico a quello psicologico di volontà.
Sulla base di quanto detto si può osservare come Bierling possa, ora, condividere la costruzione kelseniana delle accezioni della persona statale come portatrice di una volontà psicologica sovra-individuale e di conseguenza la risoluzione della volontà dello Stato in volontà imputata allo Stato. In tal modo è cos’ possibile conservare, nello stesso tempo, l’analogia tra volontà statale e volontà psicologica individuale.
In quest’ottica assistiamo ad una sostanziale coincidenza della volontà dello Stato con la volontà psichica degli uomini che fungono da organi dello Stato, ai quali, poi, sono da ricollegare tutte le manifestazioni statali quali leggi, ordinanze e disposizioni.
Fermo restando che la volontà dello Stato condivide, secondo questo punto di vista, le stesse caratteristiche psicologiche della volontà umana, non ha più senso voler escludere quel rapporto intercorrente tra soggetto volente e altrui comportamento che la teoria kelseniana, invece, deve necessariamente eliminare dalla norma-giudizio a causa dell’impossibilità di determinare una comunicazione giuridica e non psicologica tra organi e consociati.
Altro punto sul quale Bierling e Kelsen sono in disaccordo attiene al rapporto tra coazione psichica e volontà libera, e questo per il ripetersi di una valutazione su un atteggiamento mentale che contraddistinguerebbe le pagine kelseniane, e non dovuto, invece, ad una particolare elaborazione concettuale.
La critica di Bierling consisterebbe nel fatto che Kelsen interpreterebbe il comportamento indotto da una norma alla stregua di un comportamento causato da una norma. Questo perché Kelsen, a dirla sempre secondo la concezione berlingiana, non riuscirebbe a concepire, accanto alla contrapposizione piena ed assoluta tra determinismo ed indetreminismo, “quell’indeterminismo solo relativo”, che permette di qualificare la volontà psichica come libera.
Con il termine indurre Bierling si riferisce sempre e solo ad una condizione che, soltanto unitamente ad altre determina l’effetto o la conseguenza cui mira ad arrivare colui che induce, ovvero la tutela di una considerazione dell’insieme di condizioni che suggeriscono l’esistenza di un comportamento individuale.
Kelsen, dal canto suo, respinge tale considerazione facendo riferimento alla logica e alla psicologia con appelli che appaiono poco pertinenti.
Dalle argomentazioni di Bierling sembra emergere la convinzione per cui Kelsen risulti incapace di superare l’artificioso e rigido sistema di classificazione logiche che appaiono riduttive rispetto alla complessità dell’agire umano.
- La violazione delle norme proibitive imperfette e delle norme proibitive perfette.
La validità, ed il suo contrario – l’invalidità – di un atto giuridico, così come di una norma, va verificata alla luce dell’ordinamento giuridico cui lo stessa appartenga.
In particolare, l’analisi delle conseguenze derivanti dalla violazione di una norma o di un atto giuridico, oggetto del presente lavoro, implica necessariamente la preliminare individuazione dei principi che consentono di distinguere una norma imperativa da una cogente.
In realtà, la dottrina[22] opera ulteriori distinzioni, parlando anche di norme dispositive, derogabili, indisponibili, suppletive.
Il fondamento teorico da cui prendono le mosse tali differenziazioni terminologico-concettuali viene colto nell’elaborazione dottrinaria del filosofo e giurista tedesco Savigny[23], il quale distingue tra ‘norme proibitive’ da una parte e ‘norme ordinative’ dall’altra.
Le une, poste a tutela di interessi generali e fondamentali, vietano in modo assoluto la realizzazione di un determinato comportamento o atto; le altre, impongono più semplicemente il rispetto, in positivo, di requisiti e condizioni, e in negativo, di limiti e vincoli nell’esercizio dell’autonomia contrattuale di ciascuno, dunque sono poste a protezione di interessi relativi.
Ne consegue che le ‘norme proibitive’ esprimono un divieto ed assumono perciò il carattere della imperatività; la loro violazione condiziona la validità dell’atto eventualmente posto in essere determinandosi la nullità dello stesso e, in ultima analisi, il suo disconoscimento come esistente.
Le ‘norme ordinative’ esprimono un comando e subordinano l’efficacia giuridica di un atto a determinati presupposti che, se derogati, conducono alla più moderata sanzione dell’inefficacia parziale accompagnata dall’intervento in funzione correttivo-integrativa predisposto dall’ordinamento[24].
Un comando, un divieto, un obbligo, una facoltà, quando sono contenuti o previsti in una norma giuridica, acquistano sempre ed indiscutibilmente carattere imperativo e precettivo.
Le norme imperative proibitive, a loro volta, possono essere distinte in ‘perfette’ ed ‘imperfette’, a seconda che contengano sia il precetto sia la specifica sanzione per la sua violazione, oppure solamente il precetto[25].
In relazione al contratto, la nostra disciplina codicistica (art. 1418, primo comma, c.c.) sancisce, con una sorta di norma di chiusura, che la violazione di una norma imperativa è sufficiente ad integrare di per sé la nullità del predisposto regolamento contrattuale: è la c.d. ‘nullità virtuale’, di cui già ci siamo occupati in apertura del capitolo, contrapposta alla c.d. ‘nullità testuale’, la quale ricorre, a differenza della prima, quando l’atto o il comportamento sia espressamente ed esplicitamente vietato e dunque la nullità, per aver ignorato il divieto, specificamente comminata[26].
Orbene, la nullità virtuale sarebbe la sanzione che si ricollega alla contrarietà ad una norma proibitiva imperfetta, laddove la nullità testuale si configurerebbe come conseguenza della violazione di una norma proibitiva perfetta.
Ratio della categoria delle nullità virtuali è quella di evitare che un regolamento contrattuale risultato non confacente ai principi generali che sorreggono il nostro ordinamento giuridico possa restare in vita solo perché manchi la previsione di una specifica sanzione.
Si tratta, a ben vedere, di una figura che, contemporaneamente, fissa una regola imprescindibile ed immanente da una parte, e dà origine ad una clausola di riserva finale dall’altra, destinata com’è ad intervenire qualora la legge non abbia disposto una diversa disciplina.
La distinzione delle norme proibitive in perfette ed imperfette è stata poi utilizzata da alcuni autori[27] per prospettare la tesi della sussistenza di un diverso grado di imperatività, modulato sul tipo di norma violata (civile, penale, o amministrativa), sul fondamento del singolo divieto espresso nel precetto, sull’oggetto diretto di tutela.
Con riferimento a quest’ultimo, in particolare, si è detto che la tutela di interessi generali e assoluti sarebbe apprestata da nullità testuali – ricollegate alla violazione di norme proibitive perfette, mentre la tutela dell’equilibrio sinallagmatico del contratto sarebbe offerta dalle meno dettagliate (meno dettagliate solo perché, ripetiamo, pur prevedendo un divieto, non individuano la specifica sanzione per il caso in cui si contravvenga al divieto stesso) nullità virtuali – ricollegate dunque a norme proibitive imperfette.
In realtà, anche a voler ammettere la possibilità di delineare una siffatta diversa intensità, a parere dello scrivente, essa appare una constatazione del tutto superflua. La violazione di una norma proibitiva imperfetta, seppur dia luogo inevitabilmente ad una indagine interpretativa volta a verificare che il legislatore non abbia previsto nel caso specifico una diversa regolamentazione[28] (questo è il senso dell’inciso “salvo che la legge disponga diversamente” presente nell’art. 1418, primo comma, c.c. dopo l’affermazione di principio secondo cui un contratto che sia contrario a norme imperative è nullo), impone d’altro canto l’assoggettamento ad un criterio residuale ed assoluto, valido a prescindere da qualunque caratterizzazione in termini di natura della norma violata ed interesse tutelato. Una tutela, dunque, senza dubbio ampia ed incisiva, non meno rigorosa di quella correlata all’inosservanza di norma proibitiva perfetta.
- Nullità virtuali e illiceità della causa o dell’oggetto per contrasto con norme imperative.
L’idea di fondo delle c.d. nullità virtuali è quella di un tipo di nullità che vengono comminate in maniera indiretta.
Il legislatore italiano del 1942, in merito alle nullità virtuali, ha deciso di utilizzare questo speciale tipo di provvedimento, comminando la nullità di ogni contratto che contrasti con norme imperative, salvo il caso in cui la legge disponga diversamente così come disposto dall’art. 1418 c.c. 1° comma. Lo stesso legislatore, però, ai successivi comma 2 e comma 3 dello stesso articolo sembra quasi voglia accantonare l’idea delle nullità virtuali, in quanto prefigura tutta una serie di cause di nullità tipiche, rinviando per gli altri casi non specificatamente elencati, con la formula “negli altri casi stabiliti dalla legge”.
Di fronte ad una tale situazione di incertezza sia la giurisprudenza che la dottrina hanno adottato atteggiamenti discordanti nei confronti delle nullità virtuali.
A dire il vero il testo del 1°comma dell’art. 1418 c.c., inteso in una chiave di lettura piuttosto elastica, permette di circoscrivere e di ridimensionare il problema delle c.d. nullità virtuali.
Infatti, il 1° comma del citato art 1418 c.c., non fa altro che affermare il principio per cui il contratto[29]è da considerare sempre nullo, quando questo violi una norma, della quale sia di tutta evidenza la natura imperativa, anche nel caso in cui la nullità non sia specificatamente prevista . In questo senso la nullità inespressa può anche definirsi virtuale. Ma se la legge dovesse disporre altrimenti, si dovranno applicare le diverse sanzioni da questa predisposte[30].
Tanto detto vuol semplicemente dire che il legislatore, anche di fronte a una norma imperativa, ha la possibilità di scegliere, in caso di violazione della stessa, soluzioni differenti da quella, naturale, della nullità[31].
In rapporto al tema delle c.d. nullità virtuali parte della giurisprudenza, tuttavia, si è posta il problema dell’applicazione della sanzione della nullità, in sostituzione dell’annullabilità, come del resto specificatamente previsto dal codice civile negli artt. 428 e 1439, in relazione ai delitti di circonvenzione di incapace e di truffa.
In tale ottica è stato, ad esempio, sostenuto, in una decisione della Corte di Appello di Roma del 1983, che la truffa di un contraente in danno dell’altro contraente è causa della nullità del negozio e non di semplice annullabilità, posto che il contratto di specie risulta essere contrario ad una norma imperativa.
D’altra parte, sempre in ottemperanza dell’art. 1418 c.c., e dunque, in osservanza dell’operare delle nullità virtuali, è stato sancito in una decisione della Suprema Corte, il principio in base al quale il contratto stipulato da un incapace naturale, in relazione al quale sia stata pronunciata condanna per il delitto di circonvenzione di incapace, risulta essere nullo perché contrario ad una norma imperativa, e non semplicemente annullabile.
Vero è che relativamente alla sentenza della Corte d’Appello di Roma si è poi successivamente espressa la Suprema Corte la quale ha ribadito il principio per cui il dolo civile, anche se penalmente sanzionato nella fattispecie di truffa, non è causa di nullità ma di annullabilità del contratto.
L’atteggiamento a dir poco incerto della giurisprudenza in materia di nullità virtuali è fonte di non poche riflessioni in merito.
Nell’adottare la nullità in luogo dell’annullabilità, in base a quanto disposto dagli artt. 428 e 1439, si applica una soluzione che appare del tutto incoerente tanto con le scelte operate dal legislatore del 1942 in tema di invalidità, quanto con lo stesso disposto dell’art. 1418 c.c., il quale, a sua volta, prevede da un lato, davanti alla violazione di una norma imperativa, l’adozione della sanzione della nullità anche nel caso in cui la stessa non sia espressamente prevista; dall’altro lato, prevede che, sempre davanti alla violazione di una norma imperativa, possa aversi una sanzione diversa da quella della nullità.
Il fatto è che nelle ipotesi richiamate dai citati artt. 428 e 1439 c.c. una sanzione esiste ed è quella dell’annullabilità. In altri termini, volendo ragionare secondo la logica della nullità virtuale, ci troveremmo in uno di quei casi in cui, di fronte alla violazione di una norma imperativa, la legge ha disposto diversamente.
Se è relativamente semplice escludere la nullità di cui all’art. 1418 c.c., 1° comma nelle ipotesi normative nelle quali si disponga espressamente una conseguenza diversa per violazione di una norma imperativa, ben più complesso si rivela il compito dell’interprete nell’individuarne le conseguenze, in assenza di una diversa ed esplicita previsione.
In dottrina si afferma che in casi del genere la nullità possa essere esclusa in base alla ratio della norma imperativa violata[32].
Non si può escludere però l’interrogativo relativo al tipo di indagine ed al criterio che deve essere utilizzato per ricavare dalla ratio della norma l’esclusione della nullità.
Al riguardo la giurisprudenza ritiene che nel caso in cui si sia in presenza di una norma proibitiva non formalmente perfetta è necessario verificare di volta in volta la natura della disposizione che si assume violata per dedurne in effetti la nullità o la semplice irregolarità dell’atto[33].
Sempre con riguardo alla violazione di una norma imperativa, un’altra decisione della Cassazione ha stabilito che è necessario accertare di volta in volta se e quando la trasgressione di determinati comandi o divieti acquisti rilevanza sull’economia dei rapporti privati[34].
In pratica il criterio ipotizzato dalla giurisprudenza è lo stesso solitamente utilizzato per distinguere la ratio della nullità rispetto a quella della annullabilità. Si è giunti in questo modo ad osservare che affinché possa operare l’articolo 1418 c.c., 1° comma, è necessario verificare se la norma imperativa sia stata dettata per motivi di ordine pubblico o invece sia stata posta a tutela dell’interesse pubblico, od ancora a protezione di un interesse di natura pubblica e generale.
La giurisprudenza attraverso le pronunce della Suprema Corte è arrivata a individuare indirettamente un criterio per verificare in concreto la natura stessa dell’interesse protetto dal disposto di un divieto. In sostanza deve trattarsi di un comando o di un divieto definibile come assoluto in quanto posto a tutela di un interesse generale ed in grado di essere imprescindibilmente osservato da tutti.
Il comando o divieto è solo quello che non ammette oltread una differente volontà delle parti, nemmeno un’eccezione o un esonero previsti dalla legge.
Bisogna specificare, comunque, che il comando o il divieto in questione, deve essere necessariamente formulato dalla legge o da fonti ad essa equiparabili, non essendo sufficienti comandi o divieti provenienti da fonti di grado inferiori.
- Considerazioni preliminari sulle tre figure di illiceità della causa: per contrasto con norme imperative, con l’ordine pubblico, con il buon costume.
Il codice civile, all’art. 1418, sancisce che il contratto è nullo quando è contrario a norme imperative o costituisce il mezzo per eludere delle norme imperative, quando manca uno dei requisiti prescritti dall’art. 1325 c.c. (che sono l’accordo delle parti, la causa, l’oggetto, la forma quando risulti prevista dalla legge sotto pena di nullità), quando la causa è illecita, e negli altri casi stabiliti dalla legge.
In particolare, la causa è illecita quando risulta contraria a norme imperative, all’ordine pubblico o al buon costume (art. 1343 c.c.).
La causa, requisito fondamentale del contratto, è uno dei concetti più spigolosi e controversi della teoria del diritto.
Essa è strettamente correlata alla tematica dell’autonomia negoziale intesa come libertà dei privati di dare ai propri interessi l’assetto giuridico che meglio si addice alle loro necessità e che il codice identifica con la libertà di costituire modificare ed estinguere rapporti giuridici (artt. 1321 e 1322 c.c.). Si è passati, a seguito di un intenso dibattito dottrinario e giurisprudenziale, da una concezione della causa come funzione economico-sociale del contratto ad una concezione in termini di funzione economico-individuale concreta[35].
Con specifico riferimento alla causa, dunque, il contratto è nullo per mancanza (difetto genetico) o illiceità (difetto funzionale) della stessa.
Vi è anche chi, sulla scia delle argomentazioni di cui ci siamo occupati precedentemente, ha tentato di operare una distinzione tra contratto ‘illecito’, che vìola una norma proibitiva perfetta (l’art. 1343 c.c.), e contratto ‘illegale’, che vìola invece una norma proibitiva imperfetta (art. 1418 c.c.)[36].
Quel che è indiscutibile è che occorre effettuare un giudizio di compatibilità tra il regolamento contrattuale realizzato dalle parti e l’ordinamento giuridico in cui esso si inserisce e che dunque l’illiceità della causa, nella sua tipica configurazione tripartita, implica un giudizio radicalmente negativo da parte dell’ordinamento (peraltro escludendosi, per il contratto che ne sia affetto, addirittura il generale rimedio della possibile conversione, a date condizioni, del negozio nullo)[37].
Le previsioni in materia di causa illecita sono poste a salvaguardia di valori considerati super-individuali, dei “principi giuridici ed etici” dell’ordinamento[38] e di quelle libertà fondamentali ed intoccabili che la legge non può che riconoscere e proteggere con forza[39].
A conferma di quanto fino ad ora sostenuto, sembra utile sottolineare che l’art. 1343 c.c. ha natura di norma assolutamente imperativa[40], ossia, per riprendere le già delineate distinzioni dogmatiche, di norma proibitiva perfetta. Occorre a questo punto chiarire cosa
- Panorama giurisprudenziali della più recenti pronunce dal 2004 al 2007.
Negli ultimi anni abbiamo assistito ad un ploriferare di pronunce, dettati e sentenze in merito alle c.d. nullità virtuali e questo non perché nullità del genere non esistessero in tempi più remoti ma una simile esplosione di casi giurisprudenziali al riguardo è stata agevolata dal clamore scaturito a seguito di clamorosi delitti commessi da imprese di primo ordine a livello nazionale ed internazionale.
Basta pensare, tanto per portare due tra gli esempi più recenti ma anche tra i più importanti, a quello che è stato il fallimento della Cirio Del Monte S.p.A.[41] seguito, poi, a distanza di breve tempo dal c.d. crack della Parmalat S.p.A.
Esempi clamorosi certo e di certo non isolati, tanto è vero che i tribunali oggi pullulano di giudizi vertenti sulle questioni relative alle nullità virtuali.
Tanto per rimanere in tema, appare untile analizzare alcuni casi pratici nei quali il tema delle nullità virtuali la fa un ò da padrone.
La giurisprudenza si è trovata a dover giudicare casi come quello sottoposto al Tribunale di Palermo[42], il quale ha dovuto regolare un caso di intermediazione finanziaria nei quali era richiesta l’annullabilità ai sensi dell’art. 1439 c.c. e l’onere della prova ai sensi dell’art. 2697 c.c.
Nella sentenza di specie il Tribunale di Palermo ha condannato la Banca di Palermo S.p.A. al risarcimento del danno nei confronti degli attori che avevano sottoscritto, presso la Banca in questione, un contratto di vendita di obbligazioni argentine 99/2005 dopo aver ricevuto dalla stessa Banca, per il tramite di un proprio impiegato, sufficienti garanzie sulla sicurezza e redditività della sottoscrizione stessa. Gli attori, inoltre, lamentavano la mancata consegna del prospetto informativo relativo ai rischi di generali dell’investimento sottoscritto e di essere venuti, solo in seguito, a conoscenza della crisi economica che stava imperversando in Argentina.
Realizzato che, non solo non avrebbero percepito gli interessi sul capitale investito, ma neanche recuperato il capitale stesso, gli attori accusavano il comportamento della Banca non solo sulla base di disposizioni di legge[43], ma anche sulla base di regolamenti[44] disciplinanti la materia dell’intermediazione finanziaria ed invocando pertanto l’inefficacia e l’invalidità del contratto concluso.
Andando nel particolare gli investitori contestavano alla Banca insolvente di non aver acquisito le necessarie informazioni sull’esperienza in materia finanziaria degli investitori, di non aver informato gli investitori stessi sia dei rischi generali sugli investimenti, che di quelli specifici relativi al titolo poi acquistato e
di non aver informato il risparmiatore della rapida ed incessante riduzione del valore dei titoli e dunque del patrimonio investito.
Pertanto i sottoscrittori sono giunti a richiedere che le operazioni di acquisto delle obbligazioni argentine ricevessero l’investitura di operazione non adeguata e che venisse accertata la nullità o l’annullabilità del contratto di vendita delle obbligazioni argentine stipulato dai sottoscrittori medesimi in virtù del combinato disposto degli artt. 1418 c.c., 1° comma e 1343 c.c. e conseguente condanna della società convenuta, la Banca di Palermo S.p.A., alla restituzione del capitale investito in obbligazioni argentine ed al risarcimento dei danni da liquidarsi secondo equità oltre agli interessi ed al danno da svalutazione monetaria.
Poiché, come indicato da specifici regolamenti[45], la finalità di tutti i doveri posti a carico degli intermediari è finalizzata al raggiungimento degli interessi propri degli investitori e dell’integrità del mercato[46] ed ancora alla trasparenza e correttezza dell’attività di intermediazione, la violazione di tali doveri comporta, secondo un indirizzo giurisprudenziale[47],la nullità dei relativi contratti conclusi e questo in ragione della particolare rilevanza degli interessi protetti di natura pubblicistica, identificabili nella tutela dei risparmiatori/sottoscrittori e dell’efficienza e correttezza del mercato.
Posto che i precetti comportamentali regolanti l’operare degli intermediari finanziari sono qualificati in termini di norme imperativi, ne deriverebbe che ai sensi dell’art. 1418 c.c., commi 1° e 3° i contratti conclusi in loro contrasto debbano essere dichiarati nulli. In ragione, appunto, di tali argomentazioni giurisprudenziali, sembrerebbe da accogliere la domanda dei sottoscrittori.
Nella sentenza di specie, però, il Tribunale ha ritenuto più idoneo discostarsi da tale orientamento giurisprudenziale ritenendo, invece, in ordine alle c.d. nullità virtuali derivanti da clausole contrattuali contrarie a norme imperative, più giusto seguire il più recente indirizzo giurisprudenziale[48] in base al quale si evidenzia come la nullità negoziale può essere determinata solo dalla violazione che va ad incidere sull’obiettivo contenuto del contratto, tralasciando, quindi, quella nullità relativa alla condotta posta in essere prima del negozio, la condotta prenegoziale appunto, o nella fase esecutiva attuata da una delle parti.
La nullità del contratto dovuta alla contrarietà a norme imperative, regolata dal comma 1 dell’art. 1418 c.c., comporta che tale violazione sia dovuta ad elementi intrinseci della fattispecie negoziale, vale a dire relativi alla struttura o al contenuto del contratto, con la conseguenza che l’illegittimità del comportamento tenuto nel corso delle trattative, funzionali alla conclusione del contratto, ovvero nella fase della sua esecuzione, non determini la nullità del contratto stesso, e ciò a prescindere dalla natura delle norme con le quali sia venuto a trovarsi in contrasto, tranne il caso in cui tale sanzione non sia espressamente richiamata anche in riferimento a siffatta ipotesi.
Anzi, la netta distinzione esistente tra adempimenti prescritti a pena di nullità ed altri obblighi comportamentali egualmente posti a carico dell’intermediario non consente di qualificare in maniera generalizzata l’intera disciplina dell’intermediazione finanziaria come di ordine pubblico.
Conseguentemente non può essere sanzionato con la nullità il negozio nel momento in cui risulti inosservato l’obbligo di informazione in quanto quest’ultima non rappresenta un requisito dell’atto previsto a pena di nullità ma, anzi, è un utile strumento che consente di qualificare il comportamento dell’operatore finanziario, alla luce di una condotta da valutare in termini di diligenza e correttezza tanto nella fase delle trattative quanto in quelle dell’adempimento.
A volerla dire in altre parole, le predette norme non sono nient’altro che una specificazione dei principi generali reggenti in tema di correttezza e di informazione, la cui violazione comporta conseguentemente solo la possibilità di esperire il rimedio della risoluzione e/o del risarcimento, nonché l’applicazione delle sanzioni penali ed amministrative previste a carico dell’intermediario.
Quello sin qui riportato oltre a non essere un caso isolato non rappresenta neanche l’unico indirizzo giurisprudenziale possibile. Diverse, infatti, abbiamo visto sono le strade che si possono aprire nel momento in cui ci si trovi di fronte ad una delle fattispecie riportate nel disposto del più volte menzionato art. 1418 c.c.
Sul tema dell’intermediazione finanziaria sono molte le pronunce offerte dalla giurisprudenza e non tutte risultano essere concordanti.
Recentemente, parte della giurisprudenza[49], aveva adottato la tesi della c.d. nullità virtuale degli ordini di investimento ai sensi del 1° comma dell’art. 1418 c.c., a seguito di violazione di norme imperative[50].
In seguito un’altra parte della giurisprudenza[51] ha escluso che i comportamenti illegittimi posti in essere dalle parti, nel corso delle trattative e durante l’intera durata del rapporto negoziale, possono comportare la nullità degli ordini, tranne il caso in cui una simile evenienza non sia espressamente prevista dal legislatore. In tutti gli altri casi, infatti, il rimedio da adottare è la risoluzione per inadempimento e/o risarcimento del danno.
Quanto detto è confortato dalle pronunce di altra giurisprudenza[52] la quale aveva rivelato, in merito alla violazione da parte dell’intermediario delle regole di condotta degli intermediari, tale violazione delle norme rappresenti non un vizio genetico ma un vizio funzionale inerente agli obblighi negoziali già costituitisi tra le parti stesse.
Volendo aderire all’indirizzo giurisprudenziale dettato dalle più recenti pronunce della Corte Suprema[53] risulterebbe assurdo, se non addirittura paradossale voler ricollegare la nullità assoluta, pertanto rilevabile anche d’ufficio, a qualsiasi violazione delle regole comportamentali alla cui osservanza sono tenuti gli intermediari, posto che il legislatore ha specificatamente previsto una nullità relativa, ed in quanto tale rilevabile solo su istanza della parte.
Tale indirizzo giurisprudenziale trova poi, in linea di principio, il supporto anche di non pochi riferimenti legislativi[54].
Gli stessi hanno poi portato a ritenere che si tratterebbe di una erronea convinzione giuridica sostenere la nullità del contratto a seguito di una violazione degli obblighi informativi, dal momento che l’art. 1440 statuisce la validità del contratto anche in presenza di raggiri, quando essi no siano stati tali da incidere sulla formazione del consenso.
Al riguardo il dibattito giurisprudenziale non può ancora dirsi concluso[55], dato che una recente ordinanza della Corte di Cassazione[56] ha rimesso gli atti sulla base di un presupposto contrasto giuriprudenziale[57].
Tale ordinanza, sebbene emessa in un diverso contesto, giunge a sollevare tutte quelle che sono le più ampie e generali questioni riguardanti il campo operativo delle c.d. nullità virtuali e l’interferenza delle norme di comportamento con il profilo della natura stessa del negozio.
Interferenza questa che la stessa Corte di Cassazione ha evidenziato come venga sempre più spesso posta in evidenza dallo stesso legislatore e giunge a ricollegare espressamente la nullità alla violazione di determinate norme regole di condotta. Se non fosse che proprio per il disposto dell’art. 1418, comma 3° si tratta non tanto di nullità virtuali quanto piuttosto di nullità testuali.
Al riguardo appare opportuno effettuare una primaria differenziazione tra le regole che impongono di tenere una determinata condotta e quelle che istituendo, ad esempio, albi professionali, stabiliscono presupposti soggettivi di legittimazione sostanziale e riserve di attività in favore dei soggetti autorizzati.
Solo in quest’ultimo caso ,quindi, sembra essere giustificato il ricorso al dettato dell’art. 1418 c.c., 1° comma[58].
In merito possiamo quindi dire che risultano essere concludenti i risultati cui perviene quella parte della giurisprudenza che esclude l’operatività di tale rimedio.
Per un discorso più completo appare opportuno analizzare anche altre pronunce giurisprudenziali[59] in ordine alle nullità virtuali causa di annullabilità e/o nullità del contratto di intermediazione finanziaria.
In contratti del genere, come abbiamo avuto modo di analizzare nelle pagine che precedono, bisogna riconoscere che gli obblighi informativi previsti dalla legge, nei confronti dei sottoscrittori, non hanno valore assoluto né un contenuto tassativamente predefinito in modo da non ledere i diritti di impresa degli operatori economici, cui il sistema riconosce pari dignità.
In seguito ad una recente giurisprudenza[60] appare superata quella giurisprudenza di merito che basava le proprie decisioni sulle ipotesi di nullità dei contratti di collocamento degli strumenti finanziari in seguito a violazione di norme imperative sul criterio delle nullità virtuali. Infatti, basandosi sul crescente rilievo secondo cui la categoria delle nullità assolute non è suscettibile di estensione indiscriminata, lamentele riconducibili a tali fattispecie possono essere ricondotte alla categoria dell’inadempimento, mentre la normativa di settore prevalente riduce le ipotesi di nullità del contratto al solo caso dell’omissione della forma scritta e prevede un sistema sanzionatorio relativo e non assoluto, né tanto meno esaustivo posto che la legge[61] parla anche di risarcimento come conseguenza della violazione dell’obbligo di diligenza.
In realtà, sono ragioni di carattere formale a circoscrivere la figura della nullità mentre violazioni di carattere sostanziale e comportamentale sono quelle che circoscrivono il rimedio risarcitorio.
D’altra parte, mentre un negozio radicalmente invalido produce come conseguenze la restituzione e/o la ripetizione, il risarcimento, può conseguire solo all’inadempimento di un contratto valido e all’inadempimento di tutti gli obblighi preliminari e legati in via strumentale ad esso.
Va dunque ribadito come il sistema preveda la sanzione della nullità unicamente nelle ipotesi di omissione della forma scritta dando origine cos’ ad un obbligo di ripetizione. Mentre, lo stesso, prevede un’ipotesi di inadempimento, e quindi conseguenti obblighi risarcitori, solo come conseguenza della violazione di obblighi di trasparenza e di informazione.
Inoltre la legge prevede in tal caso l’inversione dell’onere della prova ponendo a carico dei soggetti abilitati all’intermediazione finanziaria l’onere di aver agito con la diligenza richiesta.
In altri casi ancora, come quelli in cui gli attori lamentano la dannosità di un investimento finanziario, intrapreso solo in conseguenza di un preciso suggerimento da parte di un promotore finanziario non diligente, il quale sarebbe in tal modo incappato in tutta una serie di doveri di informazione espressamente previsti dalla puntuale normativa di settore[62], gli stessi attori richiedono la nullità del contratto stipulato legittimando così la propria richiesta alla restituzione del captale investito e del danno subito a seguito del investimento sbagliato concluso.
Il tutto perché si verrebbe a riscontrare un difetto nell’adempimento degli obblighi propri dell’intermediario finanziario che per legge sarebbe invece tenuto, nella presentazione di servizi di investimento, ad assumere tutte le informazioni ritenute necessarie dai sottoscrittori ed agire in modo tale che essi siano sempre regolarmente informati. In particolare i regolamenti[63] che disciplinano la materia impongono all’intermediario di chiedere all’investitore sia informazioni circa le sue conoscenze in materia di investimenti finanziari, la sua personale situazione economica, gli obiettivi che intende perseguire operando un investimento finanziario e da ultimo la sua personale propensione al rischio. L’intermediario, inoltre, è tenuto a consegnare agli investitori il documento accertante i rischi che possono eventualmente derivare dall’investimento.
Nel caso in cui l’intermediario non avesse ottemperato a tali obblighi gli attori, come abbiamo detto in precedenza, potrebbero richiedere la nullità del contratto e pretendere la restituzione del capitale investito.
Ora abbiamo visto che non sempre, però, le cose si svolgono n questa maniera, visto il clima di grande confusione che domina la materia.
D’altro canto non si può sottovalutare la circostanza che alcune pronunce giurisprudenziali[64], si trovano in disaccordo con l’esito prima descritto. Tali pronunce sono variamente argomentate.
Innanzitutto, secondo quest’ottica giurisprudenziale, sarebbe fuori luogo il richiamo alla categoria delle c.d. nullità virtuali relativamente ai contratti conclusi in contrasto a nome imperative, perché stando a quanto stabilito dalla Corte Suprema, la nullità del negozio può essere determinata solamente dalla violazione che va ad incidere sull’obiettivo contenuto dello stesso, ma non anhe su quella relativa alla condotta prenegoziale o esecutiva del contratto posto in essere da alcune delle parti.
In particolare la nullità del contratto in conseguenza di contrarietà a norma imperativa, così come prevista dal 1° comma dell’art. 1418 c.c., impone che tale violazione si riferisca ad elementi estrinseci della fattispecie negoziale, intendendosi con questi elementi relativi alla struttura o al contenuto del contratto, vale a dire l’illegittimità della condotta mantenuta nel corso delle trattativa che hanno condotto alla conclusione del contratto, e ciò a prescindere dalla natura delle norme con le quali si sia trovato in contrasto, tranne il caso in cui tale conseguenza non sia espressamente stabilita anche in riferimento a siffatta ipotesi, come nel caso in regolato dal combinato disposto degli artt. 1469 ter, quater e 1469 quinquies.
In piena sintonia con alcune sentenze di merito [65] appare condivisibile e pienamente giustificata la volontà di distinguere tra adempimenti prescritti a pena di nullità ed altri obblighi di comportamento posti a carico dell’intermediario.
Secondo un’altra impostazione che appare preferibile l’inquadramento della singola operazione effettuata dall’intermediario nell’ambito di un più ampio rapporto negoziale relativo ad un contratto di prestazione di servizi di investimento e l’esecuzione del quale tende di solito alla conclusione nell’interesse del cliente di contratti nuovi aventi per oggetto l’acquisizione o la cessazione di strumenti finanziari, attraverso la conclusione di vere e proprie compravendite.
In tale ambito assume valore indefettibile la cura dell’interesse del cliente da considerare come vera e propria parte debole nel rapporto con l’intermediario.
In particolare egli è tenuto ad adempiere agli obblighi di informazione che gli competono e richiesti dalla normativa di riferimento e che si pongono come obbligazioni di carattere primario.
[1] Si pensi alla norma che riserva l’acquisto degli alloggi di edilizia pubblica a soggetti con determinati requisiti: è nullo il contratto con cui l’alloggio è venduto al soggetto privo di quei requisiti.
[2]Si parla al riguardo di nullità virtuale, la quale va oltre il tradizionale principio della nullità testuale, sancito dalla tipica espressione giurisprudenziale francese “pas de nullité sans texte (nessuna nullità senza testo)”.
[3] Tale criterio risulta essere espresso nella sentenza della Cass. del 12 ottobre 1982, n. 5270 nella quale si evidenzia come la violazione di una norma imperativa non dia sempre luogo alla nullità del contratto, poiché l’art. 1418 c.c. nello stabilire “salvo che la legge disponga diversamente” fornisce all’interprete la possibilità di accertare se il legislatore, anche nel caso di contrarietà ad un precetto, abbia comunque disposto la validità, realizzando un sistema capace di realizzare ugualmente gli effetti voluti dalla norma.
[4] Sul punto importante è lo scritto del DE NOVA, Il contratto contrario a norme imperative, in Riv. Crit. dir. priv., 1995, pag. 446 ss. nel quale si fa riferimento al criterio del “minimo mezzo”: criterio questo che permette di escludere la nullità nel caso in cui l’esigenza perseguita dal legislatore attraverso la previsione della sanzione civilistica, penale o amministrativa, sia pienamente realizzata con relativa irrogazione.
[5] Concordi sono anche CARRARO, Il negozio in frode alla legge, Padova , 1943 pag. 149; e di recente anche DE NOVA, cit. Il contratto contrario a norme imperative, in Riv. Crit. dir. priv., pag. 440.
[6] Al riguardo risulta essere emblematica la Cass., 4 dicembre 1982, n. 6601, la quale ha stabilito che ai sensi dell’art. 1418 c.c. le norme riguardanti un divieto, anche se penalmente punito, possono essere qualificate come imperative, in mancanza di una espressa sanzione civilistica di invalidità, solo nel caso in cui sono dirette alla tutela di un interesse pubblico generale, la quale sarà riscontrabile se il divieto ha carattere assoluto, senza che nessuno dei destinatari della norma posa in qualche modo esimersi dalla sua osservanza; per questo non può considerarsi imperativo, ai sensi dell’art. 1418 c.c., l’art. 4, comma 2°, legge 13 maggio 1966, n. 356 che impedisce alle imprese produttrici di uova da cova di incubare, commerciare o altrimenti mettere in circolazione uova da cova, prodotte in Italia, che riportino stampate la dicitura “cova” seguito da “Italia” ed il numero di immatricolazione identificativo del centro o stabilimento di produzione poichè la disposizione in esame, giustificata da esigenze di carattere pubblico non risulta essere preordinata alla salvaguardia dell’interesse di carattere generale della salute pubblica, data la possibilità di esonero del rispetto della legge richiamata stabilito dall’art.9 della stessa per le piccole imprese.
[7] Ad esempio è nullo il contratto che è frutto di circonvenzione di incapace. La Cassazione con sentenza del 29 ottobre 1994, n, 8948 pubblicata nel Corriere Giuridico del 1995 integrata da una nota di Mariconda ha stabilito che l’incriminazione della circonvenzione di incapace è regolata dall’art. 643 cod. pen., la quale deve essere intesa come imperativa e la sua violazione comporta non solo la sanzione penale ma anche la nullità del contratto. Allo stesso modo è nulla la deliberazione assembleare che approva un bilancio falso, in quanto in tal modo verrebbe ad integrare il reato di false comunicazioni sociali, sanzionato dall’art. 2621. Non si parla più di nullità bensì di annullabilità nel cao di bilancio certificato: nel caso di specie la tardiva scoperta della falsità, vale a dire oltre il termine di decadenza dell’azione di annullamento, è considerato dalla legge come un problema meno grave rispetto al rischio di una perenne incertezza circa le sorti della deliberazione di approvazione del bilancio. Sempre nulli sono poi i prestiti e le garanzie vietate dall’art. 2624 c.c. ora abrogato.
[8] In merito si è espressa la Cass. con pronuncia del 10 dicembre 1986, n. 7322, pubblicata sul Corriere giuridico nel 1987 ed accompagnata da una nota del Mariconda, nella quale si affermavache il contratto estorto con la truffa, accertata in sede penale, di uno dei contraenti a scapito dell’altro non è totalmente nullo, ma annullabile stante a quanto affermato nell’art. 1439 c.c. sempre che il dolo costitutivo del reato di truffa non sia diverso da quello che vizia il consenso negoziale, concretandosi entrambe in manovre o raggiri attuati dal soggetto agente col fine di trarre in errore l’altra parte e così viziare il consenso.
[9] Sul punto relativo al rapporto tra morale e diritto della Dottrina pura del diritto si può osservare lo scritto di M. WEISS, Die begriffliche Abgrenzung von Recht und Moral in der Reinen Rchttlere, in Untersuchungen zur Reinen Rechtslehere II, a cura di R. Walter, Wien, Manz Verlag, 1998 (Schriftenreihe des Hans Kelsen-Instituts, Band 12), pagg. 127-145.
[10] Sul punto HPSRL, pag. 314 al titolo Die Moralpflicht als realpsychischer Zustand der Willensgebundenheit.
[11] In merito F. WEYR, Uber zwei Hauptpunkte der kesenschen Staatserechtslehere, in Band, 1913, pagg. 175-188 mostra in modo lampante come il ricorso alla legislazione renda chiaro il rapporto intercorrente tra autonomia ed eteronomia delle norme nella problematica dell’Annerkennung .
[12] Altrimenti si corre il rischi di cadere nella forma della legge morale, dove, difatti, può essere esatto il principio “nessun dovere senza imperativo”.
[13] Sul punto E.R. BIERLING, Juristische Prinipienlehere, vol 1, Freiburg i.B. und Leipig, J.C.B. Mohr (Paul Siebeck), 1984, p.27.
[14] HPSRL, pagg. 210-212.
[15] Per Bierling quindi la differenza sta solo nel fatto che i giudizi hanno una validità illimitata mentre gli imperativi hanno una validità limitata, mentre non è certo la quantità ma la qualità della validità a essere diversa; Bierling, invece di distinguere tra validità di una norma e validità di un giudizio, identifica imperativo e norma ed anzi conferisce all’imperativo una determinata validità, che è propria della natura della norma e la cui unica possibile forma d’espressione è solo l’imperativo, anche se la più pura fra tutte le possibili.
[16] E.R. BIERLING, Zur Kritik der juristischen Grundbegriffe, vol. 2, cit., pag. 16.
[17] HPSRL, pag. 215; Juristische Prinzipienlehere, vol. 1, cit., pag. 50.
[18] HPSRL, pag. 215; Juristische Prinzipienlehere, vol. 1, cit., pag. 60.
[19] In merito JPL5, pag. 130; Zur Kritik der juristischen grundbegriffe, vol. 2, cit., pagg. 281-293.
[20] Sul punto cfr. JPL5, pag. 131 ed ancora W. FIKENTSCHER, Methoden des rechts in vergleichender Darstellung, vol. 3 e Mitteleuropaischer Rechtskreis, Tubingen, J.C.B. Mohr, (Paul Siebeck) 1976, pagg. 362-364.
[21] La posizione bierlingiana della figura del soggetto del dovere è rammentata da O. BONDY, Zum Problem der Rechtssatz-formulierung, in Zeitschrift fur offentliches recht, 9. Band, 1930, pagg. 418-429
[22] Tra tutti, F. FERRARA sr., Teoria del negozio illecito nel diritto civile italiano, 2° ediz. riveduta, Milano, 1919, pagg. 2 e ss.; E. RUSSO, Norma imperativa, norma cogente,norma inderogabile, norma indisponibile, norma dispositiva, norma suppletiva, in Riv. Dir. Civ., 2001, pagg. 573 e ss.
[23] Come citato e riportato da F. FERRARA, op. cit.
[24] E. RUSSO, La nuova disciplina dei ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, pagg. 484 – 485
[25] L. VIOLA, Studi monografici di diritto civile, percorsi ragionati sulle problematiche di maggiore attualità, Halley ed., pag 54
[26] F. GALGANO, Corso di diritto civile, il contratto,Cedam, 2007, pagg. 275 – 276
[27] DE NOVA, Il contratto contrario a norme imperative, in Riv. Crit. Dir. Priv., 1985, pagg. 446 e ss.
[28] CASS. sent. n. 5270/1982, in Mass. Foro it., 1982 “la nullità di una norma imperativa non dà luogo necessariamente alla nullità del contratto, giacchè l’art. 1418 c.c. (…) impone all’interprete di accertare se il legislatore, anche nel caso di inosservanza del precetto, abbia del pari consentito la validità predisponendo un meccanismo idoneo a realizzare gli effetti voluti dalla norma”.
[29] Sul punto cfr. G.B. FERRI, Il negozio giuridico tra libertà e norma, Rimini 1995, V° ed., pagg. 89 ss.
[30] In tal senso si esprime L. CARRARO, Il negozio in frode alla legge, Padova, 1943, pag. 149 n.9 e G.B. FERRI, Ordine pubblico, buon costume e la teoria del contratto, Milano, 1970, pag. 148.
[31] Al riguardo è da tempo che L. CARRARO, Il negozio in frode alla legge, pagg. 148-149, ha messo in evidenza, per delineare la natura del divieto,come si debba far fronte, in via interpretativa, alla ragione del divieto. In tale prospettiva, va segnalata una sentenza della Suprema Corte in cui viene chiaramente sancito il principio in base al quale le norme contenenti un divieto, anche se punite penalmente, possono essere considerate imperative, in mancanza di una espressa sanzione civilistica di invalidità, solo se dirette alla salvaguardia di un interesse pubblico generale, la quale è rinvenibile se il divieto ha carattere assoluto, senza possibilità di esenzione dalla sua osservanza per alcuni destinatari della norma.
[32] Sul punto L. CARRARO, Il negozio in frode alla legge, cit., pagg. 148-149
[33] In merito si è espressa la Cass. con pronuncia del 21.8.1972 n. 2697
[34] Così ha deciso la Cass. con la pronuncia del 17.6.1960 n. 1591
[35] E’ impossibile dar conto, in tale sede, di tutti gli apporti e di tutte le tesi che hanno trattato tale argomento e contribuito all’evoluzione della spiegazione dogmatica del concetto di causa. Si citano soltanto, a titolo meramente esemplificativo, F. GAZZONI, Manuale di diritto privato, Napoli, 2004, pagg. 787 e ss.; G.B. FERRI, Causa e tipo nella teoria del negozio giuridico, 1966, pagg. 238 e ss.; CASS. sez III, sent. n. 10490/2006
[36] M. FRANZONI, Commentario Scialoja Branca… pag. 206
[37] idem, pag 207
[38] CASS. sent. n. 1613/1989, in Foro it., 1989, I, c. 1420; CASS. Sent. n. 808/1983, in Mass. Foro it., 1983
[39] F. GALGANO, op. cit., pag. 289
[40] G.B. FERRI, Ordine pubblico, buon costume e la teoria dl contratto, Milano, 1970, pag. 160
[41] In merito si è espresso il Tribunale civile di Roma sezione fallimentare con sentenza relativa al ricorso n 3598/03.
[42] Sul punto si è pronunciato il Tribunale di Palermo Sezione 3 Civile con Sentenza del 14 febbraio 2007, n. 677.
[43] Sul punto risulta utile osservare il D. Lgs. n. 24.2. del 1998 n. 58, ed. Tu.
[44] Nel caso in questione vedasi delibera Consob 1.7.1998 n. 1522.
[45] In merito è opportuno analizzare il reg. Consob 11522/98, dagli artt. 21 comma I lett. b) T.U.F. e 28 comma I lett. a) ed il reg. Consob n. 11522/98 e dall’art. 29 comma I reg. Consob 11522/98.
[46] Al riguardo art. 21 comma I lett. a T.U.F. ed art. 26 comma I del. Consob 11522/98.
[47] Si guardi la pronuncia della Cass. del 07.03.2001 n° 3272 e del Trib. Ma. del 18.03.2004.
[48] Sul punto fondamentale risulta essere la pronuncia della Corte di Cassazione sez. I civ. del 29 settembre 2005.
[49] In merito va vista la pronuncia del Tribunale di Venezia: sentenza dell’ 11 luglio 2005, Tribunale di Avezzano: sentenza del 23 giugno 2005; Tribunale di Firenze: sentenze del 19 aprile 2005 e del 24 marzo 2005; Tribunale di Palermo: sentenza del 17 gennaio 2005; Tribunale di Mantova: sentenza del 12 novembre 2004.
[50] Così ha scritto nel merito A. CAGGIANO, I doveri di informazione dell’intermediario finanziario nella formazione de esecuzione del contratto. Violazione e rimedi, in Dir. e Giur., 2006, pag. 453. G. GOBBO-C.E. SALODINI, I servizi di investimento nella giurisprudenza piu recente, in Giur. Comm., 2006, pag 5. L. ZITIELLO, La giurisprudenza sul cosiddetto risparmio tradito, Torino, 2005. C. MIRIELLO, La strenua difesa dell’investitore: scandali finanziari e pretese nullità virtuali dei contratti di vendita di titoli obbligazionari, in Contr. e Impr., 2005, pag.495.
[51] Sul punto si guardi la pronuncia della Corte di Cassazione sez. I, del 29 settembre 2005, n. 19024
[52] In merito cfr. Tribunale di Roma con sentenza n. 10492 del 2007. Ma anche Tribunale di Torino: sentenza del 12 aprile 2006; Tribunale di Novara: sentenza del 16 marzo 2006; Tribunale di Catania: sentenza del 22 novembre 2005; Tribunale di Genova: sentenza del 2 agosto 2005; Tribunale di Milano: sentenza del 25 luglio 2005.
[53] Sul punto leggere precedente nota 48.
[54] In particolare art. 23, comma 6, del TUF e l’art. 27, comma 1, lett. c) della Legge 28 dicembre 2005, n. 262.
[55] Si attende, in merito, infatti, una decisione delle Sezioni Unite in ordine all’ordinanza del 16 febbraio 2007, n. 3683 della Corte di Cassazione.
[56] Al riguardo cfr. nota precedente.
[57] Sul punto si è così espresso V. MARICONDA, Regole di comportamento nella trattativa e nullità dei contratti: la criticabile ordinanza di rimessione della questione alle Sezioni Unite, in Corr. giur., 2007, pag. 633.
[58] Al riguardo vanno segnalate le sentenze: Cass. sez. II del 19 febbraio 2007, n. 3740; Cass., sez. III del 18 luglio 2003, n. 10427; Cass., del 15 dicembre 2000,n. 15849; Cass., 4 novembre 1994, n. 9063.
[59] Tribunale di Napoli XI Sezione Civile con Sentenza del 26 ottobre 2006, n. 10712.
[60] Sul punto è cruciale la pronuncia della Cass. del 29. 9. 2005 n. 19024.
[61] Al riguardo vedasi quanto dice l’art. 23 TUF.
[62] In particolare il promotore non avrebbe rispettato il disposto di cui all’art. 21 comma I lett. b) del dlg. 24.02.1998.
[63] Nello specifico si va a richiamare il regolamento Consob approvato con delibera n. 11522/1998
[64] Tribunale di Rieti, sentenza del 8 maggio 2006, n. 1581.
[65] In particolare si osservino le sentenze: Tribunale di Novara del 10.01.2006 n. 14 e del Tribunale di Milano del 16 novembre 2005.
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