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Il tasso d’interesse: giurisprudenza e normativa di riferimento

CAPITOLO PRIMO

ORIGINI E SVILUPPO DEL TASSO D’INTERESSE

  1. Profili storici del tasso d’interesse

A partire dal Medioevo si comincia a chiamare “interesse” (id quod interest) il compenso lecito versato per il godimento di un capitale, nei casi in cui esso non fosse proibito dalla Chiesa, poiché l’usura era condannata dal diritto canonico.

Il sistema degli interessi, sotto il codice del 1865, si articolava sullo stampo del Code Civil e si distingueva in due distinzioni, l’una attinente alla fonte, l’altra alla giustificazione.

In quest’ottica prima di tutto agli interessi convenzionali venivano contrapposti quelli legali: l’ulteriore distinzione di quest’ultimi era ricalcata sulla base dell’art. 1153 Code Civil[1], il quale dalla generale previsione sugli interessi moratori escludeva i casi in cui la legge li fa decorrere di pieno diritto.

Per dare una certa sistematicità al codice del 1865, in cui nell’art. 1231 non era presente l’espressa riserva generale contenuta nel Code Civil[2], era parso opportuno valorizzare l’istituto dell’equità[3], costruendosi così la categoria degli interessi corrispettivi o compensativi[4] ed evidenziando che l’equità, costituisce ragione giustificatrice di ogni specie di interessi come compenso al godimento lecito o illecito di un capitale altrui[5].

In questo momento storico, pertanto, il fenomeno degli interessi si rappresentava in un’ottica unitaria. Tuttavia con il passare del tempo e preso atto della funzione produttiva del denaro, si avvertì l’esigenza di estendere l’area degli interessi, prevedendo nuove ipotesi specifiche per l’allargamento dell’idea di mora, unica fattispecie di generale legittimazione degli interessi, essendo, quella del ritardo, imputabile nel pagamento del dovuto.

Solo nell’ipotesi su descritta infatti, si ammetteva che al creditore spettassero come risarcimento del danno gli interessi, ovvero quel compenso legittimo che il creditore avrebbe potuto trarre dalla somma dovutagli[6], negato invece come risultato di una normale attività contrattuale[7].

Ebbene un’impostazione di tal sorta ha influenzato sicuramente lo sviluppo del tema degli interessi. Ed invero anche quando si assiste al pieno riconoscimento della laicità degli stessi, accanto alla libertà contrattuale residuò la mora come unico fondamento generale degli interessi di fonte legale.

Ed infatti, il significato risarcitorio si perde in quello della normale produttività del denaro e anche ove si scorge un collegamento tra quest’ultimi, l’attribuzione dell’interesse viene identificato con un finanziamento coattivo da compensare secondo il corretto profitto realizzabile sul mercato[8]. In altri termini il punto nodale è quello di stabilire la decorrenza degli interessi, a seconda delle peculiarità dei rapporti e dei singoli settori dell’ordinamento.

Ma i secolari divieti che negavano ogni legittimità all’ interesse, crollarono prima in Francia per effetto di un decreto dello Stato del 12 ottobre 1789 (confermato dall’art. 1905 del Code civil) e poi man mano negli altri ordinamenti tra cui il nostro.

Finalmente si comprese che “il commercio del denaro è un commercio

come gli altri, nel quale chi presta vende l’uso del proprio denaro, e chi prende a prestito lo acquista, esattamente come il proprietario di un terreno ed il suo fittavolo vendono ed acquistano, rispettivamente, l’uso del fondo che viene affittato”[9].

“Con il denaro, infatti, si può acquistare un terreno o procurarsi una rendita: colui che presta il suo denaro non cede dunque il possesso sterile di questo denaro, ma si priva di un profitto o di una rendita che avrebbe potuto procurarsi, e l’interesse che lo ricompensa di questa privazione non può considerarsi ingiusto”[10].

Gli interessi vennero così considerati come corrispettivo di concessione in godimento alla stregua della locazione e delle rendite. E lo stesso art. 820 del nostro codice civile li elenca tra i frutti civili equiparandoli ai canoni enfiteutici, alle rendite vitalizie e ad ogni altra rendita ed ai corrispettivi delle locazioni[11].

Il ruolo del capitale acquista così piena ed espressa sanzione nel momento in cui si considerano gli interessi “come corrispettivo del godimento che altri ne abbia” e, in quanto tali, quali frutti civili.

È un inquadramento che rispecchia la derivazione da teorie economiche oggi superate[12], ma che hanno avuto la funzione di rappresentare un supporto per la legittimazione dell’idea del denaro come strumento per la produzione di nuova ricchezza[13]. Tuttavia è la stessa idea di frutti civili ad essere oggetto di fondate perplessità[14] così come interrogativi suscita la carenza di ogni riferimento alla nuova forma del denaro  in quei contratti che ne sono economicamente caratterizzati[15].

Il legislatore tuttavia è solo quando ha provveduto all’unificazione della materia civile e commerciale che si è adoperato per disporre una nuova disciplina degli interessi.

Si sono avute così una serie di disposizioni regolanti, con portata generale, la produzione degli interessi. In particolare l’art. 1224 c.c. che fonda le sue radici nell’art. 1231 del codice del 1865 e l’art 1282 c.c, che riproduce il principio di cui all’art. 41 del Codice del Commercio.

Si è così evidenziata quella diversità di funzioni che sotto il regime precedente si era diffusamente negata[16].

Il principio generale risiede nella naturale fecondità del denaro che porta ad ammettere la costante produzione di interessi in dipendenza dell’esigibilità del credito indipendentemente da qualsiasi rilevanza della mora e del comportamento del debitore[17].

L’art. 1282, come detto poc’anzi, deriva invece dall’art. 41 del Codice del Commercio che a sua volta riproduceva, ma con significative estensioni, una regola già accolta nei codici di commercio tedeschi e, prima ancora diffusa nella consuetudine commerciale, in base alla quale veniva stabilita la decorrenza degli interessi, sui crediti commerciali pecuniari liquidi ed esigibili, indipendentemente dalla costituzione in mora.

Ebbene, l’art. 1231 codice del 1865 di inserisce nella più antica tradizione del diritto civile, volta ad ammette l’obbligazione legale di corresponsione degli interessi solo come conseguenza della costituzione in mora del debitore[18].

Tuttavia in dottrina ci si è chiesti come mai il Legislatore italiano, in sede di unificazione legislativa del diritto privato, non abbia sentito l’esigenza di coordinare le due regole in una norma unitaria.

Ed invero si è affermato che la regola commercialistica poteva essere intesa come una regola volta a semplificare la produzione degli interessi moratori in materia commerciale.

Ed infatti in tal senso era stata intesa in passato[19] e soprattutto dalla dottrina tedesca, formatasi con riferimento alle norme dello HGB[20].

Nella dottrina italiana relativa al codice di commercio del 1882 si affermò la convinzione di una necessaria diversità di funzioni tra interessi moratori previsti dal codice civile e gli interessi corrispettivi previsti dall’art. 41 cod. comm. tanto che il legislatore del ‘42 non unificò la disciplina  civilistica e quella commercialistica, partendo dal convincimento che le relative norme regolassero fenomeni diversi.

Tuttavia la distinzione tra interessi moratori e corrispettivi è piuttosto incerta. La dottrina[21] infatti ravvisa una diversità di funzioni: in un caso, si sottolinea il profilo del danno subito dal creditore che consegue in ritardo la prestazione pecuniaria dovuta; nell’altro caso, il profilo del vantaggio conseguito dal debitore che esegue in ritardo la prestazione medesima.

Sul punto però vi è chi ha osservato che detta differenza di funzioni si risolva in una differenza di prospettiva nella considerazione del fenomeno[22]. Su questa linea peraltro si è attestata parte della dottrina[23]  che spostava il piano della questione dalla considerazione del piano funzionale degli interessi al profilo della descrizione della fattispecie produttiva degli interessi legali.

La dottrina successiva alla codificazione del codice del ‘42 ha continuato a sottolineare la pretesa diversità delle funzioni degli interessi previsti dalle due norme generali degli artt. 1224 e 1282 c.c. non spiegando però come possa conciliarsi con l’asserita diversità di funzione l’affermazione per cui sopravvenuta la mora, gli interessi moratori vengono ad assorbire gli interessi corrispettivi, eventualmente già decorrenti in base all’art. 1282 c.c. sostituendosi ad essi[24].

  1. Evoluzione  e aspetti rilevanti

La nozione di interesse, intesa nella particolare accezione di rapporti obbligatori, appare abbastanza chiara tanto che il legislatore, pur disciplinando in numerose norme l’obbligazione di interessi, non ha avvertito l’opportunità di specificare la nozione, facendo quindi affidamento sulla diffusione e sull’univocità della nozione tradizionale.

Ebbene, secondo l’orientamento consolidato “gli interessi sono quelle prestazioni accessorie, omogenee rispetto alla prestazione principale, che si aggiungono ad essa per effetto del decorso del tempo e che sono commisurate ad una aliquota della stessa[25].

Secondo la dottrina maggioritaria, l’obbligazione degli interessi viene individuata in base alla ricorrenza di determinati requisiti.

In primo luogo l’accessorietà dell’obbligazione di interessi rispetto ad un’obbligazione principale[26]. In secondo luogo l’uguaglianza generica tra l’oggetto dell’obbligazione principale e quella dell’obbligazione accessoria.

Ed ancora altro requisito attiene alla periodicità, intesa con riferimento all’acquisto e non in relazione al termine di scadenza dell’obbligazione di interessi, che potrebbe anche per volontà delle parti, essere determinato in misura diversa.

Ed infine la proporzionalità, intesa nel senso che l’oggetto dell’obbligazione di interessi viene determinato in base alla moltiplicazione del fattore tempo per una determinata aliquota proporzionale del debito principale[27].

Da quanto detto, si evince chiaramente che nella definizione tradizionale si considera soprattutto l’aspetto strutturale dell’obbligazione di interessi  in senso statico, mentre il regime giuridico dell’obbligazione stessa è preso in esame solo in relazione all’accessorietà, mentre nulla si dice in ordine alla fattispecie costitutiva dell’obbligazione stessa.

La definizione suddetta ha pertanto un valore limitato, ai fini della comprensione del valore giuridico degli interessi, esaminato nel suo complesso, va precisato inoltre che in ordine ai singoli elementi della definizione il dibattito è piuttosto acceso a tutt’oggi.

Per quanto concerne il carattere della “ac­cessorietà rispetto ad un’obbligazione prin­cipale”, è stato però osservato che oltre ad essere generico e incerto nel suo contenuto normativo, sembra dubbio proprio nell’indicazione della necessità di una “obbligazione principale”. Sul punto va rilevato infatti che alcune disposizioni, e più precisamente quelle disciplinanti gli obblighi dell’usufruttuario (art. 983 comma 2, 1005 com­ma 3, 1009 comma 1, 1010 comma 3 c.c.) prevedono un’obbligazione di interessi calco­lata rispetto ad una “somma capitale”, che non costituisce tuttavia oggetto di un’obbli­gazione dell’usufruttuario.

In dette ipotesi non sarà applicabile la disciplina dell’accessorietà, ma, anche con riferimento al dettato legislativo, va evidenziato che non sussiste alcun motivo di escludere che si tratti di un’obbli­gazione di interessi in senso tecnico, e che ad essa sia applicabile la relativa, rimanente disciplina.

Peraltro è stato osservato che accessorietà non significa necessariamente secondarietà dell’obbligazione degli interessi, dato che talvolta essa assume valore fondamentale nel meccanismo sinallagmatico del contratto[28]. Tale attributo è dunque da intendere nel senso che l’obbligazione degli interessi presuppone l’esistenza di un debito relativo al capitale, sottolineandosi che il collegamento con l’obbligazione principale, essenziale nel momento genetico non impedisce che, una volta venuta ad esistenza con la relativa maturazione, l’obbligazione con gli interessi acquisti un’autonomia tale da renderla possibile oggetto di atti giuridici separati e da farla sopravvivere anche al debito principale[29].

Per quanto concerne poi l’oggetto dell’obbligazione di interessi, parte della dottrina ritiene che la stessa possa avere ad oggetto beni fungibili diversi dal danaro[30].

Sempre sul tema di cui in commento vi è altresì poi chi dubita che il requisito dell’omo­geneità delle due prestazioni (principale ed accessoria), potrebbe essere convenzional­mente eliminato[31].

Sul carattere della periodicità viene poi negato, non solo con riferimento alla scadenza del termine dell’obbligazione di inte­ressi[32], ma anche con riferimento alla periodicità dell’acquisto, cioè al requisito della “matu­razione progressiva”[33]. Dunque, non è essenziale la periodicità della corresponsione degli interessi distinguendosi appunto la maturazione dalla scadenza[34].Questo dato appare fondamentale per risolvere problemi attinenti alla decorrenza del termine di prescrizione.

All’autonomia delle parti, è rimessa quindi la periodizzazione del pagamento degli interessi ( e lo stesso patto di corresponsione globale in via anticipata o posticipata è da ritenere rientrante tra le relative possibili modalità[35]). Nelle ipotesi in cui essa non si è esplicata non sembra che possa considerarsi coincidente maturazione e scadenza[36], va piuttosto ritenuto che soprattutto in vista del dettato dell’art. 1285 c.c [37] che la scadenza si verifichi a periodi determinati dagli usi, o in mancanza, in relazione alla durata-base del tasso di interesse (e quindi abitualmente dell’anno: art. 1284 c.c[38]). è dunque il tipo di rilevanza del rapporto che vale a giustificare, con riferimento agli interessi legali un’eventuale coincidenza di maturazione e scadenza[39]. Ebbene, dalle considerazioni suesposte si evince una certa difficoltà nel determinare una nozione giuridica di “interessi” che sia rigorosamente aderente al dettato normativo.

Tanto chiarito, resta da chiedersi quale valore normativo abbia, in ordine al prodursi dell’obbligazione di interessi, l’art. 1224.

Riguardo ai debiti pecuniari liquidi ed esigibili si rileva che, nella disciplina vigente, la mora non rileva ai fini della produ­zione degli interessi legali, in quanto questi decorrono già in base all’art. 1282.

Ne consegue che l’art. 1224, sottolineando il fatto che la produzione degli inte­ressi legali non esclude la risarcibilità del danno effettivamente subito dal creditore, operi una trasformazione all’interno dell’ob­bligazione di interessi, ponendo in primo piano una delle funzioni giustificative degli inte­ressi legali (cioè quella più propriamente ri­sarcitoria) e dandovi piena rilevanza sul ter­reno normativo.

Tuttavia ad una più attenta riflessione, la regola sulla risarcibilità del maggior danno non tocca l’obbligazione di interessi in quanto tale: essa costituisce piuttosto una regola alternativa rispetto a quella consistente nella produzione degli interessi.

La norma, invero, dispone sul “maggior danno”e sull’”ulteriore risarcimento”; ma in sostanza è come se di­cesse che il creditore deve provare il “danno effettivo” e che, quando questo risulti superio­re all’ammontare degli interessi legali, gli deve essere integralmente risarcito.

In definitiva l’art. 1224 c.c. co. 2 dà al creditore una facoltà di scelta fra il diritto agli interessi legali e il diritto al risarcimento del danno secondo le regole generali della responsabilità contrattuale [40].  Vero è che senza dubbio in ogni caso sul tema va ancora risolta la questione sul fatto se la risarcibilità del “maggior danno” richieda la costituzione formale in mora o se possa fon­darsi sulla semplice situazione di “ritardo imputabile”[41].

Per quanto attiene invece i crediti pecuniari illiquidi, l’art. 1224 può avere il significato di determinare il dies a quo per la decorrenza degli interessi, la quale in tal caso non può basarsi, sull’art. 1282[42].

In questa direzione è orientata infatti la giurisprudenza, la quale, in ordine alla decorrenza degli in­teressi su debiti illiquidi, è costante nel giun­gere a due soluzioni: la non vigenza nel nostro ordinamento del vecchio principio “in illiquidis non fit mora”, con conseguente decorrenza degli in­teressi sui debiti certi ma illiquidi sin dal giorno della costituzione in mora e indipen­dentemente dalla domanda giudiziale[43]; ed ancora sull’inammissibilità degli interessi mora­tori in ordine a debiti non solo illiquidi ma anche obiettivamente incerti nella loro esistenza[44].

Entrambe queste posizioni hanno però suscitato non poche obbiezioni. Va detto anzitutto che la giuris­prudenza si riferisce quasi sempre a controversie relative a risarcimento del danno per inadempimento, di obbligazione originariamente non pecuniaria[45].

Va det­to altresì ­che, in ordine alle somme dovute a titolo di risarcimento del danno, non si ha produ­zione di interessi in senso tecnico, dovendosi invece applicare il principio per cui il danno da ritardo sarà risarcibile in base alle regole generali.

Volendo comunque esaminare le regole enunciate dal­la giurisprudenza, parte della dottrina ha an­zitutto respinto l’indicazione del requisito della “certezza” del debito come presupposto della mora e quindi della produzione di in­teressi.

Il problema della certezza del debito, intesa in senso oggettivo, si risolve nel problema del fondamento della pretesa creditoria, che viene coperto dal giudicato; se questo è positivo, il credito è “certo” oggettivamente fin dall’origine, e fin dall’origine il debitore dovrà sopportare le conseguenze del proprio ina­dempimento[46]. È evidente, quindi, che la “incertezza” di cui parla la giurisprudenza potrebbe avere rilevanza solo se intesa in senso soggettivo.

In questa prospettiva la giurisprudenza espri­me un chiaro intento equitativo, in quan­to tende a limitare le conseguenze dannose a carico del debitore moroso, il cui ritardo sembra scusabile.

Ed ancora il problema della eventuale decorrenza, ex art. 1224, degli interessi su debiti pecuniari illiquidi, va dunque affrontato unita­riamente.

Ed invero, in relazione ai debiti pecuniari illiquidi aventi origine contrattuale, la dottrina più recente tende a riaffermare la vigenza del principio “in illiquidis non fit mora”, nella misura in cui il ritardo non possa essere imputato a colpa del debitore[47].

In queste posizioni dottrinali è evidente l’intenzione di sottrarre il debitore incolpevole ad un obbligo di ri­sarcimento del danno.

Ebbene, mentre le norme contenute negli artt. 1224 co. 1 e 1282 co. 1 c.c. possono essere considerate uni­tariamente sul piano sistematico, la norma dell’art. 1224 co. 2 contiene in sostanza un semplice richiamo alle regole generali sulla responsabilità contrattuale, con ciò dimostrando che queste possono applicarsi anche alle obbligazioni pecuniarie, sia pure in alternativa alle norme sulla produzione degli interessi le­gali.

Sulla base di questo inquadramento si­stematico, sembra quindi potersi ammettere che, in seguito alla costituzione in mora, anche i debiti pecuniari illiquidi diventino produttivi di interessi legali, indipendentemente da una situazione di colpa del debitore.

In sostanza, è stato ritenuto che la soluzione più coerente sarebbe stata quella di riconoscere la decorrenza degli interessi su tutte le obbligazioni pecuniarie scadute, in­dipendentemente dalla liquidità delle stesse; ma, l’attuale codice civile non ha accolto tale regola, tuttavia parte della dottrina ha osservato che non per questo si deve rinunziare al tentativo di eliminare, dove possibile, la differenza di trattamento normativo tra le obbligazioni pecuniarie li­quide ed illiquide[48].

In conclusione, si può ricostruire in questo modo la fattispecie relativa alla produzione degli interessi legali ex art. 1224 e 1282 c.c.: i debiti pecuniari liquidi producono interessi dal giorno in cui divengono esigibili; i debiti pecuniari illiquidi producono interessi dal giorno della costituzione in mora.

In ogni caso le norme sulla produzione degli interessi non impedi­scono al creditore di optare per la tutela offertagli dalle regole generali sulla responsa­bilità contrattuale, regole che il creditore po­trà invocare, in alternativa alle norme sugli interessi, quando ne sussistano i presupposti, e assoggettandosi al relativo onere probatorio.

  1. Il concetto di moderno di tasso d’interesse

Sembra che il legislatore italiano sia particolarmente ispirato, in materia, dai colleghi francesi, i quali introdussero, con qualche decennio di anticipo, un sistema di fissazione legale di soglie alla liceità degli interessi nelle diverse operazioni creditizie[49].

Volendo fare qualche passo indietro, l’archetipo dei tassi soglia nasce nella Roma del IV secolo a.C., in cui il limite massimo degli interessi applicabili al prestito a lunga scadenza in moneta era chiamato usurae centesimae, perché coincideva con la centesima parte del capitale[50].

La determinazione in via amministrativa della soglia oltre la quale il tasso d’interesse rende usurario il contratto ha suscitato non poche critiche da parte di coloro che vedono in essa una limitazione troppo incisiva alla libertà di contrattazione, con conseguente distorsione delle logiche di mercato e della concorrenza.

Infatti, la dimensione oggettiva che si viene a delineare attorno al reato fa pensare che il legislatore abbia voluto sì proteggere la posizione del singolo contraente, ma che abbia anche sentito la necessità di regolare il funzionamento delle attività connesse alla prestazione del credito[51].

Ma il diritto romano, pur conoscendo numerose ipotesi di interessi legali[52], non aveva una norma generale volta a predeterminare il tasso degli interessi, infatti il tasso variava a seconda dei casi, e spesso anche all’interno delle singole fattispecie era rimesso alla discrezionalità del giudice.

Quando, dopo il divieto canonico delle usure, i codici ottocenteschi ritornarono a prevedere ipotesi di interessi legali, si affermò invece la tendenza alla predeterminazione rigida del tasso da parte della legge stessa.

Questa tendenza è ispirata ad una esigenza di certezza dei rapporti giuridici; essa è pienamente accolta nel vigente codice civile, che nell’art. 1284 fissa il saggio degli interessi legali nella misura dl 5% in ragione dell’anno, e non prevede altre norme che possano consentire un adeguamento del saggio alla varietà delle singole circostanze. Ebbene, l’applicazione rigida del tasso del 5% può portare a soluzioni inique come è stato paventato da taluni, di volta in volta a favore del debitore o del creditore. In altri termini il sistema non sembra consentire correttivi, rispetto alle situazioni summenzionate.

Vero è però che, in determinate ipotesi, una considerazione funzionale dell’attribuzione degli interessi legali consente di giungere alla conclusione che essi debbano essere determinati in concreto ovvero nella misura che appaia congrua in relazione alle circostanze del caso.

Un esempio di quanto sin’ora detto si può avere in relazione al mandato ovvero agli interessi dovuti dal mandatario che non abbia impiegato le somme del mandante secondo le istruzioni ricevute.

Ancora un esempio si rinviene nell’art. 669 comma 1 (legato di somma di denaro individuata di proprietà del testatore), per cui gli interessi legali dovuti dall’erede non possono intendersi altrimenti che come gli interessi effettivamente prodotti dalla somma di denaro individuata[53].

Vanno altresì considerati i casi, nei quali il meccanismo degli interessi si applica solo come criterio di determinazione del denaro da ritardo nel conseguimento nella somma di denaro.

Stante però la situazione attuale i negozi privati aventi ad oggetto l’obbligazione di interessi hanno oggi essenzialmente la funzione di modificare il saggio legale degli interessi.

Ed invero il codice civile disciplina i negozi relativi agli interessi nell’art. 1284, co. 3 e nell’art. 1815, co. 2.

Il primo pone un vincolo di forma al negozio relativo agli interessi, disponendo che lo stesso debba essere compiuto per iscritto, il secondo invece pone un limite attinente al contenuto, disponendo la nullità della convenzione di interessi aventi carattere usurario.

Entrambe le norme, sono applicabili a qualunque specie di interesse, infatti la prima è compresa nella disciplina generale delle obbligazioni pecuniarie, e come tale riferibile a tutte le ipotesi di interessi legali, la seconda in quanto volta a richiamare regole generali della disciplina dei contratti, la cui applicazione non può essere arbitrariamente limitata alla sola convenzione di interessi accedente al mutuo.

Entrambe le norme però disciplinano soltanto il caso della stipulazione di interessi  in misura superiore al saggio legale, e sono ispirate all’esigenza di tutela del debitore, considerato come parte debole del rapporto di credito. Pertanto è stato ritenuto che le norme di cui in parola non si applichino ai negozi che prevedano una riduzione del tasso legale o addirittura escludano la produzione degli interessi legali[54].

CAPITOLO SECONDO

IL TASSO D’INTERESSE 

  1. Considerazioni generali in tema di interessi

Nell’ambito dei frutti civili, che rappresentano il corrispettivo dovuto per il godimento della cosa altrui, gli interessi dei capitali rivestono un’importanza centrale, esprimendo il prezzo dovuto per la disponibilità del danaro, bene fungibile per eccellenza, il costo del danaro stesso[55].

La concezione degli interessi quali “frutto di un capitale dovuto” è, senz’altro, storicamente condizionata e non mancano i tentativi di trovare altrove la giustificazione funzionale del fenomeno. In mancanza di una nozione positiva di interesse nel nostro ordinamento, in dottrina è ormai consolidata la definizione di interesse come”quel particolare tipo di obbligazione pecuniaria che, per la sua accessorietà, in quanto frutto civile, si aggiunge in determinati casi, periodicamente e percentualmente ad una obbligazione pecuniaria avente carattere principale, detta capitale”[56].

Da quanto detto, si evince che il debitore di una somma di denaro sarà tenuto a corrispondere, oltre al capitale, un’ulteriore quantità di denaro (interessi) variabile in funzione del capitale, del tasso d’interesse e del tempo[57].

Nel codice civile gli interessi sono disciplinati nell’ambito delle obbligazioni pecuniarie (artt. 1277 e seguenti)[58].

Nell’ambito delle obbligazioni pecuniarie, la giurisprudenza e la dottrina sogliono tradizionalmente distinguere quelle originariamente

pecuniarie, aventi cioè ad oggetto sin dall’origine una somma di denaro (obbligazioni di valuta), da quelle originariamente non pecuniarie, aventi cioè ad oggetto all’origine un bene diverso dal denaro e nelle quali il denaro viene preso in considerazione solo successivamente quale surrogato cui commisurare (per equivalente monetario) il controvalore dell’anzidetto bene (obbligazioni di valore). Tale distinzione è stata, peraltro, oggetto di ridefinizione, nel senso che, secondo la più recente elaborazione del diritto giurisprudenziale, la nozione delle obbligazioni di valore (e, per converso, anche quella di obbligazioni di valuta), peraltro non codificata, è in realtà priva di

caratteristiche intrinseche, dipendendo invece dalle diverse scelte che, volta a volta (a seconda delle mutevoli contingenze storiche), vengono in concreto discrezionalmente operate dal legislatore al fine di sottrarre determinate categorie di crediti al rigido principio nominalistico di cui all’art. 1277 cc; tra le obbligazioni di valore vengono riportate, infatti, non solo quelle originariamente non pecuniarie (quali ad esempio le obbligazioni da fatto illecito), ma anche talune obbligazioni originariamente pecuniarie (come ad esempio quelle relative alla reintegrazione della quota ereditaria di legittimità determinata mediante compenso in denaro, quelle relative ad indennizzo per arricchimento senza causa ed i crediti di lavoro dei dipendenti privati).

La misura degli interessi, entro certi limiti e nel rispetto di specifiche regole formali, può essere liberamente fissata dalle parti[59]. In assenza di apposita pattuizione, invece, è lo stesso legislatore a stabilire il saggio d’interesse[60].

È possibile, pertanto, distinguere, in relazione alla loro fonte, fra interesse convenzionali e legali.

  1. Le diverse tipologie di interesse

Nel quadro dell’unificazione della materia civile e commerciale, il legisla­tore,come detto nel primo capitolo, ha provveduto alla nuova disciplina degli interessi: compito non facile, come risulta evidente dai lavori preparatori[61].

E con uno determinato processo, si è finito con l’accentuare, allo scopo di dare una spiegazione “sostan­ziale” alla pluralità di norme coesistenti, quella diversità di funzione che, sotto il regime precedente, si tendeva diffusamente a negare (o a considerare, almeno, di scarso rilievo).

:È da sottolineare che, se è vero che il fondamento delle distinzioni corren­ti si rinviene nei lavori preparatori, innegabile appare anche come in essi ci si limiti ad evidenziare non tanto una contrapposizione di funzioni, quanto una gestione articolata di un fenomeno sostanzialmente unitario[62].

Il principio generale è individuato nella “naturale fecondità” del danaro che porta ad ammettere la costante produzione di interessi in dipendenza dell’esigibilità del credito (art. 1282 c. c.), indipendentemente, quindi, da qualsiasi rilevanza della mora e del comportamento del debitore[63].

La mora del debitore assume un’influenza marginale dal punto di vista della produzione degli interessi, dato che essa incide solo nei casi in cui questi, per legge o per convenzione, non sono prodotti prima di essa, ovvero lo sono in misura inferiore a quella legale[64].

Il vero ruolo della mora consiste[65], soprattutto, nell’au­torizzare, con una direttiva (art. 1224 2° comma c. c.) che si tentava reitera­tamente di enucleare anche sotto il regime previgente[66], il ricorso alle regole generali del risarcimento del danno anche in quella materia pecuniaria dalla quale erano state tradizionalmente escluse, in base alla supposta sufficienza del riconoscimento, in tale ipotesi, della “naturale” produttività del danaro.

La funzione, dunque, dell’art. 1224, marginale per ciò che riguarda gli interessi[67], assume notevole rilevanza nel mo­mento in cui consente, in quei casi nei quali il frutto del danaro accordato in via legale lasci insoddisfatto il creditore[68], di considerare l’interesse come par­te di un risarcimento la cui quantificazione deve, ovviamente, sottostare alle regole ordinarie.

Quanto, poi, agli interessi compensativi, la loro eterogeneità è dimostrata dalla stessa esemplificazione che ne viene fatta, volendosi, in real­tà, in qualche modo unificare ipotesi che di comune hanno solo il prescindere dall’esigibilità del credito e dalla mora del debitore[69].

Un’altra distinzione si ha tra interessi corrispettivi e interessi moratori, la cui accentuazione è avvenuta ad opera della giurisprudenza in vista della soluzione di problemi specifici[70]. Gli interessi corrispettivi si fonderebbero sul principio della produttività del denaro, il quale impone che, ove taluno abbia avuto il vantaggio della disponibilità dell’altrui danaro, que­sti debba ristabilire, appunto attraverso la corresponsione degli interessi, l’equi­librio tra i due patrimoni, al fine di non violare un altro principio, quello che vieta di arricchirsi ingiustificatamente a danno di altri.

Gli interessi moratori, invece, avrebbero una tipica funzione risarcitoria, essendo destinati a riparare il danno subito dal creditore a causa dell’ingiustificato ritardo del debitore nel­l’eseguire la prestazione pecuniaria dovuta[71].

Di fronte a simili affermazioni la tendenza della più accorta dottrina è stata nel senso di verificare fino a qual punto fosse fondata una tale distin­zione.

Si è, così, sottolineato che, ponendosi per gli interessi moratori in evidenza il momento del “danno” e per quelli corrispettivi il profilo del “van­taggio”, non si farebbe che scindere arbitrariamente le due angolazioni sotto cui il fenomeno unitario dell’interesse può essere guardato[72]: se, la giustificazione dell’interesse è sempre nella sottrazione della disponibilità di capitale a favore di una diversa sfera giuridica, si impone, l’idea di una complementarietà degli aspetti scissi nella corrente rico­struzione, prima accennata, del fenomeno.

La riunificazione è stata operata, da taluno, ricollegando anche l’art. 1282 c. c. all’idea del ritardo, nel senso che gli interessi sarebbero comunque diretti alla tutela della puntualità dei pagamenti pecuniari[73]. Teoria questa che affon­da le sue radici nella tendenza storica a fare nascere, appunto, dalla mora la legittimazione degli interessi, anche quando essa, dalla sua tradizionale accezione di ritardo imputabile[74], sfuma sempre più in un’ogget­tiva carenza di adempimento[75].

Da altri si è preferito, piuttosto, evidenziare la costante funzione compensativa degli interessi, i quali, nell’ipotesi di mora, solo verrebbero “imputati nei danni di cui il debitore deve rispondere”[76].

Ed il risultato dello sforzo di unificazione del fenomeno degli interessi è rappresentato dalla speranza di un’integrazione delle discipline tradizionalmente separate, cercandosi di ricondurre nei limiti più ristretti le relative divergenze[77].

La stessa giurisprudenza, del resto, anche senza giungere ad eliminare ogni distinzione[78], manifesta da tempo un’intolleranza per la troppo rigida categoriz­zazione tradizionale. Sempre più spesso si sottolinea, infatti, che funzioni non diverse caratterizzano ogni specie di interessi[79].

Ad essere progressivamente attenuata è, almeno sul piano funzionale, la stessa distinzione tra gli interessi moratori e quelli corrispettivi, una volta unificatone il regime in taluni dei suoi aspetti di maggior rilievo[80].

E sempre più in crisi è anche la diversifica­zione della categoria degli interessi compensativi, ricondotti anch’essi alla naturale fecondità del denaro[81] e contrapposti, in una con quelli corrispettivi e moratori, agli interessi dovuti sull’indennità risarcitoria conseguente all’ille­cito[82].

La sostanziale unitarietà dell’istituto, sottolineata dalla diffusa cognizione della non cumulabilità dei diversi “tipi” di interessi nonostante il trascorrere dall’una all’altra delle situazioni che ne legittimano la produzione[83], trova, infine, riscontro nel riconoscimento della loro funzione “reintegrati­va”[84].

L’esperienza economica stimola a tale riflessione con la distinzione tra interesse monetario (o nominale) e interesse reale, essendo quest’ultimo nient’al­tro che il primo depurato del tasso d’inflazione. Riconoscendosi, dunque, all’interesse anche (e nei periodi di crisi monetaria soprattutto) la funzione di strumento di compensazione delle perdite subite in termini di potere d’acqui­sto dal capitale, esso viene addirittura inquadrato tra i  “regimi di adattamento dell’obbligazione al deprezzamento della moneta” con la conseguenza, da una parte, dell’indifferenza, di fronte alla prospettata unitaria esigenza di salva­guardia del capitale, per ogni differenziazione tipologica; dall’altra, della neces­sità di evitare l’insidia rappresentata da eventuali duplicazioni di rimedi.

2.1 Interessi legali: la l. 23 dicembre 1996 n. 662

Il saggio degli interessi legali, previsto dall’art. 1284, comma 1, c.c. è stato oggetto di successive modifiche.

Con l’art. 1 della legge 26 novembre 1990, n. 353, il legislatore è intervenuto innalzando il saggio legale dall’originaria misura del 5 % al 10 % in ragione di anno.

La rigidità del sistema di fissazione del saggio degli interessi legali è stata oggetto di critiche non solo in dottrina[85], ma anche in giurisprudenza.

All’indomani della revisione dell’art. 1284 c.c., infatti, la Corte Costituzionale[86] ha affermato che la modifica del saggio legale, operata dalla legge n. 353/1990, comportava il perdurare di un sistema rigido, contrastante con l’odierna tendenza al ribasso dei tassi d’interesse, ed “ha tacciato l’intervento legislativo di inopportunità in un’economia fluida, come quella attuale, caratterizzata da continui mutamenti dei parametri economici e finanziari”.

In risposta alle suddette istanze di riforme, il legislatore è intervenuto con l’art. 2, comma 185 della legge 23 dicembre 1996, n. 662, operando una revisione strutturale della disciplina codicistica del saggio degli interessi.

Il nuovo testo dell’art. 1284, comma 1, c.c., infatti, riporta nuovamente la misura legale degli interessi al 5% su base annua ma, superando il rigido sistema precedente, prevede che la misura sancita dalla norma del codice possa essere modificata annualmente con decreto del Ministro del Tesoro, sulla base del rendimento annuo lordo dei titoli di Stato e dell’andamento del tasso d’inflazione.

2.2 Interessi convenzionali

Entro il limite dell’usurarietà della pattuizione, le parti possono liberamente fissare la misura degli interessi ma, in base al disposto dell’art. 1284, comma 3, c.c., gli interessi superiori alla misura legale devono essere determinati per iscritto[87].

La previsione risponde a chiare esigenze di garanzia poste a tutela del debitore, che essendo in una condizione di debolezza contrattuale, in quanto bisognoso di denaro, si presume essere tendenzialmente disposto ad accettare condizioni economiche particolarmente gravose. La norma, infatti, nel perseguire obiettivi comuni alla maggior parte delle regole impositive di obblighi formali, intende sia richiamare l’attenzione del debitore sulla determinazione convenzionale degli interessi ultralegali, che, al contempo, evidenziarne in modo incontestabile la misura[88].

La forma scritta di cui all’art. 1284, comma 3, c.c. è pacificamente richiesta ad substantiam, per cui il mancato rispetto dell’obbligo comporta nullità della pattuizione, rilevabile d’ufficio dal giudice ed insuscettibile di sanatoria ad opera di successivi atti di convalida o riconoscimento da parte del debitore[89].

Ad ogni modo, la nullità della clausola per difetto di forma non comporta la nullità dell’intera stipulazione contrattuale, ma solo della parte in cui determina un tasso superiore a quello legale, atteso che l’art. 1284, comma 3, c.c. sancisce espressamente (dando luogo ad una nullità necessariamente parziale) che il debitore è tenuto, comunque, al pagamento degli interessi nella misura legale.

La norma, in sostanza, prevede la sostituzione imperativa del tasso d’interesse convenzionale con quello legale, concretando un’ipotesi di nullità parziale[90] che non si estende all’intero contratto ma che, ex artt. 1419 e 1339, c.c., comporta l’inserzione automatica della clausola imposta per legge, in sostituzione di quella difforme apposta dalle parti.

Dottrina e giurisprudenza sono inoltre orientate a ritenere che solo la convenzione scritta apposita sia titolo legittimante alla pretesa del pagamento di interessi ultralegali.

Giurisprudenza risalente ritiene che il pagamento spontaneo di interessi ultralegali non pattuiti per iscritto configuri adempimento di un’obbligazione naturale e determini, di conseguenza, in base alla disciplina di cui all’art. 2034, c.c., l’irripetibilità della somma corrisposta[91].

Strettamente connesso alla tematica in oggetto è il profondo dissenso, registratosi in passato tra la dottrina dominante e la giurisprudenza di legittimità assolutamente prevalente, circa la validità ed efficacia delle così dette clausole ”interessi uso piazza” particolarmente acutizzatosi a seguito dell’entrata in vigore della legge 17 febbraio 1992, n. 154 (recante le norme sulla trasparenza bancaria ).

Ci si è chiesti, in particolare, se rispettino il requisito di forma previsto dall’art. 1284, c.c., quelle clausole inserite di frequente nei contratti bancari, nelle quali la determinazione della misura degli interessi ultralegali dovuti dal cliente non avviene con l’espressa indicazione in cifre del tasso d’interesse pattuito ma solo per relationem, mediante il richiamo alle condizioni praticate usualmente dalle aziende di credito sul mercato.

Secondo la giurisprudenza consolidata della Corte di Cassazione, anteriore all’entrata in vigore della legge n. 154/1992, non era necessario che il tasso convenzionale d’interesse venisse determinato originariamente in misura numerica ma, in coerenza con il principio di cui all’art. 1346, c.c., in base al quale l’oggetto  del contratto può essere determinato o anche solo determinabile, l’obbligo della forma scritta era da ritenersi ugualmente rispettato quando nel documento contrattuale le parte avessero indicato per iscritto criteri oggettivi, certi e di agevole riscontro che consentissero la quantificazione del tasso d’interesse con sufficiente determinatezza, ancorché ciò avvenisse per relationem. La giurisprudenza, inoltre faceva perno sulla normativa dettata dall’art. 1825 c.c. [92], la quale ( pur essendo richiamata dall’art. 1857 c.c. in tema di conti correnti bancari) avrebbe consentito alle parti del contratto di determinare la misura degli interessi rinviando agli usi. Sulla base di tali affermazioni di principio, la giurisprudenza di legittimità concludeva costantemente per la validità delle clausole”interessi uso piazza”[93].

Il suddetto orientamento, tuttavia, spesso contraddetto dalla giurisprudenza di merito, era oggetto di aspra critica da parte della dottrina prevalente, perché ritenuto apertamente in contrasto con il dettato normativo di cui all’art. 1284 c.c.

Ritenendosi ormai genericamente ammissibile la relatio anche nei negozi formali, le censure principali non riguardavano tanto la possibilità di determinare per relationem la misura degli interessi convenzionali, quanto, piuttosto, l’inammissibilità di un generico rinvio agli usi praticati sulla piazza, perché assolutamente indeterminato.

Si sosteneva, in particolare, che al fine di stabilire il grado di sufficiente determinatezza dei criteri di rinvio, si dovesse tenere in debita considerazione la ratio sottesa alla disciplina dell’art. 1284 c.c., facilmente individuabile nell’esigenza di consentire al debitore l’assunzione consapevole di obblighi più gravosi di quelli reputati normali dalla legge nonché nella necessità di fissare in maniera certa ed incontestabile la misura di tali obblighi.

Alla luce di queste considerazioni, la dottrina ha ritenuto che la relatio agli interessi praticati correntemente sulla piazza non potesse ritenersi sufficientemente determinata e, dunque, fosse da considerarsi nulla. Si è osservato, infatti, che i tassi medi rilevati e diffusi dall’A.B.I. (Associazione Bancaria Italiana) non sono vincolanti per gli istituti di credito i quali, anzi, di regola, applicano tassi differenziati, in genere a seconda dell’affidabilità del cliente, che oscillano tra un minimo, definito prime rate, riservato alla clientela di prestigio, ed un massimo, top rate, praticato alla clientela meno affidabile. Il concetto stesso di tasso medio, del resto, per definizione non coincide con il tasso effettivamente applicato dai singoli istituti bancari.

L’art. 4 della legge 17 febbraio 1992, n. 154, successivamente trasfuso nell’art. 117, comma 6 del T.U.B. (Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, approvato con d.lgs. 1 settembre 1993, n. 385) sostanzialmente accoglie tali argomentazioni e stabilisce espressamente che “sono nulle e si considerano non apposte le clausole contrattuali di rinvio agli usi per la determinazione dei tassi di interessi e di ogni altro prezzo o condizioni praticati”, risolvendo in radice il problema[94].

I contrasti emersi in passato tra dottrina e giurisprudenza perdurano in ordine ai soli rapporti sorti anteriormente all’entrata in vigore delle suddette norme e non ancora esauritisi, rispetto ai quali l’applicazione della nuova disciplina deve ritenersi esclusa, stante il disposto di cui all’art. 161, comma 6 del T.U.B., in base al quale “i contratti già conclusi e i procedimenti esecutivi in corso dalla data di entrata in vigore del presente decreto legislativo restano regolati dalle norme anteriori”.

La Corte di Cassazione ha inizialmente confermato il proprio orientamento tradizionale, continuando a sostenere che l’obbligo della forma scritta ad substantiam, imposto dall’art. 1284, comma 3, c.c., è da ritenersi ugualmente rispettato quando nel documento contrattuale le parti indichino criteri certi e oggettivi che consentano la concreta qualificazione del tasso di interesse, ancorché ciò avvenga per relationem, e ritenendo valide, pertanto, le clausole di rinvio alle condizioni usualmente praticate dalle aziende di credito sulla piazza[95].

La dottrina prevalente, invece, ha ribadito le precedenti censure, rilevando in particolare che, potendosi efficacemente contestare la validità di siffatte clausole già sulla base della precedente disciplina, la Corte avrebbe potuto lasciarsi maggiormente influenzare dalle innovazioni legislative contenute nella legge n. 154/1992  e nel T.U.B., le quali, ponendosi all’interno di una serie di interventi volti alla tutela della parte debole del rapporto contrattuale, depongono chiaramente nel senso di una maggiore attenzione dell’ordinamento a tali esigenze[96].

A partire dal 1996[97] il suddetto orientamento giurisprudenziale è stato rivisitato non tanto con riguardo all’affermazione di principio, rimasta sostanzialmente inalterata, circa l’ammissibilità della determinazione per relationem, quanto sul diverso versante della sufficiente determinatezza dei criteri di rinvio.

Il mutato indirizzo ha trovato esplicita giustificazione nell’esigenza di ancorare il giudizio di determinatezza del rinvio a parametri realmente certi che, in relazione alla previsione degli interessi ultralegali, consentano di accertare l’effettiva volontà delle parti.

Nella giurisprudenza di legittimità si è affermato, pertanto, che la clausola di rinvio alla condizioni usualmente praticate dalle aziende di credito sulla piazza può ritenersi valida soltanto in presenza di discipline vincolanti del saggio d’interesse, fissate su scala nazionale con accordi interbancari di cartello, ma non anche quando tali accordi contengano riferimenti a diverse tipologie di tassi o, addirittura, non costituiscano un parametro centralizzato e vincolante[98].

Di recente la validità della clausola interessi uso piazza è stata esclusa, in primo luogo, come già evidenziato in dottrina, perché i c. d. tassi top rate e prime rate, di costante rilevazione e diffusione ad opera dell’A.B.I., non risultano affatto vincolanti per i singoli istituti bancari, i quali, al contrario, scelgono unilateralmente il tasso da applicare di volta in volta, con ampia discrezionalità, in base ad un giudizio sulla solvibilità del cliente; ma soprattutto si è esclusa la validità di siffatte clausole sul rilievo che da molto tempo, ormai, mancano accordi di cartello interbancari, anche a causa delle restrizioni rivenienti dalla legislazione antitrust[99].

È opportuno infine ricordare che l’art. 118 del T.U.B. ha previsto un eccezionale jus variandi degli istituti di credito in merito a tassi, prezzi ed altre condizioni in senso sfavorevole alla clientela, dietro specifiche condizioni e fermo il diritto del cliente di recedere dal contratto senza penalità e con le condizioni del vecchio (precedente) contratto. In materia di interessi convenzionali si inserisce anche la tematica degli interessi usurari.

2.3 Interessi corrispettivi

L’art. 1282 c.c.[100] stabilisce che i crediti pecuniari liquidi (ossia determinati nel loro ammontare) ed esigibili (cioè non sottoposti né a termine né a condizione e, pertanto, soggetti ad immediato adempimento) producono interessi di pieno diritto[101].

La funzione remuneratoria va valutata, dal lato del creditore, come compenso per la temporanea privazione del godimento di una somma di denaro e la conseguente impossibilità di trarre, da quella somma, le presumibili utilità derivanti dai suoi possibili impieghi; dal lato del debitore, invece, va intesa come corrispettivo per la disponibilità di un capitale altrui e la relativa possibilità di trarne vantaggio[102].

La misura di tale corrispettivo è fissata forfettariamente dal legislatore, ex art. 1284 c.c. nel saggio legale di interesse.

La produzione di interessi di “pieno diritto” sta ad indicare che essi decorrono automaticamente dal preciso momento in cui il credito è divenuto liquido ed esigibile, senza che sia necessaria alcuna indagine sulla colpevolezza del ritardo e senza che occorra, da parte del creditore, alcun atto di messa in mora.

Diventa particolarmente significativa, in tal senso, l’affermazione giurisprudenziale secondo cui per “frutti civili debbono intendersi gli interessi, convenzionali o legali con funzione corrispettiva, dovuti cioè indipendentemente dalla mora, in base al principio generale secondo cui l’utilizzazione di un capitale o di una cosa fruttifera obbliga l’utente al pagamento di una cosa dello stesso genere, proporzionata al godimento ricavato; sono quindi esclusi dal novero dei frutti civili gli interessi moratori, i quali non rappresentano l’indennità per il godimento di una cosa altrui, ma adempiono alla funzione di indennizzo forfettario dei danni causati dal ritardo nell’adempimento dell’obbligazione”[103].

L’art. 1282 c.c. va combinato con l’art. 1219 c.c. in base al quale il debitore è in mora per il solo fatto della scadenza del termine sui casi in cui il pagamento debba effettuarsi presso il domicilio del debitore[104].

Occorre specificare che, in relazione al credito vantato nei confronti della pubblica amministrazione, la liquidità e l’esigibilità necessarie perché decorrano gli interessi corrispettivi sono correlate alle peculiari modalità di accertamento dell’obbligazione. La normativa in materia di contabilità dello Stato, infatti, prevede che tutte le spese sostenute dalla P.A. debbano passare attraverso una complessa procedura, che si compone di stadi successivi: l’impegno, la liquidazione, l’ordinazione e il pagamento. In giurisprudenza, di conseguenza, si afferma che, quando ai fini della decorrenza degli interessi sia necessario stabilire il momento in cui il credito pecuniario verso un’amministrazione statale è divenuto liquido ed esigibile, l’accertamento di tale duplice requisito non può prescindere dal presupposto formale dell’emissione del titolo di spesa, che condiziona e realizza il requisito suddetto[105].

2.4 Interessi moratori

La giurisprudenza ha chiarito che il principale tratto distintivo fra interessi corrispettivi e moratori sta proprio nella circostanza che mentre per i primi si prescinde sia dalla colpa del debitore nel ritardo del pagamento che dalla sua costituzione in mora, colpa e mora debendi sono entrambe necessarie per la decorrenza degli interessi moratori, stante la loro principale funzione risarcitoria.

Gli interessi moratori costituiscono una liquidazione forfetaria minima del danno da ritardo nelle obbligazioni pecuniarie[106]. In base alla disciplina dettata dall’art. 1224 c.c., infatti, quando il debitore di una somma di denaro è in mora deve corrispondere al creditore, a titolo di risarcimento del danno, interessi in misura legale, anche se non dovuti precedentemente e senza bisogno che il creditore dimostri di aver sofferto un danno. Se, invece, prima della mora erano già dovuti gli interessi convenzionali in misura superiore a quella legale, gli interessi moratori sono dovuti nella stessa misura. Ove, infine, le parti abbiano espressamente pattuito una specifica previsione al riguardo, gli interessi moratori sono dovuti nella misura convenzionalmente fissata[107].

Peraltro, l’atto formale di costituzione in mora del debitore che sia in ritardo non è necessario tutte le volte in cui si versi nelle ipotesi di mora ex re previste dall’art. 1219 c.c., con conseguente automatica produzione degli interessi moratori.

Nei casi di mora ex persona, invece, la scadenza del termine di pagamento rende il debito pecuniario esigibile e, pertanto, automaticamente produttivo di interessi corrispettivi nella misura legale, ex artt. 1282 e 1284, c.c.

Gli interessi corrispettivi si trasformano in interessi moratori, solo dal momento della successiva eventuale costituzione in mora[108].

Alla tipica funzione risarcitoria assolta dagli interessi moratori, taluno ritiene di affiancare una funzione in parte sanzionatoria, evidenziando l’esigenza di punire l’illecito comportamento tenuto dal debitore il quale, anche dopo la formale costituzione in mora, persiste nell’inadempimento.

Sotto un profilo pratico, in base alla disciplina degli artt. 1224 e 1282 c. c, gli interessi corrispettivi e quelli moratori hanno la stessa consistenza: la differenza tra le due categorie sta semplicemente nel fatto che mentre gli interessi corrispettivi soddisfano integralmente le ragioni del creditore, senza che questi possa pretendere nulla più di quanto preventivamente stabilito dalla legge o in via convenzionale, gli interessi moratori, invece, consistono solo in una liquidazione forfettaria del danno da ritardo, ma non corrispondono necessariamente all’integrale ristoro.

L’obbligo di corrispondere interessi moratori, quindi, è frutto di una valutazione legale tipica circa l’an ed il quantum di danno conseguente al colpevole ritardo del debitore, ferma restando la possibilità di ottenere un eventuale ulteriore risarcimento, fornendo prova di aver subito un maggior danno ai sensi dell’art. 1224, comma 2 c.c.

La pattuizione di interessi moratori, secondo alcuni ammessa solo in senso di aggravamento della misura legale, dà luogo ad una clausola penale ai sensi dell’art. 1382, c.c. Ne deriva la sottoposizione al potere del giudice di riduzione in caso di misura eccessiva.

Nel caso inverso, invece, di misura ridotta o irrisoria, la pattuizione funge da clausola limitativa della responsabilità, sottoposta al controllo formale di cui all’art. 1341, comma 2, c.c. e, nei rapporti tra professionisti e consumatori, al controllo di abusività ex artt. 1469-bis e ss., c.c.

La giurisprudenza prevalente reputa, poi, che l’autonomia delle parti possa prevedere la stipulazione di clausole (purché in tal senso espresse) di fissazione del solo maggior danno di cui al comma 2 dell’art. 1224, da affiancare alla misura forfetaria di cui al comma 1[109].

Occorre, inoltre, soggiungere che la recente giurisprudenza della Cassazione si è orientata nel senso della sottoposizione  anche delle clausole che fissano detti interessi moratori alla disciplina dell’anatocismo.

Va precisato però che con una recente pronuncia le Sezioni Unite sono intervenute nuovamente in materia dettando principi destinati ad avere una notevole influenza nell’applicazione quotidiana dell’art. 1224 c.c. da parte dei giudici di merito[110] . La fondamentale novità introdotta dalle Sezioni Unite è rappresentata dal definitivo superamento delle differenze tra le diverse categorie di creditori. Dopo un’attenta ricostruzione storica dell’evoluzione giurisprudenziale sull’art. 1224 c.c. la Cassazione arriva ad affermare che “nel caso di ritardato adempimento di una obbligazione di valuta, il maggior danno di cui all’art. 1224, secondo comma, c.c. può ritenersi esistente in via presuntiva in tutti i casi in cui, durante la mora, il saggio medio di rendimento netto dei titoli di Stato con scadenza non superiore a dodici mesi sia stato superiore al saggio degli interessi legali”. Ricorrendo tale ipotesi, il risarcimento del maggior danno spetta a qualunque creditore, quale che ne sia la qualità soggettiva o l’attività svolta .

In sostanza la Cassazione ha analizzato il tasso di rendimento lordo dei titoli di Stato di durata non superiore ai dodici mesi dal 1991 al 2008, ritenendola la più comune forma di investimento, confrontandola con i valori del tasso legale d’interesse nel medesimo periodo. Dal confronto è emerso che il rendimento dei titoli di Stato è sempre stato più elevato del tasso degli interessi legali, fatta eccezione per l’anno 1994.

Partendo da questa premessa, basata più sulla comune esperienza che su rigorosi ragionamenti giuridici, la Cassazione ha constatato che la più comune e prudente forma di investimento del denaro ha una redditività superiore al tasso dell’interesse legale, con la conseguenza che, per il debitore di un’obbligazione pecuniaria, in linea di massima continua a poter essere economicamente conveniente non adempiere tempestivamente, così lucrando la differenza tra quello che è agevolmente in grado di ricavare dal denaro non versato al creditore durante la mora debendi e quello che dovrà al creditore quando adempirà la propria obbligazione[111].Dunque, grazie alla pronuncia in esame, qualsiasi creditore, anche il creditore imprenditore, al pari di ogni altro creditore ed indipendentemente da qualsivoglia allegazione e prova, avrà titolo a pretendere il maggior danno corrispondente alla differenza tra il tasso di rendimento netto (dedotta l’imposta) dei titoli di Stato di durata non superiore ai dodici mesi (o tra il tasso di inflazione se superiore) e quello degli interessi legali (se inferiore). Trattandosi di mera presunzione sarà comunque fatta salva la prova contraria da offrirsi dal parte del debitore. Ove invece il creditore imprenditore lamenti un danno superiore a quei livelli e ne domandi il risarcimento, avrà l’onere di provare l’esistenza e l’ammontare di tale pregiudizio, anche per via presuntiva; ad esempio avrà l’onere di dimostrare o di avere fatto ricorso al credito bancario sostenendone i relativi interessi passivi; ovvero attraverso la produzione dei bilanci quale fosse la produttività della propria impresa, per le somme in essa investite[112].

Se invece sia domandato un risarcimento del danno correlato all’utilità marginale netta dell’impresa durante la mora, perché il maggior danno possa essere rapportato ai mancati utili sarà necessario che il creditore imprenditore produca il bilancio contenente il conto economico (se tenuto a redigerlo) ovvero altre idonee scritture contabili; e sempre che, in relazione all’importo dovutogli e con riguardo al tipo ed al rilievo economico dell’attività stessa, sia effettivamente presumibile che la somma di cui era creditore sarebbe stata impiegata nell’impresa con il medesimo risultato utile.

In tali ipotesi il debitore avrà invece l’onere di dimostrare, anche attraverso presunzioni semplici, che il creditore, in caso di tempestivo adempimento, non avrebbe potuto impiegare il denaro dovutogli in forme di investimento che gli avrebbero garantito un rendimento superiore al saggio legale. In definitiva si può dire con relativa certezza che finalmente, con la pronuncia in esame, sono stati posti alcuni cardini che potranno in futuro semplificare la definizione di un gran numero di giudizi.

Tornando alla categorizzazione degli interessi, va detto che gli interessi moratori hanno dunque natura risarcitoria: essi costituiscono una liquidazione forfettaria minima del danno da ritardo nelle obbligazioni pecuniarie La funzione risarcitoria degli interessi moratori è attestata fondamentalmente dal presupposto della mora, che è il ritardo imputabile.

Essa trova poi conferma nella disciplina normativa, che prevede tali interessi nel tema del risarcimento del danno per l’inadempimento (art. 1224 Codice civile).

Gli interessi moratori vanno tenuti distinti rispetto agli interessi compensativi, aventi funzione remunerativa.

Tali sono gli interessi che rappresentano un compenso percentuale periodico dovuto in cambio del vantaggio della responsabilità di una somma di denaro spettante al creditore.

Gli interessi moratori e gli interessi compensativi rientrano, comunque, nella nozione generale di interessi e sono soggetti a regole comuni per quanto attiene al tasso legale, alla forma delle deroghe negoziali, all’anatocismo.

La distinzione tra interessi corrispettivi e compensativi consiste dunque nel diverso rilievo che nelle due ipotesi ha la liquidità ed esigibilità del credito: gli interessi compensativi sono infatti dovuti a prescindere dalla liquidità ed esigibilità del credito, a condizione che di questi sia comunque provata la certezza e la definitività.

La distinzione tra interessi corrispettivi e compensativi da un lato e quelli moratori dall’altro, rileva dunque sotto due profili: quello della colpa e quello degli effetti. Gli interessi corrispettivi e compensativi sono dovuti anche se il debitore non è in mora, e quindi in colpa[113] essendo sufficiente la sola condizione che il credito sia liquido ed esigibile.

Gli interessi moratori presuppongono invece, la mora debendi e quindi la colpa del debitore (la quale peraltro, in materia contrattuale si presume ex art. 1218 c.c.).

Così, se l’obbligazione sia soggetta a termine, e vada adempiuta al domicilio del debitore, quest’ultimo dovrà gli interessi corrispettivi a far data dalla scadenza, ma non sarà tenuto al pagamento degli interessi moratori, se non quando, presentandosi il creditore a richiedere l’adempimento, l’abbia rifiutato.

In molti casi, comunque, questa differenza tra interessi corrispettivi e moratori finisce per svanire.

Così se il credito è sottoposto a termine di adempimento, la scadenza di questo comporta nel contempo l’esigibilità del credito (presupposto per la decorrenza degli interessi corrispettivi) e la mora del debitore (presupposto per la decorrenza degli interessi corrispettivi).

Per tale ragione si è ritenuto che gli interessi corrispettivi di cui all’art. 1282 c.. c costituiscono una circonferenza di diametro maggiore rispetto agli interessi moratori di cui all’art. 1224 c.c.

Per quanto attiene agli effetti, soltanto gli interessi moratori possono essere pretesi in misura superiore al saggio legale, se il creditore dimostra di aver patito un maggior danno (art. 1224, co. 2 c.c).

Gli interessi corrispettivi, invece, esauriscono il ristoro della perduta disponibilità del capitale, senza che il creditore possa pretendere somme ulteriori. Va precisato peraltro che gli interessi corrispettivi e quelli moratori non sono due obbligazioni che possono tra loro cumularsi. Interessi corrispettivi e moratori sono dunque  alternativi tra loro nel senso che o il debitore è in mora, ed allora saranno dovuti gli interessi moratori, ovvero il debitore non è in mora, pur essendo il credito esigibile, ed allora saranno dovuti gli interessi corrispettivi.

  1. Funzione risarcitoria degli interessi moratori

Gl’interessi moratori di cui all’art. 1224, 1° co., c.c. integrano, dunque, un’obbligazione pecuniaria accessoria di carattere risarcitorio, fondata su una presunzione legale assoluta di danno da ritardo, che si sostanzia in un risarcimento monetario in misura fissa (tasso d’interesse moratorio); obbligazione che, proprio per questo motivo (risarcimento pecuniario in misura fissa del danno legalmente presunto), resta assoggettata al principio nominalistico.

Ai sensi dell’art. 1224, 1° co., c.c., nelle obbligazioni aventi ad oggetto una somma di denaro, su detta somma nominale oggetto del credito di valuta (comprensiva degli interessi corrispettivi, ove previsti) sono dovuti gl’interessi moratori al tasso legale, dal giorno della mora a quello dell’effettivo soddisfo, con esclusione dell’anatocismo (sempre che non ricorrano le condizioni di cui all’art. 1283 c.c.: sull’anatocismo).

Questi interessi moratori ex art. 1224, 1° co. c.c. integrano un’obbligazione pecuniaria accessoria di carattere risarcitorio, basata su una presunzione assoluta di danno, nel senso che il debitore non può fornirne l’eventuale prova contraria (né quanto alla sussistenza, né quanto all’ammontare del danno rispetto alla sua quantificazione legale in misura fissa)[114].

Sempre ai sensi dell’art. 1224, 1° co., c.c., se prima della mora erano invece dovuti interessi (corrispettivi) in misura superiore al tasso legale, gli interessi moratori saranno dovuti in pari misura.

L’art. 1224, 2° co., c.c. prevede poi un risarcimento ulteriore in favore del creditore che dimostri di avere subìto un danno maggiore, rispetto a quello legalmente presunto e rapportato agli interessi moratori al tasso d’interesse legale (o eventualmente convenzionale) dall’art. 1224, 1° co., c.c. Quella di cui all’art. 1224, 2° co., c.c. è un’obbligazione risarcitoria aggiuntiva nascente dalla “mora debendi”, avente natura (similmente a quanto avviene in materia extracontrattuale) di obbligazione di valore, ma con le particolarità differenti[115].

Il risarcimento resta invece circoscritto ai soli interessi moratori, se di

detti interessi (moratori) le parti avevano specificamente convenuto la misura (art. 1224, 2° co., ultima parte c.c. -detta misura può essere maggiore rispetto a quella legale, ma in ipotesi anche pari o minore-): e questo è logico, perché, in tal caso, esse avevano già stabilito di liquidare e limitare il danno da ritardo preventivamente e forfettariamente, secondo il meccanismo tipico della clausola penale (artt. 1382-1383 c.c.).

Gl’interessi moratori eventualmente pattuiti nella convenzione di cui

all’art. 1224, 2° co., (ultima parte) c.c. non vanno però confusi con gl’interessi ultralegali eventualmente dovuti (in forza di apposita convenzione, o di capitolato cui il contratto faccia eventualmente rinvio -fermo il vincolo di forma di cui all’art. 1284, ult. co., c.c.-, o della stessa legge) ai sensi dell’art. 1224, 1° co., ultima parte, c.c., dato che questi ultimi sono quelli dovuti già “prima della mora”e dunque non hanno carattere moratorio.

Ne discende che, in caso di pattuizione d’interessi ultralegali (non a titolo di misura degl’interessi moratori ex art. 1224, 2° co., ultima parte cc, bensì) a titolo d’interessi corrispettivi o compensativi, benché in caso di mora gl’interessi moratori siano dovuti nella stessa misura ex art. 1224, 1° co., ultima parte cc, non resta escluso il risarcimento dell’eventuale maggior danno alle condizioni di cui all’art. 1224, 2° co., prima parte c.c.

  1. Interessi moratori automatici e interessi decorrenti su domanda del creditore

Il fatto che un certo debito pecuniario sia produttivo di interessi non ci dice ancora come venga determinato il quantum che il creditore può esigere appunto a titolo di interessi.

A tal fine è necessario tener conto del tempo trascorso dal sorgere dell’obbliga­zione, nonché del tasso degli interessi.

Per ciò che riguarda il computo del tempo si deve applicare la norma relativa all’acquisto dei frutti civili, in base alla quale questi “si acquistano giorno per giorno, in ragione della durata del diritto”; norma che non offre particolari difficoltà di applicazione[116]. In dottrina si ammette la derogabilità dell’art. 821, dal momento che la previsione di un sistema di maturazione degli interessi di­verso da quello legale non sembra ledere alcun interesse meritevole di tutela[117]. Bisogna però tener presente che, di norma, la deroga all’art. 821 consi­sterà non nella previsione di un’unità di tempo, per il computo degli interessi, diversa dal giorno, bensì nel patto di corresponsione anticipata degli in­teressi; anche questo patto, purché non usurario, può considerarsi valido: non sembra tuttavia che esso im­plichi, salvo patto contrario, una deroga al principio della maturazione progressiva degli interessi (sicché ad esempio, nel caso in cui per una qualsiasi ragione il debito principale venga a scadenza in un momento antecedente a quello convenuto, saranno ripetibili gli interessi già pagati ma non ancora maturati).

Nel caso in cui le parti (o la legge) preve­dano un tasso di x per cento in ragione dell’anno, e una forma di pagamento degli interessi a rate seme­strali o trimestrali, a rigore, in applicazione dell’art. 821 c.c., la somma dovuta per ciascuna rata dovrebbe calcolarsi moltiplicando la frazione giornaliera di inte­ressi dovuti per il numero di giorni effettivamente compreso nel trimestre o semestre considerato; in pratica però è chiaro che le parti (o la legge), preve­dendo il pagamento trimestrale o semestrale degli interessi, hanno inteso stabilire che la quantità di interessi dovuti, calcolata in base al tasso annuale, debba essere divisa in due o quattro parti uguali, che scadono in date diverse. In pratica, fra l’altro, è normale che le singole rate siano di uguale ammontare, e contengano una quota di capitale e una di interessi (dovendosi allora fare rinvio a calcoli di matematica finanziaria per stabilire la quota imputata ad interessi e quella im­putata a capitale nell’ambito delle singole rate).

  1. Gli interessi sulla somma liquidata. Il problema del cumulo di rivalutazione e interessi

Nelle obbligazioni di valore non tempestivamente adempiute vanno invece calcolati, dal giorno della mora a quello dell’effettivo soddisfo, sia la rivalutazione monetaria (Istat) che gli interessi[118].

La rivalutazione monetaria è qui finalizzata all’automatico aggiornamento del danno emergente, danno correlato alla progressiva perdita del potere di acquisto della moneta non immediatamente corrisposta al fine della reintegrazione per equivalente del valore del bene perduto o danneggiato (e, così, della completa reintegrazione del patrimonio del creditore); l’espressione monetaria del bene al momento del fatto deve essere insomma automaticamente aggiornata fino al momento della liquidazione. La funzione svolta dalla rivalutazione monetaria nelle obbligazioni di valore è, dunque, del tutto diversa da quella correlata al “maggior danno” di cui all’art. 1224, 2° co. c.c. per le obbligazioni di valuta; e, del resto, quanto alle obbligazioni di valore scaturenti da illecito aquiliano, l’art. 1224 (2° co.) cc non è neppure richiamato dall’art. 2056 c.c.

Gli interessi, invece, hanno natura prossima anche se non identica a quella degli interessi compensativi (art. 1499 cc: non identica, perché  nel danno extracontrattuale, ad esempio, il bene può andare anche distrutto sicché i suoi proventi possono non entrare affatto nel patrimonio del debitore/danneggiante), sotto l’aspetto del tardivo conseguimento della disponibilità della somma di denaro dovuta rispetto al sorgere del credito.

Nelle obbligazioni di valore, gli interessi costituiscono infatti un criterio equamente adottabile ed equamente apprezzabile al fine di compensare il lucro cessante e cioè quel danno da ritardo derivante dal mancato godimento (tra il tempo in cui è sorto il credito ed il momento in cui lo stesso viene soddisfatto) delle utilità che avrebbe potuto dare il controvalore monetario del bene (distrutto o leso), se fosse stato immediatamente corrisposto (salva l’eventuale specifica prova da parte del creditore di un maggior danno da ritardo rispetto alla misura di questi interessi equamente concedibili, al di là della rivalutazione monetaria comunque spettante).

Nelle obbligazioni di valore da fatto illecito, in altri termini, al sorgere della mora (“ex re” e dunque dal momento dell’illecito) non è applicabile l’art. 1224, 1° co. c.c. (in quanto non richiamato dall’art. 2056 cc) e dunque dalla mora non scaturisce il diritto agli interessi legali moratori, ma il dovere del debitore di risarcire al creditore il danno derivante dal ritardo con cui questi ottiene la disponibilità dell’equivalente pecuniario del bene distrutto (o leso), danno che però non è legalmente presunto (come lo è invece per l’art. 1224, 1° co. cc), ma va apprezzato ai sensi dell’art. 2056 (e 1226) cc e perciò anche facendo riferimento a criteri equitativi qual’è quello degli interessi, ad un tasso che (proprio in virtù del criterio di equità) non deve necessariamente essere quello legale.

Vero è che, si erano avuti vari contrasti in giurisprudenza relativamente ai criteri di computo della rivalutazione e degl’interessi nelle obbligazioni di valore.

Una parte della giurisprudenza[119] sosteneva che gli interessi legali dovessero computarsi sul capitale interamente rivalutato; in tal modo, però, il creditore riceveva più del danno subìto, perché  il lucro cessante da mancata disponibilità del controvalore monetario del bene veniva ad essere rapportato non al valore iniziale di questo bene (o magari al valore iniziale rivalutato con cadenze periodiche corrispondenti alla sua progressiva rivalutazione), ma al valore finale del bene medesimo.

Altra parte della giurisprudenza, perciò, affermava che gli interessi legali dovessero computarsi sul valore originario del bene, rivalutato anno per anno[120].

A dirimere questo contrasto è poi intervenuta, con riferimento alle obbligazioni di valore derivanti da illecito aquiliano, la Cassazione a sezioni unite con la sentenza n. 1712 del 17/2/95, che ha sostanzialmente aderito al secondo indirizzo. I princìpi dettati dalla citata Cass., n. 1712/95 sono poi stati costantemente tenuti fermi anche dalla successiva uniforme giurisprudenza della Suprema Corte[121].

Ebbene, alla luce del suddetto indirizzo giurisprudenziale, si evidenzia quanto segue.

La rivalutazione va calcolata sulla somma-base in unica soluzione, dal

momento della mora (in materia d’illecito aquiliano, vi è mora “ex re” ex art. 1219, 2° co., n. 1 c.c.) fino al momento del saldo.

Gli interessi vanno invece calcolati, sempre a partire dal momento della mora e fino al saldo, sulla somma-base equitativamente rivalutata (a questo solo effetto) periodicamente: periodicità questa da fissarsi tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto (magari anno per anno, o in base ad indici medi di rivalutazione), ma escluso l’anatocismo (non ricorrendo le condizioni di cui all’art. 1283 c.c. ed anzi non essendo estensibile la disciplina degli interessi anatocistici ex art. 1283 c.c. ai debiti di valore, quale ad esempio quello derivante da responsabilità risarcitoria relativamente agli interessi medesimi).

I quali ultimi, comunque, non debbono liquidarsi necessariamente al tasso legale, posto che nelle obbligazioni di valore essi costituiscono solo un mero criterio equamente adottabile ed equamente apprezzabile al fine di compensare il lucro cessante, sicché detto equo apprezzamento è svincolato dal parametro del loro tasso legalmente predeterminato; gli interessi dovranno essere dunque computati ad un tasso equitativamente correlato al presumibile normale rendimento del denaro per il danneggiato nel periodo preso in considerazione, valutate tutte le circostanze obiettive e soggettive del caso concreto (sicché ben potranno essere determinati in misura inferiore al tasso legale) e salva, l’eventuale specifica prova da parte del creditore di un maggior danno (al di là della rivalutazione monetaria, comunque spettante “ex se” nelle obbligazioni di valore), sotto l’aspetto di lucro cessante cui si correla questo tipo d’interessi.

Addizionando alla somma-base la rivalutazione e gli interessi, si ottiene così la somma complessiva finale, che il debitore dovrà corrispondere al creditore.

Ove tale liquidazione sia contenuta in sentenza, il credito relativo a detta somma complessiva finale si converte in credito di valuta, sicché sulla stessa andranno infine computati gli ulteriori interessi al tasso legale dalla sentenza fino all’effettivo soddisfo.

CAPITOLO TERZO

PROBLEMATICHE ATTINENTI ALL’APPLICAZIONE DEL TASSO D’INTERESSE: ANATOCISMO

  1. La determinazione del tasso d’interesse

La giurisprudenza si è dedicata alle clausole contenute nei contratti bancari e più nello specifico la determinazione dei tassi degli interessi passivi a carico del cliente.

Prima dell’entrata in vigore della c.d. legge sulla trasparenza bancaria (l. 17 febbraio 1992, n. 154), la giurisprudenza e la dottrina[122] avevano lungamente discusso sulla validità della c.d. clausola “uso su piazza” che, essendo contenuta nelle condizioni generali di contratto (le c.d. norme bancarie uniformi) che regolavano il conto corrente di corrispondenza, prevedeva che gli interessi passivi per il correntista venivano determinati “alle condizioni usualmente praticate dalle aziende di credito sulla piazza”.

Va sottolineato che a norma dell’art. 1284 c.c., la pattuizione degli interessi ultralegali deve risultare per iscritto[123].

La dottrina si è interrogata sulla rispondenza di tale clausola non solo formalmente ma anche e soprattutto sostanzialmente al precetto normativo. Un altro aspetto che va preso in esame riguarda la verifica se la determinazione degli interessi demandata agli usi di una piazza bancaria consentisse di ritenere determinato o determinabile il relativo oggetto contrattuale ai sensi dell’art. 1346 c.c.

La giurisprudenza maggioritaria[124] era orientata sulla validità della clausola in base alla sussistenza di elementi, pur estranei al contratto, che potessero in ogni caso costituire criteri certi ed obiettivi di riferimento per le parti ai sensi dell’art. 1346 c.c. e che potessero al contempo soddisfare la richiesta di forma scritta di cui all’art. 1284 c.c. Quindi, la validità di questa clausola era vincolata alla ricerca di quali elementi fossero in grado di creare criteri certi ed obiettivi di determinatezza o determinabilità.

I criteri venivano individuati di volta in volta dagli accordi di cartello[125], dagli usi bancari[126] e dal saggio ufficiale di sconto[127], che secondo la giurisprudenza costituivano la fonte eterocontrattuale che, attraverso il ricorso alla relatio[128], perfezionava il contenuto della clausola conferendole la peculiarità della determinabilità[129].

Il lavoro della giurisprudenza si è concentrato nell’individuazione di un criterio che potesse contemperare gli interessi sia del soggetto contrattualmente debole sia gli interessi della banca. Se da un lato, infatti, l’interpretazione rigidamente formalistica dell’art. 1284 c.c. rischiava di scontrarsi con la necessità di immediatezza e speditezza caratteristica dell’attività bancaria[130], dall’altro la forza contrattuale della banca trasformava la clausola di determinazione degli interessi in un atto unilaterale al quale il cliente era soggetto e contro il quale aveva scarse difese tenuto conto della difficoltà di conoscere la variazione di tali tassi.

La giurisprudenza di legittimità, come quella di merito, aveva quindi individuato nella determinazione per relationem, una modalità pratica per adempiere al dettato normativo degli artt. 1284 e 1346 c.c.

La giurisprudenza più recente, cambiando indirizzo, sosteneva invalide le clausole che rimandassero agli usi su piazza in quanto l’espressione “uso su piazza” generava equivoci sia perché sulla medesima “piazza” venivano applicati dalle diverse banche distinti tassi passivi sia perché la continua variazione degli stessi non ne consentirebbe al cliente la precisa individuazione, perciò non sarebbe possibile distinguere uno specifico patto come richiesto dall’art. 1284 c.c.[131].

L’ammissibilità di tali clausole[132] deve essere analizzata alla luce sia della legge sulla trasparenza (l. 17 febbraio 1992, n. 154, art. 4, 3 co., cit.) sia del testo unico in materia bancaria (D.Lgs. 1° settembre 1993, n. 385, art. 117, 6 co.) che hanno previsto la nullità delle clausole di rinvio agli usi[133].

Anche per la clausola di determinazione degli interessi, come per la clausola omnibus presente nei contratti fideiussori, il legislatore è intervenuto con una disciplina più attenta alla tutela del cliente.

Va sottolineato infatti che l’attività di intermediazione creditizia, che ha ad oggetto la raccolta di risparmio tra il pubblico (e l’erogazione del credito), è soggetta alla riserva di attività in favore delle banche proprio perchè è rivolta ad una pluralità indistinta di soggetti bisognosi di tutela.

Sotto un altro profilo, peraltro, l’esigenza di tutela della parte debole non deve arrivare fino all’esonero completo da parte di quest’ultima di ogni dovere di controllo e di autodeterminazione nei confronti della banca.

Ovvero non si deve ritenere la parte debole inevitabilmente priva di quegli strumenti minimi di autotutela che in una società moderna non possono non costituire patrimonio comune.

  1. Interessi ultralegali e ius variandi della Banca dopo il c.d. Decreto sulla competitività

Nei rapporti bancari ed in particolare nei conti correnti, l’autonomia contrattuale, anche se liberamente esercitabile, incontra un ostacolo insormontabile nella tutela del privato correntista che, essendo equiparato al contraente più debole, riceve la stessa attenzione riservata dalla legge al generico consumatore.

Nel rispetto del principio generale stabilito dall’art. 1322 c.c., le parti possono decidere liberamente quasi tutte le condizioni “variabili” del contratto come, ad es., i tassi di interesse[134], la commissione di massimo scoperto, le spese di chiusura e di tenuta del conto, le modalità di computo delle valute, ecc.

Queste clausole particolarmente vessatorie possono essere approvate solamente per iscritto con la duplice sottoscrizione.

Un apposito richiamo normativo ed una specifica attenzione giurisprudenziale va prestata, proprio per la sua particolare onerosità, al c.d. ius variandi che rappresenta la facoltà di variare in senso sfavorevole al cliente il tasso d’interesse e ogni altro prezzo e condizione del rapporto.

Da questo punto di vista, la giurisprudenza ha più volte tentato di collocare degli ulteriori paletti per rinforzare la già abbastanza rigorosa comminatoria di nullità ed inefficacia prevista dagli artt. 117 e 118 TUB.

La pronuncia più significativa è quella del Tribunale di Lecco del 9 settembre 2002[135] che ha statuito che la clausola di un contratto di conto corrente che preveda a favore dell’azienda di credito “la facoltà di modificare i tassi e le condizioni economiche applicati al rapporto”[136], senza però indicare i presupposti per l’esercizio di tale potere di modifica, né i criteri di determinabilità del nuovo tasso di interesse, deve ritenersi nulla per contrarietà alle previsioni generali concernenti la necessaria determinabilità dell’oggetto del contratto e la necessaria pattuizione per iscritto della misura dell’interesse nell’ambito dei contratti bancari.

Le norme dettate dagli artt. 1831, 1823 e 1825 c.c. in materia, rispettivamente, di conto corrente ordinario che prevedono il potere delle parti di stabilire le scadenze di chiusura e liquidazione del saldo, di possibilità di considerare nuova rimessa di un nuovo conto il saldo di cui non sia stato richiesto il pagamento alla chiusura conto e di decorrenza sulle rimesse degli interessi nella misura stabilita dal contratto, non possono essere applicabili alle operazioni in conto corrente bancario sia per il mancato riferimento dell’art. 1857 c.c. alle disposizioni richiamate, sia per le differenze sostanziali del meccanismo contabile utilizzato nelle due fattispecie, in quanto, mentre nel conto corrente ordinario è prevista l’inesigibilità ed indisponibilità delle somme a saldo fino alla chiusura del conto, nel conto corrente bancario è prevista la possibilità per il correntista di esigere in ogni momento il saldo attivo o disporne indirettamente.

La capitalizzazione degli interessi, inoltre, non sarebbe configurabile sui conti correnti bancari c.d. mossi[137], perché fondati sull’assunto che in virtù del principio di imputazione del pagamento prima agli interessi e poi al capitale espresso dall’art. 1194 c.c., al termine del periodo non sussisterebbero interessi da capitalizzare.

Questa ipotesi non è sostenibile, in quanto nell’ambito del rapporto di conto corrente bancario le operazioni di prelievo e versamento non generano autonomi rapporti di credito o debito reciproci tra il cliente e la banca, ma rappresentano l’esecuzione di un unico negozio da cui deriva il credito ed il debito della banca verso il cliente, con la conseguenza che, nel corso dello svolgimento del rapporto, non è possibile definire un credito preesistente (liquido ed esigibile) della banca a fronte del quale il pagamento da parte del cliente vada attribuito in conto interessi, ma, anzi, l’annotazione sul conto equivale a pagamento, estinguendo a seconda dei casi, tanto l’eventuale debito della banca, quanto quello del cliente[138].

Su questo indirizzo di restrizione è conforme il Trib. Cagliari 26 agosto 2002[139] che fa ricadere l’ammissibilità dello “ius variandi” non solo sulla certezza di un invio degli estratti conto ma anche sul fatto che gli stessi includano in modo chiaro e intelligibile tutte le condizioni economiche per ogni operazione ed annotazione fatta nel periodo di riferimento, fatto salvo naturalmente sempre il presupposto di un consenso anticipato del cliente che va de plano.

Viceversa, meno rigorose, potrebbero sembrare alcune decisioni che escludono, ai sensi del combinato disposto degli artt. 4 e 6 della l. n. 154 del 1992 e 118 del D.Lgs. n. 385 del 1993, nell’ipotesi di variazioni delle condizioni contrattuali in senso sfavorevole per il cliente, l’obbligo di informazione al cliente nel caso di variazione determinata da fattori di carattere oggettivo e natura aleatoria, pure previsti nel contratto.

In questo caso non si può parlare di modifica unilaterale del contratto, in quanto il cliente, in ogni caso, si è già preventivamente assunto il relativo rischio[140], ovvero di variazione del tasso derivante dalla variazione e di conseguenza non dipendente dalla volontà della banca. Il parametro di riferimento, perciò, non può dirsi una manifestazione dello “ius variandi” di quest’ultima, ma un effetto integralmente voluto dalle parti sin dal momento della conclusione del contratto[141].

Nei loro margini di autonomia, comunque, gli istituti di credito scontano un alto prezzo derivante dalla detenzione di una posizione particolarmente forte e dominante tale da generare una inevitabile assimilazione con l’oggetto dell’art. 1469 c.c.

Questo ha spinto la giurisprudenza a pronunciare diverse decisioni di illiceità delle clausole che: escludono la responsabilità della banca anche nei casi di dolo o colpa grave di quest’ultima, nel caso di sottrazione dei beni custoditi in cassette di sicurezza, per gli importi superiori al massimale dichiarato dal cliente; consentono alla banca di recedere dal contratto senza preavviso e senza motivazione, ovvero con un preavviso inferiore a 15 giorni; addossano al cliente le conseguenze sfavorevoli derivanti dallo smarrimento o dal furto del carnet di assegni, anche quando tali conseguenze siano ascrivibili alla trascuratezza della banca; consentono alla banca, in deroga alle norme codicistiche, di opporre in compensazione ai crediti del cliente contro crediti illiquidi ed inesigibili; prevedono soltanto in favore della banca la capitalizzazione trimestrale degli interessi; escludono l’obbligo della banca di comunicare al cliente le variazioni sfavorevoli del tasso d’interesse passivo, quando questo sia indicizzato.

Peraltro consentono alla banca di agire esecutivamente, direttamente e per l’intero sui beni personali di ciascuno dei coniugi cointestatari del conto; consentono alla banca di modificare “ad nutum” le condizioni contrattuali per imprecisate “ragioni organizzative”; obbligano il cliente a consentire in via preventiva il trattamento da parte della banca dei propri dati personali; escludono la responsabilità della banca per errori nella trasmissione di ordini, se non imputabili a suoi dipendenti; attribuiscono alle scritture contabili della banca piena efficacia probatoria nei rapporti col cliente; consentono alla banca di non avvisare il cliente del mancato pagamento di assegni e cambiali da questi posti all’incasso[142].

Tuttavia va osservato che l’art. 10 del c.d. decreto-legge sulla competitività[143], che è stato fra l’altro pesantemente rimaneggiato in sede di conversione[144], ha modificato la disciplina del ius variandi nei contratti bancari, sostituendo il testo previgente dell’art. 118 t.u. bancario[145]. Il ius variandi può essere definito come il diritto (potestativo) di una delle parti contraenti di modificare il contratto mediante una manifestazione unilaterale di volontà[146]; quest’ultima, secondo la regola generale dell’art. 1334 c.c., produce i propri effetti nel momento in cui perviene a conoscenza dell’altra parte contraente e costituisce pertanto un atto recettizio[147].

Secondo tale definizione, non può parlarsi di ius variandi laddove la modificazione del contratto non sia rimessa alla volontà di una delle parti contraenti, ma avvenga automaticamente al verificarsi di una circostanza sopravvenuta. Ciò deve dirsi, in particolare, a proposito della clausola di indicizzazione dei corrispettivi pecuniari, nonché a proposito della clausola che li determini mediante il riferimento a un tasso di mercato o a un indice di borsa (per quanto riguarda specificamente i contratti bancari, si pensi soprattutto al mutuo a tasso variabile)[148].

Il codice civile, dopo aver proclamato il principio secondo cui il contratto “ha forza di legge tra le parti”, prevede che esse possano riservarsi il diritto di recesso, ma nulla dice a proposito del ius variandi. Questo atteggiamento del legislatore è stato inteso dalla dottrina come una manifestazione di diffidenza, se non di rifiuto nei confronti dell’istituto, in quanto esso arrecherebbe un’offesa ancora più grave e pericolosa di quella del recesso ai principî dell’accordo e del vincolo contrattuale: lo scioglimento unilaterale del contratto (ossia, appunto, il recesso) priva sì l’altra parte dei diritti da essa acquisiti, ma estingue al contempo quelli della parte che se ne avvale, laddove la modificazione unilaterale del contratto consente a una parte di aggravare potenzialmente la posizione dell’altra conservando la propria[149].

In realtà, se è vero che la disciplina generale del contratto non prende in considerazione il ius variandi, è altresì vero che quest’ultimo è specificamente previsto nella disciplina di singoli contratti o di singole categorie contrattuali (l’appalto, il mandato, il lavoro subordinato, ecc.) e, già per questo, non può affatto considerarsi incompatibile con il principio di vincolatività del contratto[150]. La disposizione più significativa al riguardo, anche per la sua valenza transtipica, è quella dettata dall’art. 33, 2° comma, lett. m) ed o) del codice del consumo[151], secondo cui, quando sia unilateralmente apposta da un professionista a un contratto stipulato con un consumatore, la clausola di cui si tratta è abusiva fino a prova contraria[152]: la norma ha un senso, soltanto in quanto tale clausola sia pregiudizialmente valida[153].

La medesima conclusione si può desumere dalle norme le quali, con riguardo a un tipo o a un categoria contrattuale, specificamente vietano che sia apposta la clausola relativa al ius variandi, sul presupposto dunque che essa sarebbe valida in loro mancanza[154]. Si consideri ad es. l’art. 6, 1° comma, della legge sulla subfornitura[155], secondo cui è nullo il patto tra subfornitore e committente che riservi a uno di essi la facoltà di modificare unilateralmente una o più clausole del contratto.

Di fronte a tali dati normativi la dottrina si sforza comunque di restringere il più possibile l’ammissibilità dell’istituto, reputando generalmente nulla per contrarietà all’ordine pubblico la clausola negoziale che lo preveda al di fuori dei casi stabiliti dalla legge. La tesi non sembra tuttavia fondarsi su alcuna ragione plausibile.

Il principio di vincolatività del contratto, il quale costituisce il cardine di tutta la sua disciplina giuridica, esclude infatti che ciascuna parte possa autonomamente attribuirsi il diritto di modificare (così come di sciogliere) il contratto, ma non vieta affatto che tale diritto possa esserle attribuito dall’accordo con l’altra parte. Fra l’altro, se si considerano gli altri principali ordinamenti giuridici europei, si rileverà che essi non si peritano di prevedere che una delle parti del contratto possa fin dall’inizio determinarne l’oggetto: si tratta del c.d. arbitraggio di parte[156], che è ad es. espressamente previsto dal § 315 del BGB tedesco[157].

Si deve peraltro tener conto di un’esigenza strutturale e di una funzionale: la prima è che l’oggetto del contratto, se non è determinato, sia almeno determinabile al momento della sua stipulazione (art. 1346 c.c.), l’altra è che la parte assoggettata all’esercizio del ius variandi sia tutelata da un abusivo aggravamento della sua posizione contrattuale.

Sotto il primo profilo il punto critico non è dunque quello dell’unilateralità della determinazione, e neppure della sua eventuale arbitrarietà a danno dell’altra parte, quanto quello della sufficienza strutturale del contratto[158]. Si deve infatti escludere che le parti possano completamente rimettere la sua determinazione a un terzo ovvero a una di esse, ma anche rinviarla a un loro successivo accordo[159]: se così fosse, il contratto sarebbe nullo ai sensi dell’art. 1418, 2° comma, c.c.[160].   Il requisito è soddisfatto quando la determinabilità dell’oggetto non comprometta la sussistenza degli altri elementi essenziali del contratto, e anzitutto della sua causa: a tal fine è necessario che le parti contraenti individuino almeno il tipo delle prestazioni principali caratteristiche, ossia, in definitiva, il tipo di contratto che è stato stipulato (ad es., le parti contraenti non potranno fare a meno di stabilire che una di esse sia obbligata a trasferire un diritto e l’altra a pagare una somma di denaro o alternativamente a trasferire un altro diritto, fermo restando che la determinazione dei diritti da trasferirsi e della somma di denaro da pagarsi può essere demandata a un terzo o anche, si deve ritenere, a una delle parti)[161].

Ciò è necessario, ma non sufficiente per la validità della clausola di cui si tratta, poiché, essa non pone soltanto il problema di garantire la sufficienza strutturale del contratto, ma anche quello di tutelare dal rischio di un abusivo aggravamento della sua posizione contrattuale la parte assoggettata all’esercizio del ius variandi.

Per quanto riguarda i contratti tra un professionista e un consumatore, si può desumere dai dati del diritto positivo che la clausola di cui si tratta è valida se e in quanto essa subordini l’esercizio del ius variandi all’esistenza di un giustificato motivo[162], la quale, se del caso, dovrà essere provata dal professionista. Un’ulteriore indicazione in tal senso si rinviene nell’art. 2103, 1° comma, c.c., il quale, fermo restando il rigoroso divieto di adibire il lavoratore a mansioni inferiori, stabilisce che egli non può essere trasferito a un’altra unità lavorativa “se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive”[163].

È ipotizzabile che la regola del giustificato motivo come requisito di validità della clausola sul ius variandi possa essere estesa ai contratti caratterizzati da un’analoga asimmetria tra le parti contraenti[164]. Se intesa in tal senso è condivisibile la sentenza della Corte di Cassazione la quale ha statuito che sia nulla la clausola di un contratto di agenzia che riservi al preponente il diritto di modificare unilateralmente le tariffe provvigionali[165], attesa la parasubordinazione dell’agente; sebbene la motivazione si basi sull’indeterminabilità dell’oggetto contrattuale, si deve peraltro ritenere che la medesima clausola sarebbe stata valida se avesse subordinato l’esercizio del ius variandi all’esistenza di un giustificato motivo.

In ogni caso, il ius variandi non può essere esercitato in violazione del principio generale di buona fede[166], ossia con modalità che, tenuto conto delle concrete circostanze del caso, si dimostrino irragionevoli o addirittura emulative nei confronti del soggetto passivo. In caso contrario, il suo titolare sarà obbligato al risarcimento del danno a titolo di responsabilità extracontrattuale.

Così, ad es., si può ritenere che l’esercizio del ius variandi non possa prendere di sorpresa l’altra parte, ma debba essere preceduto da un congruo preavviso[167], salvo che esso risulti superfluo nel caso di specie.

Si può inoltre ritenere che l’esercizio del ius variandi sia irragionevole quando la parte abbia fatto acquiescenza al fatto che lo giustifica o abbia comunque atteso troppo tempo dal momento in cui ne è venuta a conoscenza.

Particolarmente significativa si è dimostrata al riguardo l’evoluzione giurisprudenziale a proposito delle promozioni dei lavoratori e più in generale del ius variandi dell’imprenditore nel rapporto di lavoro.

In conclusione, si deve rimarcare che il rischio dell’abuso di un istituto giuridico non è una ragione per negarne l’ammissibilità in linea di principio. Il privato può abusare del ius variandi esattamente come può abusare del diritto di recesso, ovvero in definitiva del contratto stesso, secondo quanto mostra la previsione legislativa di “frode alla legge” che è contenuta nell’art. 1343 c.c.: ma ciò è connaturato all’essenza di quella libertà che è propria appunto dell’autonomia negoziale dei privati e che costituisce la radice più profonda del diritto privato stesso.

  1. La declaratoria di nullità della clausola del contratto di conto corrente bancario e la capitalizzazione degli interessi trimestrali

Le aziende di credito hanno tentato più volte di bloccare le domande avanzate dai clienti facendo ricorso all’istituto della cosiddetta soluti retentio, come conseguente irrepetibilità degli interessi anatocistici volontariamente corrisposti dal cliente agli istituti di credito: le aziende bancarie ritengono che il pagamento degli interessi trimestralmente capitalizzati o comunque di quelli non pattuiti non consentisse al cliente che li avesse pagati di richiederne la ripetizione ai sensi dell’art. 2033 c.c., qualificando la loro corresponsione come adempimento di un obbligazione naturale.

A tal proposito si fa presente che parte autorevole della dottrina è propensa ad individuare in generale una soluzione negativa alla configurabilità di un’obbligazione naturale nell’ipotesi di corresponsione di interessi ultralegali non dovuti, per rispondere meglio all’attuale sviluppo dei traffici e per consentire “il definitivo abbandono di prospettive ancora legate a concezioni in cui la morale interferiva con l’economia” [168].

Tuttavia per la maggior parte della giurisprudenza “il pagamento spontaneo di interessi ultralegali non pattuiti per iscritto, configurandosi come adempimento di obbligazione naturale e rientrando quindi nella regola dettata dall’art. 2034 c.c., non è soggetto a ripetizione, sempre che si tratti di misura contenuta nei limiti del lecito”[169], anche se, ovviamente, precisa che “…l’indicato presupposto (del pagamento spontaneo) non ricorre nel caso di una banca, che abbia proceduto all’addebito degli interessi ultralegali sul conto corrente del cliente per la sua esclusiva iniziativa e senza autorizzazione alcuna da parte del cliente medesimo” [170]. Quindi, si può affermare che sia dottrina che giurisprudenza concordano nell’escludere che nell’ipotesi di addebito degli interessi ultralegali, non pattuiti per atto scritto, a norma dell’art. 1284 c.c., sul conto corrente bancario si possa ipotizzare l’adempimento da parte del cliente di un’obbligazione naturale mancando, nell’ipotesi in esame, la volontà di pagamento, la spontaneità, nonché il dovere morale o sociale, richiesti dall’art. 2034 c.c.

Ciò che rende incompatibile con gli usi normativi le clausole di capitalizzazione trimestrali è il difetto di spontaneità in sede di formazione di tali usi.

Essi, infatti, traggono fondamento dalle condizioni generali di contratto che le banche sono solite apporre nei loro moduli e formulari e che, sulla base di tale previsione, sono poi di fatto, effettivamente osservate.

Sennonché deve escludersi che la mera osservanza delle condizioni generali di contratto possa generare usi normativi, in quanto, altrimenti, si dovrebbe ammettere che, oggi, siano in vigore, quali usi normativi, un numero spropositato di norme originariamente contenute in clausole generali, per il solo fatto che gli aderenti al contratto ne hanno assicurato un costante rispetto [171].

In realtà le condizioni generali di contratto, specie se predisposte da imprese di notevoli dimensioni ed operanti in regime di oligopolio, il settore bancario, costituiscono indubbio esercizio di un potere normativo, almeno nei fatti: in altri termini, come affermato nella pronuncia delle Sezioni Unite della Cassazione del 4 novembre 2004, n. 21095, le clausole di capitalizzazione trimestrale degli interessi configurano violazione del divieto di anatocismo di cui all’art. 1283 c.c., non essendo espressione di usi normativi, “neppure nei periodi anteriori al mutamento giurisprudenziale in proposito avvenuto nel 1999, non essendo idonea la contraria interpretazione giurisprudenziale seguita fino ad allora a conferire normatività ad una prassi negoziale che si è dimostrata poi essere contra legem”[172]. Si tratta di una contrattazione che le Sezioni Unite hanno definito basata sulla “regola del prendere o lasciare”, proprio per l’impossibilità del cliente di influire minimamente su clausole contrattuali non negoziabili, in quanto, come ha già affermato la Cassazione, in un’altra sentenza sull’anatocismo, in questi contratti la sottoscrizione costituisce al tempo stesso presupposto indefettibile per accedere ai servizi bancari[173].

Ne consegue che dall’osservanza delle condizioni generali di contratto non possono derivare usi normativi, altrimenti si perverrebbe a rivestire di efficacia normativa quello che è un potere esercitato unilateralmente da un privato e le clausole generali diventerebbero in tal modo fonti di diritto oggettivo.

Questa soluzione non potrebbe reggere perché violerebbe l’art. 3 Cost. che sancisce il principio di eguaglianza fra privati: infatti, la norma suddetta, vale a statuire che il legislatore non può operare discriminazioni fra i cittadini, a seconda del loro sesso, della loro razza, lingua, religione, delle loro opinioni politiche e delle loro condizioni personali e sociali.

È evidente che in tanto il principio può dirsi applicato in quanto la legge tratti in modo eguale situazioni eguali ed in modo diverso situazioni diverse.

Diversamente, prosegue il giudice, “si finirebbe per negare il carattere di fonte-fatto degli usi, per renderlo in realtà una fonte-atto, in quanto la fonte degli usi diventerebbe l’inserimento della corrispondente clausola nei moduli e nei formulari delle imprese” [174].

Infatti, le fonti-atto sono costituite da manifestazioni di volontà espresse da un organo dello Stato-soggetto o di altro ente a ciò legittimato dalla Costituzione e trovano, di regola, la loro formulazione in un testo normativo, fonti scritte; le fonti-fatti, invece, consistono in un comportamento oggettivo, consuetudine o uso, o in atti di produzione giuridica esterni al nostro ordinamento e che per ciò solo vengono assunti come fatti[175].

Inoltre, parte della giurisprudenza sostiene la nullità delle clausole di capitalizzazione a seguito della contrarietà ad una norma imperativa qual è quella prevista all’art. 1283 c.c.; infatti, secondo la Suprema Corte, essa presidia ad un interesse pubblico “ad impedire una forma, subdola ma non socialmente meno dannosa delle altre, di usura, ed i patti conclusi in sua trasgressione sono nulli ai sensi dell’art. 1418 c.c.” [176].

Il problema dell’individuazione del periodo di capitalizzazione, a seguito della mancata previsione contrattuale conseguente alla declaratoria di nullità delle suddette clausole, deve essere affrontato, facendo richiamo “al parametro dell’equità di cui all’art. 1374 c.c., intesa come esigenza di bilanciamento tra i contrapposti interessi delle parti; tale parametro porta a fare propria la soluzione di una clausola di capitalizzazione con cadenza annuale, in modo da assicurare esattamente lo stesso termine previsto a favore dei correntisti in caso di interessi a loro credito” [177].  Quindi, al pari del principio di buona fede e di correttezza, anche l’equità opera in via integrativa del contenuto del contratto, ma essa interviene solo in via sussidiaria o suppletiva, ove le parti o la legge nulla abbiano disposto al riguardo e si tratti dunque di colmare una lacuna del contratto. In tal caso, si ritiene che le parti siano tenute anche a rispettare quelle conseguenze che derivano dall’equità.

Per quanto riguarda, invece, l’azione del cliente nei confronti della banca, tesa a chiedere la restituzione delle somme illegittimamente percepite da quest’ultima a titolo di interessi anatocistici, per effetto della declaratoria di nullità della relativa clausola, essa è qualificabile come azione di ripetizione di indebito, ex art. 2033 c.c.: secondo la costante giurisprudenza della Suprema Corte, infatti, il pagamento di somme in base ad un contratto nullo si configura come un’ipotesi di indebito oggettivo[178].

Va precisato che quando, venga in rilievo la mancanza di causa di un’obbligazione contrattuale in riferimento a qualche clausola del rapporto negoziale o la nullità anche parziale del negozio stesso, in base al quale è stato eseguito un pagamento, si fa riferimento, per le azioni di ripetizioni, all’istituto di cui all’art. 2033 c.c. e non a quello di cui all’art. 2041 c.c. (arricchimento senza causa), il quale presuppone l’assenza di un qualsivoglia contratto lecito e tutelabile.  Secondo tale disciplina, “è sufficiente a legittimare la ripetizione di quanto illegittimamente prestato da una parte in esecuzione di un contratto dichiarato nullo in tutto o in parte, come nel caso di specie, in cui alcune clausole sono da dichiararsi nulle, il requisito dell’avvenuto pagamento e quello dell’inesistenza del titolo in virtù del quale tale esecuzione ha avuto luogo.

Non si richiede anche – ne costituisce correlativamente impedimento a tali restituzioni – la circostanza di un arricchimento del patrimonio dell’accipiens e di una corrispondente diminuzione del patrimonio del solvens, elementi caratteristici della diversa azione di arricchimento senza causa” [179].

Infatti, l’azione di arricchimento senza causa è del tutto complementare e può essere esercitata solo quando manchi qualunque titolo specifico, sul quale possa essere fondato il diritto preteso (e che quindi deve essere proposta in modo esplicito), per come previsto dall’art. 2042 c.c., mentre la ripetizione di indebito riguarda altra e diversa ipotesi giuridica, basata su due necessari e sufficienti requisiti: l’esistenza di un pagamento e il fatto che il pagamento stesso non doveva essere eseguito.

Pertanto, secondo l’art. 2033 c.c. costituisce un indebito oggettivo l’esecuzione di una prestazione o di un pagamento privo di giustificazione, ovvero privo di qualsiasi titolo contrattuale o extracontrattuale; quindi, il soggetto che ha eseguito la prestazione non dovuta può ripetere, cioè chiedere la restituzione di quanto pagato, oltre ai frutti ed agli interessi dal giorno del pagamento, se chi lo ha ricevuto era in mala fede, oppure se questi era in buona fede, dal giorno della domanda giudiziale [180].

Tale azione può essere promossa anche in costanza di rapporto, posto che la nullità investe, nella fattispecie, la sola clausola anatocistica, e non l’intero contratto, si tratta, cioè, di nullità parziale. Dalla configurazione dell’azione diretta ad ottenere la restituzione degli interessi anatocistici come ripetizione dell’indebito, discende che la banca è tenuta altresì a corrispondere al correntista, sulle somme oggetto di restituzione, gli interessi a decorrere dalla domanda (intesa come domanda giudiziale, non rilevando il momento della domanda stragiudiziale), atteso che la stessa deve reputarsi in buona fede al momento della percezione degli interessi stessi, probabilmente anche per i contratti conclusi dopo il revirement della Cassazione del 1999. Inoltre, secondo la giurisprudenza il termine di prescrizione decennale per l’esercizio dell’azione inizierebbe a decorrere dal momento dell’accreditamento in favore della banca delle singole somme corrispondenti agli interessi anatocistici illegittimamente riscossi dalla banca, ovvero dall’addebito operato da quest’ultima, inteso come operazione contabile di annotazione sul conto, che avviene a ciascuna chiusura trimestrale dello stesso [181].

Tale orientamento trae spunto da una pronuncia, in tema di libretti di deposito a risparmio, della Suprema Corte del 3 maggio 1999, n. 4389, secondo cui “la prescrizione del diritto alla restituzione delle somme depositate nel deposito bancario inizia a decorrere non già dalla data della richiesta di restituzione e neppure da quella del rifiuto della banca ma dal giorno in cui il depositante poteva richiedere la restituzione, ossia o dal giorno stesso della costituzione del rapporto ovvero da quello dell’ultima operazione compiuta, se il rapporto si sia sviluppato attraverso accreditamenti e prelevamenti: ciò in quanto, essendo il diritto alla restituzione un diritto di credito nel quale si è convertito il diritto di proprietà del depositante, il mancato esercizio di siffatto diritto dà luogo immediatamente a quello stato di inerzia che è il presupposto della prescrizione” [182].

Quindi tale orientamento muove dal presupposto secondo cui ciascuna delle singole prestazioni indebite è oggetto di ripetizione; per cui, il termine di prescrizione decorre dal giorno i cui il diritto può essere fatto valere, ai sensi dell’art. 2935 c.c., essendo irrilevanti i meri impedimenti di fatto, come l’ignoranza del cliente circa il suo diritto alla ripetizione degli interessi in questione.

Secondo questa tesi, indubbiamente più favorevole alle banche, l’azione di ripetizione degli interessi anatocistici dovrebbe essere proposta nell’arco di dieci anni tra la data di ciascun singolo accreditamento o versamento in favore della banca e la data di proposizione della domanda giudiziale, e, quindi, anche durante lo svolgimento del rapporto.

Di conseguenza, il contenzioso giudiziario, avente ad oggetto la ripetizione degli interessi relativi ai rapporti instaurati prima della delibera CICR, sarebbe considerevolmente ridimensionato ed ormai in via di esaurimento, potendo il correntista, ad oggi, chiedere la ripetizione dei soli interessi anatocistici indebitamente versati nei soli anni dal 1995 all’aprile 2000, data l’inefficacia ai fini interruttivi della prescrizione, di eventuali atti stragiudiziali effettuati in precedenza, fino alla definitiva estinzione di ogni pretesa nel 2010 [183].

Secondo un diverso orientamento, invece, il termine prescrizionale in questione inizierebbe a decorrere soltanto dalla chiusura definitiva del rapporto; solo in tale momento, infatti, si produrrebbe definitivamente il saldo dei crediti e debiti tra le parti, trattandosi di un rapporto giuridico di durata, unitario, seppur articolato in una pluralità di atti esecutivi.

L’accoglimento di tale orientamento permetterebbe al cliente di esercitare l’azione di ripetizione degli interessi indebitamente trattenuti dalla banca nell’arco di durata dell’intero rapporto, finché quest’ultimo non si sia chiuso, e dunque anche a distanza di molti anni dal primo accreditamento degli interessi anatocistici; ciò produrrebbe il risultato di far lievitare, di non poco, l’importo delle somme che gli istituti di credito dovrebbero restituire alla clientela, e al contempo di prolungare indefinitamente nel tempo il contenzioso in materia, relativamente ai contratti di conto corrente non ancora sciolti[184].

D’altra parte, ai correntisti sarebbe precluso l’esercizio dell’azione di ripetizione in questione, finché il rapporto sia ancora in essere; pertanto, qualora non fosse stata la banca a recedere dal rapporto (in caso di conto con saldo passivo), dovrebbero porvi fine essi stessi.

La tesi per ultimo esposta non sembra condivisibile, in quanto nel conto corrente bancario, a differenza di quanto si verifica nel conto corrente ordinario, vige il principio dell’immediata esigibilità del saldo da parte del correntista, ai sensi dell’art. 1852 c.c., e, conseguentemente, la compensazione tra addebitamenti e accreditamenti non opera soltanto nel momento della chiusura finale del conto, bensì progressivamente, cioè via via che crediti e contro crediti sono annotati sul conto [185].

Sembra, pertanto, preferibile ritenere che la prescrizione del diritto alla ripetizione degli interessi anatocistici decorra dalla data in cui gli stessi siano stati, di volta, in volta, annotati sul conto del correntista, diminuendo la disponibilità di quest’ultimo.

Occorre invero ricordare, inoltre sotto un profilo generale, che Cass. 16 marzo 1999, n. 2374[186], ha aperto la strada all’orientamento secondo il quale è nulla la clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi perché anteriore alla scadenza degli stessi ed in quanto fondata al più su di un uso meramente negoziale, inidoneo a consentire la deroga dell’art. 1283 c.c. ai fini della quale è necessario un uso normativo (precedentemente, invece, la S.C. aveva riconosciuto l’esistenza di un uso generale nelle relazioni tra istituti di credito e utenti nel senso dell’ammissibilità dell’anatocismo anche al di fuori dei restrittivi limiti posti dall’art. 1283 c.c.[187]).

Successivamente al revirement in tema di interpretazione dell’art. 1283 c.c. l’art. 25, 3 co., D.Lgs. n. 342 del 1999, il quale aveva fatto salva la validità e l’efficacia – fino all’entrata in vigore della delibera CICR di cui al comma 2 del medesimo art. 25 – delle clausole anatocistiche stipulate in precedenza: tuttavia  la  sentenza della Corte Costituzionale del 17 ottobre 2000 n. 425 ha dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione dell’art. 76 Cost., in relazione all’art. 1, 5 co., l. n. 128 del 1998, l’art. 25, 3 co., D.Lgs. 4 agosto 1999, n. 342.

 Le stesse Sezioni Unite della S.C. hanno quindi suggellato i nuovi orientamenti invalsi in sede pretoria circa la portata del divieto di anatocismo contenuto nell’art. 1283 c.c. affermando il principio per il quale la legittimità della capitalizzazione trimestrale degli interessi a debito del correntista bancario va esclusa anche con riguardo al periodo anteriore alle decisioni con cui la S.C., ponendosi in contrasto con l’orientamento sin lì seguito, ha accertato l’inesistenza di un uso normativo idoneo a derogare al precetto dell’art. 1283 c.c. in quanto difettano i presupposti per riconoscere, anche con riguardo a detto periodo (e nonostante l’opposto orientamento espresso dalle pronunce dell’epoca), la convinzione dei clienti circa la doverosità giuridica di tale prassi. In tema di capitalizzazione trimestrale degli interessi sui saldi di conto corrente bancario passivi per il cliente, a seguito della sentenza della C. cost. n. 425 del 2000, che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione dell’art. 76 Cost., l’art. 25, 3 co., D.Lgs. n. 342 del 1999, il quale aveva fatto salva la validità e l’efficacia – no all’entrata in vigore della delibera CICR di cui al comma 2 del medesimo art. 25 – delle clausole anatocistiche stipulate in precedenza, siffatte clausole, secondo i principi che regolano la successione delle leggi nel tempo, sono disciplinate dalla normativa anteriormente in vigore e, quindi, sono da considerare nulle in quanto stipulate in violazione dell’art. 1283 c.c., perché basate su un uso negoziale, anziché su un uso normativo, mancando di quest’ultimo il necessario requisito soggettivo, consistente nella consapevolezza di prestare osservanza, operando in un certo modo, ad una norma giuridica, per la convinzione che il comportamento tenuto è giuridicamente obbligatorio, in quanto conforme ad una norma che già esiste o che si reputa debba fare parte dell’ordinamento giuridico (opinio juris ac necessitatis). In altri termini, secondo la S.C. va escluso che detto requisito soggettivo sia venuto meno soltanto a seguito delle decisioni della Corte di cassazione che, a partire dal 1999, modificando il precedente orientamento giurisprudenziale, hanno ritenuto la nullità delle clausole in esame, perché non fondate su di un uso normativo, dato che la funzione della giurisprudenza è meramente ricognitiva dell’esistenza e del contenuto della regola, non già creativa della stessa, e, conseguentemente, in presenza di una ricognizione, anche reiterata nel tempo, rivelatasi poi inesatta nel ritenerne l’esistenza, la ricognizione correttiva ha efficacia retroattiva, poiché, diversamente, si determinerebbe la consolidazione medio tempore di una regola che avrebbe la sua fonte esclusiva nelle sentenze che, erroneamente presupponendola, l’avrebbero creata[188].

Ebbene, secondo un orientamento rigoroso, alla nullità della clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi su conto corrente bancario non consegue un diritto della banca all’anatocismo semestrale o annuale, non sussistendo alcuna possibilità di sostituzione legale o inserzione automatica di clausole che dispongano una capitalizzazione degli interessi passivi con una diversa periodicità[189].

A riguardo si è osservato che, da un lato, l’anatocismo è consentito dal sistema, con una norma eccezionale e protettiva del debitore pecuniario, soltanto in presenza delle condizioni di cui all’art. 1283 c.c., e dall’altro, perché il debito di interessi non si configura, per la sua peculiare natura genetica e funzionale, come una qualsiasi obbligazione pecuniaria, dalla cui scadenza possa derivare il diritto del creditore agli ulteriori interessi di mora ovvero al risarcimento del maggior danno ex art. 1224, 2 co., c.c.[190]

In senso opposto opinano tuttavia altre decisioni di merito le quali, analogamente alla terza ed alla quarta pronuncia in rassegna, hanno affermato che alla ritenuta nullità della clausola che prevede la capitalizzazione trimestrale degli interessi debitori consegue l’applicazione della capitalizzazione annuale, sussistendo un uso normativo – come tale idoneo a derogare al divieto previsto dall’art. 1283 c.c. – in ordine alla periodica capitalizzazione degli interessi tanto debitori quanto creditori, diversa da quella, censurata dalla S.C., che prevede la periodicità trimestrale degli interessi debitori a fronte di una diversa periodicità (in genere annuale) di quelli creditori.

A tal proposito non si è trascurato di sottolineare, infatti, che la periodica capitalizzazione degli interessi nei rapporti di conto corrente come effetto della periodica chiusura contabile dei conti, che appare assistita dal requisito oggettivo della ripetizione generale, uniforme, costante e pubblica di un determinato comportamento (usus) nel settore considerato, deve ritenersi assistita altresì dalla convinzione che si tratti di comportamento (non dipendente da un mero arbitro soggettivo ma) giuridicamente obbligatorio, in quanto conforme a una norma che già esiste o che si ritiene debba far parte dell’ordinamento giuridico[191].

Secondo alcune decisioni tale soluzione deve ritenersi ammissibile, in particolare, da un lato per l’operatività nella fattispecie in esame del meccanismo di integrazione ex lege della clausola nulla di cui all’art. 1374 c.c., in base al quale le clausole contrattuali contrarie a norme imperative sono colpite da nullità e vengono di diritto automaticamente sostituite da queste, e dall’altro per la possibilità di rinvenire nella disciplina generale detta fonte normativa idonea a supportare il meccanismo della suddetta capitalizzazione annuale[192].

Si segnala nel panorama giurisprudenziale favorevole all’orientamento in esame anche Trib. Chieti 15 dicembre 2005, n. 5, per la quale nei rapporti di conto corrente bancario può ritenersi sussistente un uso normativo favorevole alla capitalizzazione degli interessi con cadenza annuale, che assicura la parità di trattamento tra il correntista e l’istituto di credito, posto che, dato che la capitalizzazione annuale dei conti attivi non è mai stata posta in discussione, e viene percepita dai correntisti come un vero e proprio diritto, deve ritenersi che analogo uso possa essere considerato generale ed astratto ed, in quanto tale, valevole per tutti i rapporti di conto corrente , siano essi attivi che passivi, tanto più che per i correntisti è sempre stata seguita per prassi contrattuale la capitalizzazione anche per periodi inferiori all’anno.

Del tutto peculiare appare invece nell’attuale giurisprudenza di merito la posizione condivisa del Tribunale di Monza, sez. dist. Desio, la quale ha ritenuto che è possibile una sostituzione automatica della clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi su conto corrente bancario, nulla ex art. 1283 c.c., con una clausola che preveda la capitalizzazione semestrale degli interessi, stante l’esistenza di un uso consolidato in tal senso già molto prima dei più recenti interventi della giurisprudenza di legittimità (nel testo della decisione sono a tal fine richiamati anche alcuni risalenti precedenti di merito)[193].

  1. La clausola di capitalizzazione degli interessi passivi: il rapporto con le norme uniformi bancarie e l’art. 1283 c.c.

La giurisprudenza, stabilita l’impossibilità della capitalizzazione trimestrale degli interessi, è passata alla definizione della questione relativa alla possibile individuazione di una diversa frequenza di capitalizzazione, magari più lenta, ovvero alla radicale esclusione di una qualsivoglia capitalizzazione.

Non solo non sono mancate ma sono davvero abbondanti le prese di posizione indirizzate tuttora verso la prima direzione.

Plurime sono le motivazioni addotte e queste traggono fondamento maggiormente in una possibile applicazione analogica della regola della capitalizzazione annuale degli interessi prevista per le obbligazioni pecuniarie dal disposto dell’art. 1284 c.c., 1 co., in sintonia anche con l’art. 120 t.u. legge bancaria che sancisce il principio di corrispondenza temporale tra interessi passivi e interessi attivi, nel senso che nelle operazioni in conto corrente deve essere assicurata nei confronti della clientela la stessa periodicità nel conteggio degli interessi sia debitori che creditori, quale principio di correttezza e di buona fede nell’esecuzione del contratto[194].

Tale soluzione in altri termini corrisponderebbe al criterio di capitalizzazione applicato dalla banca a favore della clientela che a sua volta sarebbe conforme alla cadenza temporale “ex lege” degli interessi , ricavabile dal disposto dell’art. 1284 c.c. comma 1 e contemplato anche dalla delibera del CICR del 9 febbraio 2000, con l’ulteriore vantaggio che resterebbe comunque operante la clausola uniforme generale, riportata nei contratti bancari, di chiusura al 31 dicembre di ogni anno[195].

Questa proposta interpretativa partirebbe da un falso presupposto che risiede nella erronea considerazione della portata dell’art. 1283 che, anche alla luce della pronuncia della Corte di Cassazione a sezioni unite del 2004 nonché della declaratoria di incostituzionalità del D.Lgs. 4 agosto 1999, n. 342, va sistematicamente ricondotto nell’alveo di quelle norme di natura imperative e dal carattere eccezionale, derogabili solo nei casi da esse espressamente previsti senza possibilità di estensioni analogiche.

La previsione dell’art. 1283 c.c. non lascia margini di incertezze allorquando prevede che gli interessi scaduti possono produrre altri interessi solo dal giorno della domanda giudiziale o per effetto di una convenzione pattizia di epoca posteriore alla scadenza degli stessi ma sempre che si tratti di interessi dovuti per almeno un semestre, salvo usi contrari che sappiamo poter essere solo usi normativi.

Se non ricorre anche solo una delle condizioni previste la pattuizione dell’anatocismo è nulla e la sua nullità non rimane circoscritta alla clausole relative al ritmo di capitalizzazione ma investe l’intera pattuizione in quanto essa è in toto ed in nuce di segno contrario alla legge.

Pertanto il contratto deve dirsi ab origine difettante di una pattuizione sulla capitalizzazione sia essa trimestrale, semestrale o annuale[196], che non può essere in alcun modo surrogata perché altrimenti significherebbe forzare il contenuto del contratto andando ad inserirvi del tutto arbitrariamente qualcosa che precedentemente non c’era affatto violando ogni principio codicistico.

Egualmente arbitrario sarebbe ricavare dal sistema un collegamento tra l’art. 1283 e l’art. 1284 al punto tale da ricondurre la prima nel genus delle obbligazioni pecuniarie, come del resto chiaramente enunciato dalla Cassazione a sezioni unite con pronuncia del 17 luglio 2001, n. 9653[197] secondo la quale dovendo escludersi che il debito per interessi, anche quando sia stata adempiuta l’obbligazione principale, si configuri come una qualsiasi obbligazione pecuniaria, dalla quale derivi il diritto agli ulteriori interessi dalla mora nonché al risarcimento del maggior danno ex art. 1224 comma 2 c.c., a tutte le obbligazioni aventi ad oggetto originario il pagamento di una somma di denaro sulla quale spettino interessi di qualsiasi natura è applicabile, in mancanza di usi contrari la regola dell’anatocismo dettata dall’art. 1283 c.c.

Se un filo conduttore tra le due norme pur volesse intravedersi questo sarebbe ravvisabile soltanto nel fatto che sugli interessi scaduti da almeno sei mesi sono dovuti gli interessi al tasso legale dalla domanda giudiziale a meno che le parti abbiano convenuto per iscritto un diverso saggio di interessi posteriormente alla loro scadenza.

  1. L’intervento della Corte di Cassazione

Dando per condivisa la illegittimità della capitalizzazione trimestrale degli interessi[198] la giurisprudenza, propende nettamente per una decisione che non lascia spazio alcuno a qualsiasi forma di surrogazione delle clausole affette da tale forma di nullità, e ciò per quanto sul punto la giurisprudenza sia ancora molto divisa.

Da qui la importanza, in un contesto tormentato quale è ed è stato quello dell’anatocismo, del contributo giurisprudenziale da esse fornito se non altro per la solidità delle basi ermeneutiche e per la fondatezza degli argomenti usati che rendono difficilmente eccepibile il loro contenuto, la cui esatta comprensione non può però prescindere dalla altalenante storia del fenomeno.

Le prime avvisaglie di quella che sarebbe stata poi la prima importante inversione di tendenza consacrata nelle pronunce della Cassazione del 1999 (n. 2374 e n. 3096) erano ravvisabili già in un alcune sentenze di merito[199] che avevano escluso che le prassi contrattuali (configuranti un uso semplicemente negoziale) potessero costituire una valida deroga al generale divieto normativo previsto dall’art. 1283 c.c.

Erano così stati avanzati i primi seri dubbi sulla legittimità della capitalizzazione trimestrale degli interessi bancari, e ciò nonostante il fatto che alcuni anni prima il legislatore, in occasione dell’emanazione della l. 17 febbraio 1992, n. 154, “Norme per la trasparenza delle operazioni e dei servizi bancari e finanziari”, non aveva ritenuto opportuno porre un preciso divieto in tal senso, sebbene peraltro una espressa previsione era invece contenuta nel precedente “progetto Minervini” del 1986. I dubbi in realtà non erano nemmeno condivisi e dalla dottrina tradizionale[200] e dalla giurisprudenza prevalente che era sempre stata favorevole al riconoscimento della validità degli usi normativi nel settore bancario (con riferimento alla trimestralità quale periodo minimo di capitalizzazione) quale norma consuetudinaria contraria, costantemente applicata e pacificamente riconosciuta nei rapporti tra le parti interessate[201] e riscontrabile, come uso, anche a livello nazionale[202].

E ciò anche sul presupposto che le c.d. norme bancarie uniformi ABI (e segnatamente su quelli che consentono una capitalizzazione trimestrale anziché semestrale) predisposte dalla associazione della categoria bancaria (Associazione bancaria italiana) avessero natura normativa e che tale qualificazione potesse essere il frutto di una indagine diretta sugli usi normativi da parte della Corte di legittimità che ne poteva, quindi, accertare l’esistenza (essendo usi “normativi”) indipendentemente dalle allegazioni delle parti e dalle considerazioni svolte in proposito dai giudici del merito (iura novit curia)[203].

Ad ogni modo, i tarli insinuati da quei pochi giudici di merito hanno con il tempo aperto una profonda breccia tanto che la Corte di Cassazione ha rivisto decisamente la propria posizione, condannando senza attenuanti la prassi della capitalizzazione infrannuale e ritenuta fondata unicamente su un uso negoziale e non già normativo e, come tale, inidoneo ad operare automaticamente con effetto integrativo del contratto.

Secondo la Cassazione, l’uso della capitalizzazione trimestrale sarebbe carente del requisito dell’opinio iuris seu necessitatis, non essendo il cliente convinto, mediante la stipula del contratto di conto corrente contenente la convenzione anatocistica, di adempiere ad un obbligo giuridico, bensì di essere irrimediabilmente costretto, pur di accedere ai servizi bancari di conto corrente, a soggiacere ad una clausola vessatoria imposta dal “cartello” bancario in ragione del proprio predominio.

La inversione di tendenza è stata salutata sia in dottrina che in giurisprudenza con posizioni completamente antitetiche.

Difatti accanto a ad una parte che ha accolto favorevolmente il revirement, evidenziando, peraltro, la valenza economica delle nuove decisioni e la rivisitazione critica delle nozioni di “uso normativo” ed “uso negoziale”[204], altra ha espresso critiche al nuovo orientamento di legittimità[205]

Allo stesso modo è residuato un orientamento “ribelle” dei giudici di merito rimasti favorevoli alla validità della clausola sulla capitalizzazione trimestrale degli interessi .

Data la situazione, al fine di evitare il rapido formarsi di un enorme contenzioso giudiziario volto ad ottenere l’applicazione in via retroattiva del nuovo principio fissato dalla Suprema Corte, il governo introdusse, mediante l’art. 25 D.Lgs. n. 342 del 1999, alcune modifiche all’art. 120 D.Lgs. n. 385 del 1993 (Testo unico bancario) destinate rispettivamente a regolamentare il “futuro” e il “passato” dei rapporti banca/cliente, con ciò presupponendo implicitamente la propria efficacia retroattiva.

Più in particolare, per la regolamentazione dell’avvenire, il comma 2 rinviava ad una specifica disciplina da emanarsi a cura del CICR mentre, per i rapporti pregressi, il nuovo comma 3 dell’articolo prevedeva invece che le clausole sulla produzione di interessi sugli interessi, contemplate in contratti stipulati anteriormente all’entrata in vigore della disciplina del CICR, erano da considerarsi valide ed efficaci fino a tale data, con ciò integrando una legittimazione (legislativa) dell’uso bancario (convenzionale) della capitalizzazione trimestrale degli interessi.

  1. La mancata ricorrenza del fenomeno anatocistico nelle operazioni di conto corrente.

Come già accennato, nei rapporti tra banca e cliente/correntista, a formare oggetto di annotazione su conto, sono somme e non “crediti reciproci”. Ogni debito del cliente , che sia divenuto scaduto ed esigibile, nei confronti della banca per effetto dell’annotazione in conto della corrispondente somma viene estinto,pagato,saldato o, meglio (secondo la dicitura riportata dall’art. 1852 c.c.) “regolato”.

Di conseguenza soggiace a questa regola anche lo specifico debito da interessi passivi dovuti dal correntista alla banca al termine di ogni periodo di scadenza pattuito (nella specie:il trimestre).

Nel caso la banca vanti , dunque, in base al rapporto di conto corrente, un credito nei confronti del cliente, quest’ultimo potrà estinguerlo utilizzando denaro proprio ( in “giacenza” del conto corrente) o, diversamente, denaro tenutogli a disposizione dalla banca con un’apertura di credito[206]. E così anche nell’ipotesi in cui il debito del cliente verso la banca sia rappresentato dagli interessi maturati nel trimestre e poi scaduti al termine dello stesso.

Quindi nell’ipotesi in cui il cliente, alla scadenza del trimestre, risulti “in avere” (avendo denaro proprio sul conto), potrà utilizzare denaro proprio per corrispondere gli interessi passivi alla banca; qualora, invece non abbia denaro proprio (risultando pertanto “in dare”) ed utilizzi quello messogli a disposizione dalla stessa banca, a fronte di un’apertura di credito, l’annotazione estinguerà il debito da interessi passivi, ma , al contempo, evidenzierà un’ esposizione debitoria per utilizzo di apertura di credito, che dovrà essere remunerata, dal cliente alla banca, mediante il riconoscimento di interessi.

Secondo autorevole dottrina[207] non si configura alcun fenomeno anatocistico nei rapporti di conto corrente, in quanto, “la somma addebitata in conto (e corrispondente agli interessi maturati nel trimestre) produce interessi non già di perché siano gli interessi a produrre altri interessi (sarebbe in effetti anatocismo), bensì perché – rappresentando un’utilizzazione dell’apertura di credito (art. 1843 c.c.)- soggiace, com’è inevitabile, alla disciplina sua propria (quella per cui, in banca, il denaro preso in prestito deve essere pagato comunque, anche se preso in prestito per corrispondere gli interessi passivi)[208].

La mancata ricorrenza di un fenomeno anatocistico nell’ambito del meccanismo giuridico di funzionamento delle operazioni bancarie regolate in conto corrente è, peraltro, diretta conseguenza dell’esatta individuazione della loro effettiva natura.[209]

  1. Le questioni di costituzionalità: la risposta della Corte Costituzionale

Sollecitata da numerosissime ordinanze di rimessione, la Corte costituzionale ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 25 comma 3 D.Lgs. 4 agosto 1999, n. 342 nella parte in cui stabiliva in maniera indiscriminata la validità ed efficacia delle clausole relative alla produzione di interessi anatocistici contenute nei contratti stipulati anteriormente all’entrata in vigore della delibera del CICR, prevista dal comma 2 dello stesso articolo[210].

Ora l’orientamento della Corte appare essersi definitivamente consolidato con la pronunzia a sezioni unite[211] la quale ha ribadito la tesi innovativa affermando che “in sede di esegesi dell’art. 1283, la giurisprudenza della primavera del 1999, ponendosi in consapevole e motivato contrasto con pronunzie del ventennio precedente, ha enunciato il principio – reiteratamente confermato da successive sentenze – per cui gli “usi contrari”, idonei ex art. 1283 a derogare il precetto ivi stabilito, sono solo gli “usi normativi” in senso tecnico; desumendone, per conseguenza, la nullità delle clausole bancarie anatocistiche, la cui stipulazione risponde ad un uso meramente negoziale ed incorre quindi nel divieto di cui al citato art. 1283”.

CAPITOLO QUARTO

ABUSI: TASSI USURARI E INTERVENTO DEL LEGISLATORE IN TEMA DI USURA

    1. Profili generali in tema di usura

Norma fondamentale nella disamina del tema degli interessi usurari è l’art. 1815, comma 2, c.c. Seppur tale disposizione è dettata in materia di mutuo, si ritiene pacificamente trattarsi di principio generale valevole per tutte le ipotesi di concessione del denaro in godimento[212]. Non può,inoltre, tralasciarsi la circostanza che l’usura integra una specifica ipotesi delittuosa di cui all’art. 644 c.p., in cui i soggetti coinvolti sono: il soggetto attivo del reato, che può essere “chiunque”, trattandosi di un reato comune, e il soggetto passivo,che, in base alla nuova struttura della fattispecie penalistica che concentra la descrizione del fatto tipico sull’ottenimento di un interesse o di un vantaggio usurario, non è qualificato più col termine “persona”, presente nell’originaria formulazione dell’art. 644 c.p., potendo essere vittima dell’usura anche un persona giuridica. In via preliminare è necessario, inoltre, sottolineare che la materia in esame è stata investita da importanti interventi legislativi: il primo con la l. 7 marzo 1998, n. 108, ha apportato pregnanti modifiche sia alla fattispecie penale che alla disciplina civilistica; il secondo, con decreto l. 29 dicembre 2000, n. 394, convertito in legge il 28 febbraio 2001, n. 24, è intervenuto per sciogliere i problemi ermeneutica relativi all’applicazione temporale dei nuovi principi introdotti con la legge del ’96.

In linea di massima, le tipologie di usura che sono state nel tempo interessate da modifiche legislative, in base all’iter evolutivo di cui si dirà nei prossimi paragrafi, possono così riassumersi:

  1. a)     l’usura pecuniaria, collegata al mutuo o alla dazione di una somma di denaro, contro interessi o latri vantaggi diversi da interessi (ivi compresi beni mobili, immobili, prestazioni a carattere patrimoniale e,secondo alcuni, vista la latitudine del riferimento al “vantaggio”, anche prestazioni aventi oggetto non economico in senso stretto quali quelle a carattere sessuale);
  2. b)    l’usura reale, che riguarda un interesse o vantaggio sproporzionato contro la dazione di bene mobile, comprensiva quest’ultima: secondo alcuni di un bene fungibile equivalente al denaro temporaneamente concesso nell’ottica di un’operazione finanziaria che soddisfa un’esigenza momentanea, secondo altri, vista la genericità della dizione, di qualsiasi bene mobile oggetto di dazione a qualsiasi titolo in modo da consentire un vantaggio esorbitante. Va segnalato che, con la riforma del 1996 il riferimento alla “cosa mobile” è stato sostituito da quello ancora più generico “ad altra utilità”;
  3. c)     l’usura soggettiva, sulla quale era imperniata la disciplina civle e penale anteriore alla legge del 1996 che attribuisce rilevanza allo stato soggettivo del creditore e richiede, da parte di quest’ultimo, il consapevole approfittamento dello stato di bisogno del debitore;
  4. d)    l’usura oggettiva, alla quale si ispira primariamente l’attuale assetto, ponendosi come figura autonoma rispetto agli stati soggettivi delle parti, che resta, legata esclusivamente al dato quantitativo ex se inteso, ossia il superamento di una certa soglia valoristica.

    2. Gli interessi usurari nell’originaria previsione del codice civile.

La nozione di usura nel codice civile del 1942 si inserisce nell’art. 1815, 2° co. che sancisce la nullità della clausola con cui sono pattuiti interessi usurari e la riduzione ex lege di questi ultimi alla misura legale, in tal modo, contemperando l’interesse delle parti contraenti ed eliminando il vantaggio usurario senza d’altra parte costringere il debitore all’immediata restituzione della somma dovuta.

La questione che emerge dalla lettura dell’art. 1815, 2° co, , c.c., è quella di individuare la nozione di “interessi usurari”, la cui definizione è affidata al ruolo dell’interprete, limitandosi tale norma a stabilire le particolari conseguenze giuridiche di una pattuizione usuraria[213].

Nel valutare quando un interesse può dirsi usurario occorre tener conto di tutti gli elementi che compongono l’interesse, vale a dire quei coefficienti che concorrono al suo calcolo[214].

L’art. 1815 c.c. , seppur dettato con specifico riferimento al contratto di mutuo, ha portata generale, trovando applicazione a qualsiasi contratto comportante la pattuizione di interessi. Ciò si spiega sia in quanto l’art. 1815 richiama, nella prima parte, espressamente l’art. 1284 c.c., sia perché la ratio della sanzione civile della nullità del patto degli interessi usurari, che è quella di evitare guadagni, a titolo di interessi, inammissibili dalla coscienza sociale, ricorre, ovviamente, per tutte le convenzioni, anche atipiche, che fondano tali tipi di trasferimenti di ricchezza[215].

La previsione di cui all’art. 1815 c.c. opera non solo se è stato pattuito di corrispondere interessi, ma anche qualora la prestazione corrispettiva abbia, per volontà dei contraenti un contenuto differente: se non è espressamente convenuta la gratuità, l’altra obbligazione che dal mutuo sorge per il mutuatario, in relazione alla naturale onerosità del contratto (art. 1815 c.c.) è quella del corrispettivo dovuto al mutuante, corrispettivo che, come lo stesso art. 1815 prevede, sarà normalmente costituito- anche nel mutuo non pecuniario- dagli interessi , ma per volontà dei contraenti potrà anche avere, in tutto o in parte, un diverso contenuto e consistere quindi, ad esempio, nella prestazione di un dare non omogeneo, in una prestazione di fare , in una partecipazione agli utili o in un provento aleatorio e di carattere straordinario e simili. Data l’analoga funzione, anche a tale corrispettivo di differente natura si estenderà, finché risulti compatibile, la disciplina stabilita per gli interessi.[216]

Sia in dottrina che in giurisprudenza vi era concordia nel ritenere che non poteva essere ritenuto usurario ogni tasso superiore a quello legale[217].

Controversa, invece, era la concreta individuazione degli elementi necessari a integrare un interesse usurario rilevante ai sensi dell’art. 1815, 2° co. , c.c.

In merito a tale questione si possono individuare, principalmente, due tesi: la prima ritiene che il concetto civilistico di usura si contraddistingua per il solo elemento obiettivo dell’esorbitanza ed eccessività degli interessi (concezione c.d. “oggettivistica”); la seconda , invece, ritiene che tale requisito debba concorrere con altri di natura soggettiva ( concezione c.d. “soggettivistica”).[218]

2.1 La tesi soggettivistica

Anteriormente alla riforma attuata con la l. 7/3/1996, n. 108, la giurisprudenza pressoché unanime e parte della dottrina[219] ritenevano che l’art. 1815, 2° co. , c.c. trovasse applicazione solo se la pattuizione di interessi in misura superiore a quella legale era avvenuta in presenza dei presupposti indicati dalla legge per la sussistenza del reato di usura, vale a dire, secondo l’originaria formulazione dell’art. 644 c.p., l’esorbitanza degli interessi convenuti e lo stato di bisogno della vittima di cui il soggetto attivo aveva approfittato, quasi che il richiamo alla nozione di interessi usurari contenuto nella norma civile operasse come rinvio alla fattispecie penale.

Il concetto di interesse usurario ex art. 1815 c.c. si concretizzava negli elementi del reato di usura previsto dall’art. 644 c.p., perché soltanto attraverso la sussistenza di un fatto illecito, consistente nello stato di soggezione psichica di un soggetto a causa delle condizioni di bisogno, di cui l’altro soggetto abbia approfittato, trovava causa giustificatrice la sanzione della nullità della convenzione, nella misura in cui eccede quella legale. Erano , pertanto, necessari, perché gli interessi potessero essere considerati usurari, l’elemento della sproporzione in confronto della misura normale e quello dello stato di bisogno noto all’altra parte[220].

Tali requisiti andavano accertati al momento della conclusione del contratto, non rilevando il tempo successivo[221].

Tale orientamento era condiviso dai giudici di legittimità, che ogniqualvolta si erano pronunciati su tale questione avevano affermato che la pattuizione di interessi usurari non costituisca motivo di illiceità del negozio, essendo illecito solo quello in cui sono ravvisabili gli estremi del reato di usura a norma dell’art. 644 c.p.

In presenza di un atto di opposizione a decreto ingiuntivo di pagamento della somma pattuita oltre gli interessi nella misura convenzionale del 30% annuo, emesso nei confronti dell’opponente in forza di un contratto di mutuo risultante da una dichiarazione scritta a forma del convenuto opposto, i giudici di primo grado avevano respinto l’opposizione, decisione questa confermata dalla Corte d’Appello, la quale avev infatti osservato che al debitore competevano gli interessi nella misura pattuita, non potendo gli stessi essere qualificati usurari, essendo mancati sia lo stato di bisogno del debitore sia l’approfittamento da parte della creditrice[222].

Avverso tale decisione veniva proposto ricorso per Cassazione[223]:

si riteneva che data l’assoluta relatività del concetto di usura, considerato che lo stesso codice civile non fornisce elementi per la determinazione del concetto privatistico di usura, e del conseguente suo limite di liceità o illiceità, fa d’uopo necessariamente ricorrere alla nozione penalistica dell’usura , che consente di valutare il dolo dell’agente, il vantaggio esagerato del creditore, lo stato di bisogno del debitore, il profitto tratto consapevolmente dal negozio usurario, al fine di affidare al prudente criterio del magistrato l’affermazione dell’esistenza o dell’inesistenza della frode patrimoniale, desumendo questa da tutte le circostanze di tempo, di luogo, di azione, di bisogno, di approfittamento, offerte dal processo nella singola fattispecie[224].

Conseguente a una simile interpretazione era la riduzione nell’ambito di operativià della norma in esame, ridotta “ad una funzione ancillare rispetto alla disciplina penale dell’usura[225]”, non essendo sufficiente ai fini dell’applicabilità dell’art. 1815, 2° co., c.c. l’eccessività degli interessi pattuiti in mancanza di menomazioni dell’autonomia contrattuale del debitore e della dimostrazione di un suo stato di bisogno di cui il creditore aveva approfittato, ed essendo inoltre preclusa la proposizione dell’azione in sede civile in caso di giudicato penale di assoluzione dall’imputazione di cui all’art. 644 c.p.

L’interpretazione offerta dalla giurisprudenza era criticata poiché non teneva conto del fatto che il legislatore, con l’introduzione dell’art. 1815, 2° co., c.c. aveva inteso individuare una fattispecie autonoma da quella prevista dall’art. 644 c.p., avente propri e specifici requisiti, distinti da quelli previsti per la sussistenza del reato.

Che ai fini dell’operatività dell’art. 1815, 2° co., c.c. non fosse necessaria la sussistenza dei presupposti indicati dalla legge per la fattispecie incriminatrice si riteneva emergesse da un lato, dalla possibilità che, qualora si fossero riscontrati anche gli elementi soggettivi previsti dall’art. 644 c.p., ben avrebbe potuto applicarsi la sanzione penale ivi prevista, senza che ciò, tuttavia, dovesse precludere la diversa scelta di fare valere, sul piano civilistico, il solo dato oggettivo (interessi usurari), la cui prova presenta difficoltà notevolmente inferiori[226].

Inoltre, che per l’operatività del disposto del comma 2 dell’at. 1815 c.c. non fosse necessaria la ricorrenza dei requisiti soggettivi di cui all’art. 644 c.p., è ulteriormente dimostrato dal fatto che quando il legislatore tali requisiti ha voluto ritenere rilevanti anche sul piano civilistico, l’ho ha affermato esplicitamente, com’è avvenuto per l’azione di rescissione ex art. 1448 c.c.[227]

Di fronte ad una simile ricostruzione, che comporta un indubbio restringimento della tutela civilistica dell’usura, parte della dottrina era quindi orientata nel senso di ritenere operante il disposto dell’art. 1815, 2° co., c.c. in presenza di un mero squilibrio oggettivo tra le prestazioni, così da garantire al mutuatario una tutela certamente più rapida e sicura di quella assicuratagli dallo strumento penale.

La giurisprudenza civile , tuttavia, era rimasta vincolata alle sue tradizionali posizioni, e ciò nonostante la giurisprudenza penale, proprio in dipendenza della constatazione che la difficoltà della repressione dell’usura derivava dal carico degli oneri probatori relativi al fattore soggettivo dello stato di bisogno, si fosse progressivamente avviata nel senso della valorizzazione, nell’ambito della fattispecie penalistica dell’art. 644 c.p., della “misura degli interessi” quale fattore da cui dedurre in via presuntiva gli elementi soggettivi del reato[228].

2.2  La tesi di collegamento dell’art. 1815 c.c. con l’azione di rescissione

Secondo altra ricostruzione[229], che pur riconosce il diverso ambito di operatività dell’art. 644 c.p. e dell’art. 1815, 2° co., c.c., ai fini dell’applicabilità di tale disposizione non era sufficiente il mero dato obiettivo della sproporzione tra le prestazioni dei contraenti, dovendo quest’ultima norma essere collegata all’istituto dell’azione generale di rescissione di cui all’art. 1448 c.c., che presuppone l’esistenza di un elemento di carattere soggettivo, vale a dire l’approfittamento di una parte dello stato di bisogno dell’altra.

Secondo tale opinione, quindi, vi era un’identità di principi ispiratori degli artt. 1815, 2° co., c.c. e 1448 c.c., con la conseguenza che gli interessi potevano essere considerati usurari ai sensi dell’art. 1815, 2° co., c.c., solo se, oltre ad essere superiori alla misura legale, vi era un ulteriore elemento –non previsto ma ricavabile in via interpretativa alla luce del collegamento di tale norma con l’art. 1448 c.c.- rappresentato dall’approfittamento dello stato di bisogno in cui versava il mutuatario al momento della conclusione del contratto.

Una parte della dottrina[230] ritiene che ai fini della nozione di interessi usurari sia necessario il requisito soggettivo dell’approfittamento dello stato di bisogno, ma non sulla base di un richiamo alla norma penale, bensì collegando sistematicamente il divieto degli interessi usurari con l’istituto della rescissione per lesione. La sanzione di nullità parziale, con sostituzione autoritativa della clausola nulla, quale prevista dall’art. 1815 comma 2 c.c., è sembrata al legislatore in grado di contemperare nel miglior modo l’interessi delle parti contraenti, eliminando il vantaggio usurario senza d’altra parte costringere il debitore all’immediata restituzione della somma dovuta. Non si tratta quindi di una sanzione più o meno grave rispetto alla rescissione, bensì di una sanzione diversa, ma volta a realizzare, con un adeguamento alla particolare struttura dei contratti di credito, quelle stesse esigenze di tutela del contraente leso, che ispirano l’istituto della rescissione. Di conseguenza l’accostamento, sul piano sistematico, tra rescissione e nullità parziale dei negozi usurari, accostamento che assume pratica rilevanza soprattutto in ordine alla precisazione del requisito soggettivo della fattispecie prevista dall’art. 1815, 2° co, c.c.

Tale orientamento era stato condiviso dalla giurisprudenza [231].

Le teorie soggettivistiche finora esaminate presentano tuttavia talune incongruenze rilevate da altra parte della dottrina, che mira a garantire un più ampio ambito di operatività dell’art. 1815, 2° co, c.c., svincolando da parametri di carattere soggettivo e legandolo esclusivamente alla dimostrazione dell’eccessività degli interessi pattuiti.

2.3  La tesi oggettivistica

Altra parte della dottrina[232] era critica nei confronti di quegli orientamenti secondo cui a integrare il concetto civilistico di usura era necessaria la sussistenza anche di un elemento soggettivo quale l’approfittamento dello stato di bisogno della controparte, sia esso individuato nell’art. 644 c.p. ovvero nell’art. 1448 c.c., ritenendo  invece sufficiente, ai fini della declaratoria di nullità ex art. 1815, 2° co., c.c., il solo requisito obiettivo dell’eccessiva esorbitanza degli interessi, avuto riguardo alle caratteristiche dell’operazione finanziaria e ai rischi che questa comporta per il finanziatore.

Obiettivo di tale teoria era quello di garantire l’applicabilità della sanzione civile pur in assenza di un reato e indipendentemente dall’incriminazione penale, graduando con sanzioni diverse la reazione dell’ordinamento alle manifestazioni dell’autonomia negoziale ritenute illecite[233].

Una simile impostazione permetteva quindi di ampliare i casi in cui era configurabile un’ipotesi di usura civile, potendo sussistere tale fenomeno anche laddove non era riscontrabile né uno stato di bisogno né una condotta di approfittamento, non dovendo questi elementi essere considerati i soli tipizzanti il fenomeno usurario.

Rompere il legame tra norma civile e fattispecie penale significava dunque valorizzare una considerazione “oggettiva” dell’usura, attraverso appunto l’eliminazione, ai fini dell’operatività delle sanzioni civili, di qualsiasi riferimento a condizioni soggettive delle parti.

Ulteriore conferma della piena autonomia dell’art. 1815, 2° co., c.c. dall’art. 644 c.p. si riteneva derivasse dal confronto fra le norme stesse[234].

Il legislatore, secondo questa impostazione,all’art. 1815, 2° co., c.c.,aveva inteso affrontare il problema dell’usura con modalità diverse rispetto a quelle di cui all’art. 644 c.p. sicché, prescindendo la norma civile dall’accertamento di qualsiasi elemento soggettivo, sarebbe stato corretto aggiungere un requisito non previsto, “quando oltretutto proprio la presenza nel sistema di una norma altrimenti orientata, quale quella dell’art. 1448 c.c.,dovrebbe fare pensare che il legislatore , se avesse voluto stabilire analoga disciplina, lo avrebbe affermato espressamente[235]”.

Ulteriore elemento invocato a sostegno della concezione oggettivistica era l’art. 185 dis. trans. c.c., secondo cui “la disposizione del secondo comma dell’articolo 1815 c.c. si applica anche se il contratto di mutuo sia anteriore all’entrata in vigore del codice stesso”; inutile infatti sarebbe stata una simile precisazione se i requisiti per l’operatività di tale norma dovessero essere quelli di cui all’art. 644 c.p., norma già in vigore dal 1930.

Esclusa la necessità di accertare la sussistenza di qualsivoglia elemento di carattere oggettivo, si poneva il problema di stabilire quando un dato interesse doveva essere considerato eccessivo e smodato ovvero congruo, e pertanto lecito.

Era questo un giudizio da effettuarsi in concreto e caso per caso[236], prendendo innanzitutto in considerazione il rischio economico del mutuante[237].

Altro elemento da prendere in considerazione era l’utilità conseguibile dal mutuatario attraverso la somma ottenuta, potendo tale fattore giustificare l’eventuale esorbitanza degli interessi pattuiti, così da escludere la configurabilità di un’ eventuale ipotesi di usura.

Fermo quindi che il concetto di usura doveva essere ricollegato ad un’eccedenza rispetto al costo normale del denaro, tale eccedenza non sempre e necessariamente permetteva di qualificare gli interessi come usurari.

La tesi fin qui riportata, maggioritaria nella dottrina, era stata talvolta condivisa dalla giurisprudenza che, distaccandosi dalla posizione nettamente prevalente, aveva escluso che, ai fini dell’applicabilità dell’art. 1815, 2° co., c.c. assumesse rilevanza la sussistenza di elementi di tipo soggettivo.

In una sentenza del 1950[238], il Tribunale di Torino, si discostava dall’ormai costante orientamento della Suprema Corte di Cassazione, secondo cui il paradigma degli interessi usurari, di cui all’art. 1815, 2° co., c.c. fosse da ricondurre a quello dell’usura ex art. 644 c.p. Il Tribunale di Torino osservava: “ il secondo comma dell’art. 1815 c.c. commina, sic et simpliciter, la sanzione civile della nullità al patto degli interessi usurari. Indebitamente, secondo questo organo giudicante, la norma è stata chiosata nel senso di estendere la fattispecie da essa contemplata al paradigma dell’art. 644 c.p. che richiede, per l’esistenza del reato di usura, anche il requisito, non previsto dalla norma civile, dell’approfittamento dello stato di bisogno del debitore da parte del creditore. Se il legislatore non ha previsto il suddetto requisito soggettivo dell’approfittamento dello stato di altrui bisogno, esso non può essere inventato dall’interprete, ion quanto anche il legislatore civile, quando ha voluto, come nella fattispecie normativa dell’art.1448 c.c., il requisito dell’approfittamento lo ha espressamente previsto.”

Secondo tale orientamento: “ la commistione tra il concetto di usura di cui all’art. 1815, 2° co.,c.c. con quello dell’art. 644 c.p. non è motivata dalla lettera e dalla ratio delle due diverse norme, in quanto il sistema penalistico, ben può prevedere , in fattispecie analoghe a quelle previste dal codice civile, requisiti e condizioni diverse dal sistema del diritto civile per fondare la sua cittadinanza e le sue sanzioni: l’abuso dello stato di bisogno, per l’allarme sociale che suscita e per la pericolosità del soggetto che lo ha praticato, integra la fattispecie penale e soltanto essa; mentre l’interesse usurario represso civilmente è caratterizzato soltanto dalla circostanza che una parte ha applicato un tasso d’interesse riprovato dalla coscienza sociale perché iniquo. La tesi che vuole trapiantare nel codice civile  la norma penale di cui all’art. 644 c.p. introduce, di fatto, una sorta di pregiudizialità penale alla previsione di cui all’art. 1815, 2° co., c.c., senza rendersi conto che in tal caso la norma civilistica sarebbe del tutto pleonastica, perché l’autore di un reato è sempre obbligato alle restituzioni e al risarcimento del danno, ex art. 185 c.c., conseguenti al reato, quindi, anche alla restituzione dell’interesse extra legale, previsto nel caso di usura. Interesse usurario è un interesse smodato ed esorbitante, o comunque l’interesse che la coscienza sociale rifiuta perché esorbitante e iniquo rispetto all’affare concluso tra le parti.”

Era questo, pertanto, un orientamento minoritario, poiché la giurisprudenza assolutamente maggioritaria affermava l’unità del concetto di usura nel campo penale e in quello civile.

2.4 Il problema della sanzione civile e del mutuo usurario

L’art. 1815,2° co., c.c., nella sua formulazione originaria, sanciva la nullità della solo clausola con la quale erano stati pattuiti interessi usurari e la loro contestuale riduzione al tasso legale, ponendosi in tal modo il delicato problema di valutare il significato e le conseguenze della convenzione usuraria[239].

Il problema della nullità o meno del negozio usurario era risolto dalla dottrina dominante in senso negativo[240].

Vi era concordia nell’affermare il principio secondo cui l’antigiuridicità penale non si rifletteva necessariamente sulla validità del contratto, sicché un negozio sanzionato dal punto di vista penalistico poteva essere civilmente valido ed efficace. In proposito si riteneva infatti necessario distinguere se la sanzione penale colpiva il negozio in quanto tale ovvero solo il comportamento di uno dei contraenti[241].

L’applicazione di tale regola faceva sì che il contratto usurario era da ritenersi valido ed efficace, giacché a essere penalmente punitaera solo la condotta di chi si faceva corrispondere interessi usurari, essendo infatti previsto uno strumento di tutela a favore dell’altro contraente, quale appunto la nullità della clausola con cui gli interessi erano stati convenuti.

Era quindi lo stesso art. 1815, 2° co., c.c. a escludere che in presenza di un mutuo usuraio operasse l’art. 1418 ovvero l’art. 1419, 1°co., c.c. – con conseguente caducazione dell’intero contratto a causa della nullità di una solo clausola qualificabile come essenziale – essendo invece eliminata la sola convenzione relativa gli interessi usurari con contestuale automatica riduzione di questi alla misura legale, di modo che alla punizione della condotta dell’usuraio si accompagnava la tutela del debitore e la normalizzazione dell’affare: prevaleva, insomma, in una simile prospettiva, l’esigenza di recuperare l’operazione sul piano economico.

Il legislatore aveva così voluto escludere che l’eventuale applicazione dell’art. 1418 c.c. o dell’art. 1419,1° co., c.c. potesse pregiudicare l’esigenza del mutuatario che, obbligato a restituire quanto ottenuto ion virtù di contratto poi dichiarato nullo, avrebbe potuto rinunciare a denunciare l’usura[242].

Anche la giurisprudenza[243] riteneva che l’art. 1815, 2° co., c.c., integrasse un’ipotesi di nullità parziale e di contemporanea e automatica sostituzione ex art. 1419, 2° co., c.c., della clausola nulla con il tasso legale degli interessi.

Tale impostazione trova conferma anche successivamente all’entrata in vigore della l. n. 108/96: è infatti  stata ritenuta nulla la clausola, contenuta in un contratto di leasing, con la quale veniva pattuita a carico dell’utilizzatore la corresponsione di interessi superiori al tasso soglia vigente al momento della decisione, con la conseguenza che, ferma la validità del contratto di finanziamento, sulle somme oggetto dello stesso gli interessi erano da riconoscere nella misura legale[244].

Occorre peraltro ricordare la presenza di un diverso orientamento interpretativo che riteneva che ad essere nullo era in realtà l’intero contratto di mutuo e non già la singola clausola, ma tuttavia, proprio alla luce del disposto dell’art. 1815, 2° co., c.c., e del meccanismo di sostituzione ivi previsto, il contratto rimaneva comunque valido ed efficace.

Si affermava cioè che, atteso il carattere essenziale della clausola sugli interessi, in assenza del meccanismo di sostituzione automatica espressamente previsto, la nullità di questa non potesse che produrre la nullità totale del contratto ai sensi dell’art. 1419, 1° co., c.c.: in altri termini, a essere nullo era l’intero assetto di interessi cui le parti avevano dato luogo, ma la previsione dell’art. 1815,2° co, c.c., faceva sì che il contratto rimanesse in vita, evitando il prodursi di quegli effetti pregiudizievoli per il mutuatario connessi alla sua caducazione.

2.5 La ripetibilità del pagamento di interessi usurari

In caso di pagamento di interessi usurari, la giurisprudenza ne ammetteva la ripetibilità nei limiti dell’eccedenza rispetto alla misura legale, non trattandosi di prestazione effettuata in esecuzione di doveri morali o sociali. Secondo il parere della Corte di Cassazione[245], la norma contenuta nell’art. 1284, comma 3, c.c., secondo la quale gli interessi superiori alla misura legale, non risultanti da atto scritto, vanno ridotti a quella legale, troverebbe temperamento nel principio di irripetibilità di quanto sia spontaneamente pagato dal mutuatario. E tale principio , espressamente formulato nell’art. 1830 c.c. abrogato, non sarebbe stato ripetuto nel nuovo codice in quanto al legislatore è sembrata inutile tale formulazione, rientrando la relativa corresponsione tra le obbligazioni naturali per le quali l’art. 2034 non ammette ripetizione.

Dottrina e giurisprudenza concordano quindi nel ritenere che la ripetibilità deve ammettersi soltanto quando la percezione di interessi in misura eccedente quella legale abbia carattere usurario, non potendo ritenersi né morale né sociale l’obbligazione inficiata da usura.

Ciò non è in contrasto con il disposto dell’art. 2035 c.c., secondo cui chi ha eseguito una prestazione per uno scopo che, anche da parte sua, costituisce offesa al buon costume, non può riottenere quanto corrisposto[246].

Per quanto concerne l’entità dell’importo cui l’usurato ha diritto, occorre prendere in considerazione ciò che è stato effettivamente percepito dall’usuraio[247].

  1. Il secondo comma dell’art. 1815 c.c. dopo la riforma del 1996

A seguito  dell’intervento della l. n. 108/1996, il 2° co. dell’art. 1815 c.c. dispone che “se sono convenuti interessi usurari la clausola è nulla e non sono dovuti interessi”.

La nuova norma presenta, dunque, un duplice contenuto: la previsione della nullità della clausola con cui sono stati pattuiti interessi qualificabili come usurari nonché l’inesistenza dell’obbligo del debitore di corrispondere alcun interesse a favore del mutuante, in deroga al principio stabilito dall’art. 1284 c.c. secondo cui i debiti pecuniari producono interessi di pieno diritto.

Atteso il carattere fortemente sanzionatorio dell’art. 1815, 2° co., c.c. – che prevede che nel caso siano pattuiti interessi usurari il mutuatario non deve corrispondere alcun interesse, neppure nella misura legale – è essenziale individuarne l’ambito di operatività.

Parte della dottrina si è interrogata se la nullità di cui all’art. 1815, 2° co., c.c., colpisca la sola clausola con cui sono pattuiti gli interessi ovvero si estenda a tutte le clausole che impongono al mutuatario di corrispondere determinate somme al concedente il prestito[248].

Questione analoga si pone nelle ipotesi in cui il mutuatario si è obbligato a corrispondere determinate somme a terzi in virtù di contratti conclusi al momento della concessione del credito, è ciò al fine di ottenere il credito stesso.

Un’altra questione di particolare rilevanza attiene al tema dell’applicabilità degli interessi usurari agli interessi moratori, qualora siano stati pattuiti a un tasso talmente elevato da rendere l’operazione assimilabile alla convenzione usuraria: l’applicazione dell’art. 1815, 2° co., c.c. agli interessi moratori da un lato consentirebbe di colpire ogni tentativo di elusione della norma stessa e, dall’altro, estenderebbe l’ambito di tutela da essa riconosciuto oltre i confini del mutuo, ricomprendendovi tutte quelle ipotesi in cui, a fronte di un’obbligazione pecuniaria, la misura degli interessi di mora pattuiti sia manifestamente eccessiva.

In proposito si rilevano due opposti orientamenti.

Secondo il primo[249], stante il carattere marcatamente affittivo della sanzione prevista dall’art. 1815, 2° co., c.c., desta perplessità l’applicazione di tale norma al di là della fase fisiologica del rapporto- e quindi agli interessi pattuiti in caso di ritardo nell’esecuzione dell’obbligazione dedotta nel contratto- sicché è da escludere un’interpretazione estensiva.

Già nel vigore del testo previdente del 2° comma dell’art. 1815 parte della dottrina[250] riteneva che agli interessi moratori fosse applicabile unicamente l’art. 1384 c.c. che consente al giudice di ridurre la penale manifestamente eccessiva: alla luce di un’interpretazione letterale dell’art. 1815 c.c. che tenesse conto del collegamento tra primo e secondo comma, si riteneva infatti che gli interessi cui si riferiva il secondo comma fossero esclusivamente quelli convenzionali, i soli di cui si occupa il primo comma della citata norma, con esclusione, pertanto, di quelli moratori.

Tale ricostruzione sembra essere ritenuta valida anche dopo il mutamento legislativo previsto attuato dalla l. 108/1996, e la nuova disciplina relativa agli interessi usurari si riferisce soltanto a quelli dati o promessi in corrispettivo, non trovando pertanto applicazione rispetto agli interessi moratori. Ciò tuttavia non rende comunque impunite eventuali pattuizioni elusive [251].

E’ invece, proprio sulla base dell’opportunità di evitare aggiramenti della disciplina dell’usura di cui all’art. 1815, 2° co., c.c., che altra parte della dottrina[252] estende l’applicabilità di tale norma anche agli interessi moratori, alla luce della necessità di provvedere a una valutazione globale dell’operazione economica cui accede la pattuizione di interessi[253].

La giurisprudenza ha talvolta condiviso tale orientamento, affermando che gli interessi moratori devono essere computati per la determinazione del tasso rilevante ai fini della disciplina dell’usura[254].

In altri termini, alla luce delle modifiche introdotte dalla l. n. 108/96, si ritiene che non vi sia alcun motivo per escludere l’applicabilità di tale normativa anche agli interessi moratori[255].

Nonostante il legislatore, con la l. n. 108/96, abbia tentato di contrastare il fenomeno usuraio, sono state sollevate perplessità sulla possibilità che la nuovo formulazione dell’art. 1815, 2° co., c.c., sia effettivamente in grado di perseguire tale obiettivo[256].

In effetti, nella pratica, difficilmente un contratto usuraio è documentato per iscritto, risolvendosi nella dazione da parte dell’usuraio di una somma di denaro a fronte della quale l’usuraio emette una cambiale per un ammontare pari alla restituzione dell’importo mutuato e degli interessi[257].

E’ stato ancora evidenziato come la fattispecie penale contempli delle ipotesi che, per quanto lo si estenda, non rientrano nell’ambito di applicazione dell’art. 1815, 2° co. , c.c.[258]

Alla luce di tali considerazioni, pertanto, l’art. 1815, 2° co., c.c., è finito coll’essere, in concreto, norma di problematica attuazione.

  1. La nuova nozione di “interessi usurari”

Anteriormente alla l. n. 108/96, l’individuazione della nozione di “interessi usurario” rilevante ai sensi dell’art. 1815, 2° co., c.c. era controversa.

Come già esaminato, secondo una tesi cd. “soggettivistica” era necessaria, tra l’altro, la presenza di un elemento di carattere soggettivo rappresentato dall’approfittamento dello stato di bisogno del debitore, elemento il cui fondamento era individuato nell’art. 644 c.p. ovvero nell’art. 1448 c.c.

Dopo le modifiche apportate in sede di riforma, tale ricostruzione non è più sostenibile. Dall’art. 644 c.p., infatti, è venuto meno ogni riferimento alle condizioni soggettive delle parti e, per effetto del mutato quadro normativo, non è più individuabile neppure alcun collegamento sistematico tra l’art. 1815, 2° co., c.c. e l’art. 1448 c.c.

Altro orientamento, riteneva essere sufficiente, ai fini della sussistenza di un interesse usurario ex art. 1815, 2° co., c.c., la presenza del solo elemento dell’oggettiva esorbitanza ed eccessività degli interessi convenuti.

La nuova formulazione dell’art. 644 c.p. permette di affermare che in sede di riforma ci sia mossi nella direzione proposta da tale corrente interpretativa, essendo oggi il reato di usura collegato al mero superamento del tasso qualificabile come usurario alla stregua di rilevazioni trimestrali ovvero, sussistendo determinati presupposti e pur in presenza di interessi inferiori a tale limite, alla sproporzione tra le prestazioni dei contraenti.

Alla luce di ciò, la dottrina è oggi sostanzialmente concorde nel ritenere che, nell’individuazione del concetto di interesse usurario ex art. 1815, 2° co., c.c., occorra fare riferimento ai criteri forniti dall’art. 644 c.p. ai fini dell’accertamento dell’usurarietà, rafforzandosi in tal modo il legame tra la fattispecie penale e la norma civile[259].

Sembra indubbio, pertanto, che la nozione di interesse usurario di cui al 2° co., dell’art. 1815 c.c. non possa che essere ricostruita sulla base della disciplina che l’art. 644 c.p. detta ai fini dell’individuazione della soglia di usurarietà, con conseguente subordinazione della norma civile alla disciplina contenuta nel codice penale e in un’ottica di unitarietà dell’intero ordinamento, dovendo dunque ritenersi definitivamente falliti i tentativi diretti a individuare una forma autonoma di usura civile.

L’assunto secondo cui per effetto della l. n. 108/96 è stato fissato un unico criterio operante sia in sede penale che in quella civile per l’accertamento del carattere usurario degli interessi pattuiti è condiviso dalla giurisprudenza[260].

È pertanto da escludere che possa individuarsi una nozione di usurarietà diversa o ulteriore rispetto a quella ricavabile dai criteri di cui all’art. 644 c.p., anche perché l’ampliamento dell’ambito di operatività della fattispecie penale non sembra lasciare spazio alla configurabilità di interessi qualificabili come usurari sulla base di un presunto criterio civilistico, autonomo e distinto da quello dettato dal codice penale.

Si consideri, inoltre, che il legislatore del 19996 ha modificato l’art. 1815, secondo comma, c.c., aggravando le conseguenze della sancita nullità della clausola contrattuale che stabilisce interessi usurari; tali conseguenze, consistenti nell’azzeramento degli interessi, sembrano adeguate solo ai casi più gravi, cioè a quelli coincidenti con il reato di usura o ancora, quando questo sia venuto meno per morte del reo o per prescrizione, ma non a situazioni “minori” che rimangono, dunque, irrilevanti anche sotto un profilo civilistico[261].

Nonostante lo stretto collegamento tra la disciplina penale e civile, è pacifica l’irrilevanza, ai fini della tutela civilistica, dell’accertamento della fattispecie incriminatrice, essendo la disposizione del secondo comma dell’art. 1815 c.c. svincolata dalla necessità di una condanna penale per usura[262].

Qualora il mutuatario agisca nella solo sede civile, laddove il giudice accerti la sussistenza del reato di usura, lo stesso dovrà comunque provvedere a trasmettere gli atti al giudice penale, trattandosi di reato perseguibile d’ufficio e non già a querela della persona offesa.

  1. Squilibrio e usura nei contratti: le questioni lasciate aperte dalla l. n. 108/96

Il dibattito sul trattamento della sproporzione tra le prestazioni contrattuali ha ripreso vigore in seguito all’emanazione della l. 108/96 sull’usura, che modificando, anzitutto, l’art 644 c.p. e l’art. 1815, 2° co. c.c., ha riproposto la connessione tra piano penale e piano civile di repressione del fenomeno usuraio.

L’intervento legislativo del ’96 ha comportato, dunque, l’introduzione di un nuovo e più articolato testo della disposizione del codice penale che sanziona il reato, identificandolo in più fattispecie criminose, alcune delle quali caratterizzate ulteriormente da delle aggravanti[263].

E’ stato stabilito, in particolare, un limite oltre il quale “ gli interessi sono sempre usurari”, e “il farsi dare o promettere” tali interessi integra il reato di usura, senza che sia più necessario né l’approfittamento, né lo stato di bisogno del danneggiato. Il limite è quello dell’ ultra dimidium del tasso pattuito concretamente rispetto ad un tasso cd. “soglia”, fissato trimestralmente in via amministrativa. Il legislatore ha poi riformulato l’art. 1815, 2° co. c.c., disposizione che, come esaminato, attiene al solo contratto di mutuo, in modo tale da far supporre all’interprete, di aver voluto aggiungere alle sanzioni minacciate sul versante penale, un’ulteriore sanzione civile consistente nella totale perdita degli interessi sulla somma mutuata.

Diversi sono i profili problematici sottesi all’applicazione della nuova legge: alcuni attengono a questioni di diritto transitorio; altri si riferiscono alla possibile estensione della disciplina specifica per il mutuo a contratti non espressamente ricompresi; altre ancora riguardano il tema dell’illiceità penale del contratto usurario.

A distanza di oltre un decennio dall’entrata in vigore della l. 108/96, nonostante gli sforzi di dottrina e giurisprudenza, molti restano ancora gli interrogativi, specie sul piano civile, connessi con le modifiche introdotte dalla legge sull’usura.

Dal momento che la nullità è espressamente comminata solo per il mutuo usurario, mentre la legge prevede la possibilità dell’usura anche in altri tipi contrattuali, una prima questione attiene alla “sorte” civilistica di questi “altri” contratti[264].

Occorre sottolineare che , in ogni caso, gli interessi usurari ed il loro trattamento civilistico, seppure collocati nel codice civile tra le disposizioni relative al mutuo, devono valere per ogni rapporto contrattuale produttivo di interessi e, quindi, per l’interesse usurario generalmente considerato ovvero a prescindere dai livelli di usura che si manifestano in concreto. Questa considerazione fa sorgere un ulteriore interrogativo , e cioè se la sanzione civilistica della perdita totale degli interessi si applichi autonomamente rispetto all’illiceità penale del fatto; in altri termini  essendo la modifica dell’art. 1815, 2° co., c.c., inserita all’interno di una legge che definisce il tasso usurario ( sia pure ai fini penali) tutto ciò implichi che questa definizione valga anche a fini civili[265]. Il quesito, per la verità, si risolve già da sé se si considera che la norma civilistica in questione, e cioè il secondo comma dell’art. 1815 c.c., nella sua concisa formulazione testuale non richiede altro, per la sua applicabilità, eccetto la pattuizione di un interesse, usurario quanto alla misura, a prescindere da un’eventuale coincidenza con la sanzione penale: l’autonomia della sanzione civile della non debenza degli interessi, qualora siano usurari, dunque non è in discussione, in quanto la legge rifiuta oggettivamente l’interesse sproporzionato, anche se la sanzione civile nella sua gravità, risente della tipica illiceità penale.

Oltre che agli interessi usurari, in quanto superiori al tasso soglia fissato d’autorità, la qualifica usuraria, nella seconda fattispecie prevista dalla l. n. 108/96 –fattispecie per la quale si richiede un accertamento in concreto-  è attribuita dal novellato art 644, 2° co., secondo periodo, c.p., agli interessi “anche se inferiori a tale limite” e, in genere, ai “vantaggi e compensi” che risultino “comunque sproporzionati”, avuto riguardo però, in questo caso, alle “concrete modalità del fatto”, a patto che chi li ha dati o promessi versasse “in condizioni di difficoltà economica o finanziaria”. Non vi è, in questa ipotesi, un’indicazione quantitativa della sproporzione, verificata la quale scatta oggettivamente il reato, ma sono dati una serie di requisiti da valutare complessivamente per desumere il carattere usurario della prestazione.

A questo proposito la dottrina si è interrogata sul rapporto tra sproporzione ultra dimidium (sicuramente usuraria) e sproporzione infra dimidium ( specie nelle ipotesi di esosità degli interessi sebbene sotto “soglia”)[266].

Altra questione che ha interessato i primi rilievi critici degli interpreti della l. n. 108/96, è quella relativa alla variabilità del tasso soglia –il quale può essere superato al momento della pattuizione e non esserlo, invece, se preso in considerazione in un altro momento di vita del mutuo o viceversa- e, quindi, del trattamento di questa variabilità del tasso in rapporto al tempo al quale riferire “i coefficienti dell’usura”[267].

  1. Le operazioni finanziarie  “a rischio di usura”: la classificazione per categorie omogenee

Con il D.M. 23 settembre 1996[268], il Ministero del Tesoro ha dato attuazione alla previsione dell’art. 2, secondo comma, legge n.108/96, stilando la prima classificazione delle operazioni creditizie per categorie omogenee. Il decreto in oggetto ha individuato le seguenti sette categorie di operazioni cui riferire i vari tassi, definite ulteriormente, sia sotto il profilo della configurazione giuridica che sotto il profilo tecnico, in funzione della garanzia, della durata e di altri aspetti, dalle Istruzioni per la rilevazione del T.E.G.M.[269], emanate dalla Banca d’Italia con comunicazione del 30 settembre 1996[270]

  1. a)     Aperture di credito in conto corrente. Si tratta delle operazioni, con o senza garanzia reale o personale, regolate in conto corrente, in base alle quali la banca si obbliga a tenere a disposizione del cliente una somma di denaro a tempo indeterminato, con facoltà del cliente di ripristinare la disponibilità. Rientrano in questa categoria anche i passaggi a debito dei conti non affidati, gli sconfinamenti sui conti correnti affidati rispetto al fido accordato ed i crediti personali erogati sotto forma di apertura di credito in conto corrente.
  2. b)    Finanziamenti per anticipi su crediti e documenti e sconti di portafoglio commerciale. Vi rientrano i finanziamenti a valere su effetti e altri titoli di credito, le operazioni di finanziamento poste in essere sulla base di un contratto di cessione del credito e le oprazioni di sconto di portafoglio commerciale. Tali operazioni rientrano in questa categoria indipendentemente dal fatto che le stesse siano o meno contabilmente gestite in conto corrente.
  3. c)     Credito personale. Si tratta dei finanziamenti erogati: per far fronte a esigenze generiche di spesa o consumo personali, familiari o relative all’esercizio dell’attività professionale del cliente; in un’unica soluzione e con previsione di rimborso secondo un piano di ammortamento. Qualora tali finanziamenti vengano erogati sotto forma di apertura di credito in conto corrente, essi rientrano nella prima categoria.
  4. d)    Credito finalizzato. Si tratta dei finanziamenti rateali per l’acquisto di uno o più specifici beni di consumo.
  5. e)     Factoring. Si tratta degli anticipi erogati a fronte di un trasferimento di crediti commerciali, pro solvendo o pro soluto, da un’impresa a un intermediario specializzato, il quale assume l’impegno di riscossione.
  6. f)      Leasing. Sono i contratti di locazione finanziaria, aventi ad oggetto beni materiali o immateriali, in base ai quali il conduttore ha facoltà di divenire proprietario dei beni locali al termine della locazione, dietro versamento di un prezzo stabilito.
  7. g)     Mutui. Si tratta dei finanziamenti, con durata superiore ai 18 mesi, a tasso fisso o variabile, i quali siano assistiti, anche parzialmente da garanzie reali, non rientrino nelle forme tecniche del conto corrente o del prestito personale e prevedano l’erogazione in un’unica soluzione, con rimborso tramite il pagamento di rate comprensive di capitale e di interessi[271].
  8. h)    Altri finanziamenti a breve ed a medio/lungo termine. Questa categoria ricomprende tutti i finanziamenti non rientrati nelle categorie precedenti. In particolare i finanziamenti: -non assistiti da garanzie reali; -che prevedano due o più erogazioni, anche se assistite da garanzie reali; -che prevedano il pagamento dell’intera quota capitale e/o degli interessi  in un’unica soluzione.

Il successivo decreto ministeriale del 24 settembre 1997[272] ha aggiunto l’ulteriore categoria dei prestiti contro cessione del quinto dello stipendio.

L’accertamento dell’usura richiede, pertanto, che un determinato contratto venga previamente inquadrato nell’ambito di una delle operazioni già classificate[273].

La Banca di’Italia ha, viceversa, escluso dalla rilevazione del T.E.G.M. (Tasso effettivo globale medio[274]) una serie di tipologie operative. Dal punto di vista oggettivo, sono escluse le seguenti categorie:

  1. a)     operazioni in valuta estera o con clausole di indicizzazione, collegate a parametri valutari;
  2. b)    posizioni in “sofferenza”, ovvero esposizioni nei confronti di soggetti in stato di insolvenza, o sostanzialmente equiparabili;
  3. c)     crediti ristrutturati, per i quali uno o più intermediari, nel concedere un differimento nel pagamento di un debito, rinegozia a tassi inferiori di quelli di mercato;
  4. d)    crediti in corso di ristrutturazione, per i quali il soggetto sia indebitato nei confronti di una pluralità di intermediari ed abbia presentato istanza di consolidamento da non più di 12 mesi;
  5. e)     operazioni a tasso agevolato, ovvero finanziamenti concessi ad un tasso inferiore di quello di mercato, in virtù di provvedimenti legislativi i quali prevedano il concorso agli interessi e/o l’impiego di fondi di provenienza statale, regionale o di altro ente pubblico;
  6. f)      operazioni a tassi promozionali, ovvero finanziamenti concessi a tassi di favore nell’ambito di campagne di promozionali limitate nel tempo;
  7. g)     operazioni a tassi convenzionati, ovvero finanziamenti concessi a tassi di favore, sulla base di convenzioni le quali prevedano l’applicazione di tassi inferiori o uguali a quelli praticati ai dipendenti 8della banca, dell’intermediario o di società del gruppo di appartenenza), nonché tassi superiori fino ad un punto percentuale, purché non superiori al “prime rate” (ovvero il tasso di interesse sui prestiti concesso alla clientela di primo ordine) praticato dall’intermediario concedente.

Sotto il profilo soggettivo la Banca d’Italia ha precisato che formano oggetto di rilevazione soltanto le operazioni poste in essere con le “famiglie dei consumatori” e le “unità produttive private”, secondo le Istruzioni relative alla classificazione della clientela per settori e gruppi di attività economica, emanate dall’Organo di Vigilanza con la circolare dell’11 febbraio 1991. Restano pertanto esclusi i finanziamenti erogati a soggetti non residenti, amministrazioni pubbliche, imprese di assicurazione, istituti di credito,intermediari finanziari, istituzioni sociali private ed unità non classificabili.

Tutti i soggetti e le operazioni esclusi dalla rilevazione non sono, tuttavia, automaticamente esclusi anche dall’applicazione della normativa sull’usura, in quanto agli stessi potrà eventualmente applicarsi, qualora ne ricorrano i presupposti, l’art. 644, comma 3, c.p.

  1. L’usura nei contratti bancari

I contratti bancari sono, in genere, contratti di adesione, in quanto il cliente aderisce al tipo contrattuale unilateralmente predisposto dalla banca. Non è .tuttavia, con la manifestazione di volontà dell’aderente che il contratto si perfeziona, in quanto la banca, se pure si offre al pubblico di contrattare a determinate condizioni, mantiene la propria libertà di consentire il perfezionamento del contratto, riservandosi di valutare la persona dell’aderente nei suoi diversi aspetti di moralità e di solvibilità; in sostanza la valutazione del cliente risulta essere, quanto meno nella sfera dei motivi, determinante per la banca[275].

Si tratta poi di contratti di durata, in quanto, di norma , i contratti bancari si sviluppano nell’arco di un certo tempo; e nei contratti di credito il tempo è elemento essenziale. Qualora le parti non si vincolino per un determinato tempo, vale il principio per cui ognuna di esse è libera di porre fine al rapporto con dichiarazione unilaterale di volontà /artt. 1373, 1845, 1855 c.c.). una specifica facoltà di recesso è, comunque, riconosciuta al cliente, e recentemente tale facoltà è stata “potenziata” (ex art. 118 t.u.b. [276]), qualora la banca modifichi unilateralmente tassi , prezzi o condizioni di contratto in senso meno favorevole alla controparte. Le fonti codicistiche di tutela del cliente dei servizi bancari sono tradizionalmente date dalle disposizioni in materia di condizioni generali del contratto (art. 1341 c.c.); di contratto concluso mediante moduli o formulari (art. 1342 c.c.); di interpretazione contro l’autore della clausola unilateralmente predisposta ( art. 1370 c.c.): si tratta di regole che apprestano una tutela prevalentemente formale del contraente debole, individuato – con implicito riferimento alla contrattazione di massa – come contraente non predisponente le condizioni contrattuali[277].

Quando sono regolati in conto corrente, i contratti bancari implicano la reiterazione della prestazione senza che ciò porti a modificare il rapporto[278]. Per la conclusione di tali contratti è richiesta ormai generalmente la forma scritta ad substantiam[279] ; è previsto, altresì, un contenuto minimo obbligatorio del contratto[280].

Le banche hanno l’obbligo di pubblicizzare adeguatamente tassi e condizioni praticati nei riguardi della clientela mediante l’affissione di appositi avvisi all’interno di ciascuna dipendenza: i dati resi in tal modo pubblici, per quanto non equivalgano ad un’offerta al pubblico ex art. 1336 c.c., condizionano, tuttavia, la successiva condotta della banca che non può, pena la nullità della pattuizione, prevedere nei singoli contratti, tassi, prezzi o condizioni meno favorevoli per la controparte rispetto a quelli che essa ha divulgato. Nei casi di riconosciuta nullità o di inesistenza delle clausole è previsto l’inserimento automatico di pattuizione sostitutive (art. 117, 7° co. t.u.b.), imposte d’autorità con un intento volutamente sanzionatorio per la banca ed, invece, di tutela per il cliente non predisponente il contratto. Ulteriori garanzie per il cliente per il cliente sono date dalle norme che prevedono comunicazioni periodiche sullo svolgimento del rapporto (art. 119 t.u.b.), di recente ampliate nel caso di modifica unilaterale di condizioni contrattuali, nonché quelle che fissano al tempo del versamento ovvero del prelevamento il dies – rispettivamente a quo e ad quem di calcolo degli interessi in modo da evitare ingiustificate detrazioni di valuta[281].

A parte i profili penali che le nuove disposizioni di cui alla l. n.108/96 sull’usura comportano a carico degli operatori del settore bancario, la recente disciplina ha, senza dubbio, generato una netta inversione di tendenza rispetto al passato in cui alla libera determinazione dei livelli di tasso secondo la pura logica di mercato, facevano seguito tutta una serie “abusi” delle condizioni contrattuali praticate dalle banche alla clientela.

Nel 1996 è stato così introdotto un meccanismo di individuazione in via amministrativa, per quanto operata sulla base di riferimenti statistici, del tasso globale medio oltre il quale gli interessi si definiscono usurari, prevedendo la nullità delle pattuizioni usurarie e la configurabilità del reato di usura a carico delle istituzioni bancarie.

Il superamento del tasso effettivo medio (e cioè del tasso risultante da specifiche rilevazioni di mercato pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale e aumentato della metà) genera una presunzione assoluta di usurari età della prestazione dell’interesse praticato (cd. usura oggettiva o in astratto); in secondo luogo, l’usura non è esclusa qualora l’interesse pattuito o percepito, pur collocandosi al di sotto della soglia di legge, appare sproporzionato rispetto alle somme erogate, avuto a riguardo alle concrete modalità del fatto, nonché alle difficoltà economiche e finanziare del debitore.

La nullità degli interessi pattuiti in eccedenza rispetto alla soglia di usura (art. 1815, 2°co., c.c.) impedisce oggi di sostituire il maggior tasso con il tasso legale (come nel previgente art. 1815,2° co.,c.c.), comportando, di fatto, la gratuità del mutuo o, al limite, la riduzione del contratto ad equità, qualora si ritenga di poter inserire nel contratto in corso ai sensi dell’art. 1339 c.c., una sorta di adattamento che consenta di ricondurre l’interesse sotto la soglia usuraria, con un effetto implicito di raccordo della disciplina dell’usura con le immutate disposizioni sulla rescissione[282].

Le norme della l. 108/96 hanno poi, elevato il livello di guardia dei consumatori di credito su un altro aspetto dei contratto bancari in relazione al quale possono emergere (e nella prassi giurisprudenziale sono diventati molto numerosi i relativi casi) profili di usurari età della prestazione richiesta alla clientela: ci si riferisce alla cd. capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi o “anatocismo”, che abbiamo  sopra trattato, e che si caratterizza per costituire un meccanismo giustificato dalle banche come prassi consolidata avente fondamento normativo e non semplicemente negoziale, la quale comportava, di fatto, per i clienti, l’addebito sui conti con cadenza trimestrale, anche oltre i limiti consentiti dall’art 1283 c.c., di interessi passivi, i quali capitalizzandosi, diventavano essi medesimi produttivi di ulteriori interessi.

Il meccanismo di calcolo del Tasso annuo effettivo globale (TAEG) su cui si incentra la legge sull’usura ed, in particolare, la nuova fattispecie cd. di usura oggettiva o in astratto, caratterizza anche la disciplina del credito al consumo ovvero la concessione, nell’esercizio di un’attività commerciale o professionale, di credito sotto forma di dilazione di pagamento, di finanziamento o di altra analoga facilitazione finanziaria a favore di una persona fisica che agisce per scopi estranei all’attività imprenditoriale o professionale eventualmente svolta (consumatore)[283]. Il cliente ha, infatti, diritto di conoscere previamente il reale costo complessivo del finanziamento che comprende,tra l’altro, l’eventuale costo di interposizione di un terzo(ove necessaria), gli interessi e tutti gli oneri da sostenere per utilizzare il credito (art.122, 1° e 3° co., t.u.b.).

  1. L’ipertutela accordata all’usurato

La scelta effettuata in sede di riforma secondo cui, se sono convenuti interessi usurari, non solo la relativa clausola è nulla ma nessun interesse deve essere corrisposto, ha destato non poche perplessità[284].

È proprio l’“ipertutela” che viene accordata all’usurato a essere criticata, soprattutto alla luce del fatto che, secondo la l. n. 108/96, sono legittimati a invocare tale tutela anche soggetti che si sono determinati a richiedere mutui con interessi esorbitanti pur in assenza di una condizione di difficoltà economica o bisogno che ne abbia menomato la libertà di determinazione.

La previsione dell’assoluta non debenza di interessi neppure nella misura legale, introduce per il delitto di usura una sanzione “atipica” di natura civilistica la quale è in diretto contrasto con la regola del “costo” della merce denaro, di ovvia sperimentazione in ogni economia di mercato e recepita dall’ordinamento giuridico sotto forma di principio della “naturale” onerosità del prestito di denaro, per cui il mutuo si presume concesso dietro pagamento di interessi (art. 1815, 1° co., c.c.). l’esenzione dall’obbligazione di corrispondere interessi quantomeno nella misura legale a fronte di una somma di denaro effettivamente percepita dal mutuatario, si traduce in un vantaggio aggiuntivo per la parte offesa del delitto di usura alla quale viene riconosciuto, oltre al generale diritto alle restituzioni e al risarcimento dei danni morali e materiali spettanti a ogni vittima di reato a mente dell’art. 185 c.p., anche il diritto a corrispondere zero interessi per il periodo di tempo in cui comunque ha goduto del capitale mutuato a interessi superiori della metà alla media ufficiale, e cioè usurari[285].

Il sistema delineato dalla l. n. 108/96 determina quindi una deviazione dal principio dell’equità: al privilegio di cui gode il mutuatario, che continua a beneficiare delle somme ottenute senza dover corrispondere alcunché, si accompagna infatti il pregiudizio del mutuante che, non potendo vantare alcuna pretesa sugli interessi convenuti, non può trarre alcuna utilità dal negozio di cui è parte.

Se il fine primario della normativa sull’usura è quello di eliminare i negativi risvolti sociali e, soprattutto, economici che il fenomeno usurario determina, e se, dunque, l’oggetto primario e diretto della tutela è l’interesse latu sensu superindividuale, non si comprende perché beneficiario della sanzione civile debba essere il privato mutuatario che già adempiente sarebbe stato tutelato dall’originario meccanismo della sostituzione degli interessi usurari con quelli legali, specie una volta eliminati quei presupposti oggettivi e soggettivi (stato di bisogno e approfittamento) che nel previdente sistema ne imbrigliavano e ne rendevano oltremodo difficile l’operatività[286].

Tutt’altro che remota, pertanto è la possibilità che un soggetto accetti di ricevere prestiti a un tasso d’interesse elevato e tale da integrare una fattispecie usuraria in base ai parametri oggettivi di cui all’art. 644 c.p. allo scopo di beneficiare del fatto di potere godere delle somme mutuate senza dover pagare alcun corrispettivo.


[1] La riforma fu operata con la 1. 7-4-1900. Al riguardo, Esmein P., Radouant J., Gabolde G., in Planiol M., Ripert G., Traité pratique de droit civil français, VII, 2, Paris, 1954, p. 215 s.

[2] L’art. 1231 c.c. del 1865 contemplava, infatti, solo la regola secondo cui gli interessi erano “dovuti dal giorno della mora, senza che il creditore sia tenuto a giustificare alcuna perdita”.

[3] Per tutti, Messa G.C., L’obbligazione degli interessi e le sue fonti, Milano, 1932, p. 228 ss. (che contrappone alla mora, nel quadro della fonte legale degli interessi, appunto la “speciale ragione di equità”). All’equità riconduce (ma solo sul piano storico) la giustificazione degli interessi corrispettivi, Bolaffio L., Il codice di commercio italiano, I, Verona-Padova-Torino, 1883, p. 506, nota 1.

[4] I due termini erano considerati in genere equivalenti (Messa G.C., op. cit., p. 229), anche se una certa preferenza andava alla denominazione di corrispettivi (Polacco V., Le obbligazioni nel diritto civile italiano, Roma, 1915, p. 645; ma v. Giorgi, G., Teoria delle obbligazioni nel diritto moderno italiano, VII, Firenze, 1924, p. 197), soprattutto per merito di Bolaffio L., op. cit., p. 505 s. e L’interesse moratorio e l’interesse corrispettivo, in Temi ven., 1893, p. 35. Compensativi si denominavano da taluno gli interessi eventualmente attribuiti in misura maggiore di quella legale in caso di mora (danni-interessi compensati­vi: Modica I., I danni-interessi compensativi nel diritto civile italiano, Torino, 1913, pp. 32 ss.); terminologia corrispondente a quella ancora impiegata in Francia in relazione agli interessi attribuiti (ai sensi dell’art. 1153, 4° comma, frutto delle modifiche apportate dalla 1. 7-4-1900) in riparazione del “pregiudizio indipendente dal ritardo” causato dalla malafede del debitore; interessi il cui tasso e la cui decorrenza rientrano nella piena discrezionalità del giudice: Derrida J., voce Dommage-intérets, in Enc. jur. Dalloz (civ.), Paris (1972), nn. 231 e 239 e, per puntualizzazioni, Malaurie P., in D., 1974, j., p. 473.

[5] Così, Vita C., Interessi (diritto civile), in Nuovo Dig. it., VII, Torino, 1938, p. 53, il quale concludeva che, in relazione alla distinzione degli interessi legali in moratori e corrispettivi, “la linea di confine tra le due sottoclassi è piuttosto tenue, e spesso non è né agevole né sicuro il discernere se predomini l’elemento moratorio o quello corrispettivo”. Del resto, lo stesso Bolaffio L., op. cit., p. 506, affermava che “l’interesse legale è dunque il genere; l’interesse moratorio la specie”.

[6] Pothier R.J., Traité des obligations, Paris, 1770, n. 170.

[7] Pothier R.J., Traité du contrat du prét de consomption, Paris, 1770, n. 53 e ss. e spec. n. 78 e s. per la tenace esclusione della liceità dell’interesse anche in caso di destinazione produttiva del prestito. Unica eccezione era costituita dagli intéréts compensatoires, quale dédommagement di perdite concretamente subìte dal creditore (ivi, n. 117 e ss.); il loro riconoscimento si esauriva, però, nel foro della coscienza, non essendo considerati aziona­bili, al fine di evitare facili aggiramenti della regola generale (n. 124).

[8] Nei lavori preparatori del BGB tutta la discussione si incentrò, infatti, sulla fissazione di un tasso di interesse tale non solo da equivalere a quello realizzabile con l’investimento del capitale, ma da assicurare senz’altro al debitore la possibilità di sostituire la somma dovutagli: Mugdan B., Die gesammten Materialien zum Bürgerlichen Gesetzbuch für das Deutsche Reich, Bd I, 1899, pp. 1234 ss.

[9] Turgot A.J., Réflections sur la formation et la distribution des richesses, Paris, 1766 (tr. di Rebuffa G., Riflessioni sulla formazione e la distribuzione delle ricchezze, Roma, 1975) Passo trascritto in Mazzoni C.M., Frutti civili ed interessi di capitale, in Quaderni di Giurisprudenza Commerciale, 75, Milano, 1986, p. 19.

[10] Turgot A.J., op. cit.

[11] Mazzoni C.M., op. cit., p. 31.

[12] Al riguardo v. soprattutto, anche per completi riferimenti giuridici ed economici, Simonetto E., I contratti di credito, Padova, 1953, p. 12 ss.: l’inquadramento si ricollega alla teoria dell’uso o del godimento (Nutzungstheorie) che ha influenzato profondamente le legislazioni vigenti.

[13] Cosi, Ascarelli T., Le obbligazioni pecuniarie, in Commentario del codice civile, a cura di Scialoja A. Branca G., Libro quarto. Delle obbligazioni, Bologna, 1963, p. 581, sottolineando il tramonto della concezione del danaro come “un mero bene accantonato per un futuro scambio a scopi di consumo”.

[14] V., di recente, Mazzoni C.M., op. cit., p. 81.

[15] Mazzoni C.M., op. cit., p. 561 s.

[16] Vita C., op. cit., p. 53; Bolaffio L., op. cit., p. 506.

[17] Relazione al c.c., nn. 570 e 593 e Relazione del G. al p.m., nn. 32 e 103.

[18] Com’è noto gli interessi moratori erano am­messi pur nella vigenza del divieto canonico delle usurae. L’obbligazione era però subordinata a gra­vi limiti (doppia interpellazione, prova del danno ef­fettivo da parte del creditore insoddisfatto: v. Nani C., La teoria dell’id quod interest sotto l’influenza della legislazione e delle dottrine canoniche, in Arch. Giur., 1876, XVI, 217 ss.). Successivamente si è assistito ad una progressiva semplificazione della fattispecie di produzione degli interessi moratori. L’art. 1153 del codice Napoleone, nella sua redazione originaria, faceva decorrere gli interessi mora tori in ogni caso dalla domanda giudi­ziale, dispensando il creditore dall’onere di provare il danno in concreto subito, ma escludeva espressa­mente la risarcibilità di eventuali danni subiti in mi­sura maggiore rispetto all’interesse legale. La norma fu generalmente criticata dalla dottrina nel punto riguardante la necessità della domanda giudiziale, giudicata talora come un regresso rispetto alla stessa regola del diritto comune (cfr. Baudry-Lacantinerie G., Wahl A, Trattato di diritto civile – Delle obbliga­zioni, trad. it., I, Milano, s.d., n. 511). Tenendo conto di queste critiche, l’art. 1231 c.c. 1865 faceva decorrere gli interessi dal giorno della costituzione in mora (indipendentemente dalla do­manda giudiziale), escludendo tuttavia ancora la ri­sarcibilità del danno ulteriore. Successivamente, la legge francese del 7 aprile 1900 stabiliva la decorrenza degli interessi moratori dal giorno dell’intimazione, anche stragiudiziale, di paga­mento, ed espressamente sanciva, per il caso di dolo del debitore, la risarcibilità dei danni ulteriori (su questo punto accogliendo una regola già elaborata dalla giurisprudenza: cfr. Deprez D., Responsabilité con­tractuelle, in Juris-Classeur Civil: art. 1146-1155, fasci­colo VIII, 3° cahier, 1966, n. 23-25). Ma intanto, con innovazione più radicale, il par. 288 BGB aveva previsto la risarcibilità in ogni caso del danno ulteriore. Questa norma è stata poi seguita nella redazione dell’art. 1224 comma 2 c.c.

[19] V., ancora, Azuni D.A., Interesse, e Interesse mer­cantile, in Dizionario universale ragionato della giurisprudenza mercantile, t. 2, Nizza, 1787, p. 283. Per questo autore l’interesse è sempre giustificato dalla mora, e le regole del diritto commerciale sono soltanto volte a semplificare la pro­duzione degli interessi mora tori. È significativo il fatto che molte delle regole allora considerate caratte­ristiche del diritto commerciale (esclusione della neces­sità della prova del danno e della domanda giudiziale, risarcibilità del maggior danno) siano state poi progres­sivamente accolte anche nella disciplina civilistica degli interessi moratori.

[20] Che il par. 289 HGB 1861 preveda interessi moratori affermano Von Hanh F., Kommentar zum allgemeinen deutschen Handelsgesetzbuch, II, Braun­schweig, 1883, pp. 104 ss.; Gareis C., Fuchsberger O., Das allgemeine Handelsgesetzbuch, Berlin, 1891, p. 618. Peraltro affiorava nella dottrina tedesca dell’epoca una tendenza (espressamente accolta nei lavori pre­paratori: cfr. Von Hanh F., op. cit., p. 102 volta a vedere nella norma commercialistica relativa alla produzione degli interessi legali la previsione di una forma di convenzione tacita relativa all’utilizza­zione delle somme di danaro che il debitore trattene­va presso di sé e alla produzione dei relativi interessi (una sorta di mutuo tacito, quindi), con ciò distac­cando la comprensione del fenomeno dai problemi della mora e del danno. V. in tal senso Makower H., Das allgemeine deutsche Handelsgesetzbuch, Berlin, 1893, p. 368. Questa teoria (che in Germania trovava un certo fondamento testuale nel fatto che il par. 289 HGB si riferiva ai soli debiti derivanti da contratti com­merciali) non era priva di rilevanti conseguenze pra­tiche (vedile elencate in Von Hanh F., op. cit., p. 102 ss.; Bolaffio L., op. cit., p. 268). Essa può avere infinito sulla dottrina italiana formatasi in relazione al codice di commercio (ma la dottrina italiana tiene distinti il problema del fondamento o della funzione degli interessi previsti dall’art. 41 c. comm. dal problema della natura legale o convenzio­nale degli stessi).

[21] Secondo l’autore che maggiormente sviluppò, nel vigore dei codici ora abrogati, la distinzione teorica fra interessi corrispettivi e interessi moratori, cioè il Bolaffio L. (op. cit., p. 254 ss.), l’interesse corrispet­tivo è “l’equivalente dell’utilità che il debitore ri­trae … dall’uso protratto del capitale monetario di cui il creditore ha diritto di chiedere anche giudizial­mente il pagamento”, mentre l’interesse moratorio è “il risarcimento che il debitore deve al creditore per il ritardo ingiusto a pagare il proprio debito”.

[22] La storia delle dottrine economiche è ricca di “teorie” sull’interesse che ne pongono in risalto unilateralmente questa o quella “giustificazione” (teorie dell’uso, dell’astinenza, del rischio, ecc.); si osserva però “come quasi nessuna teoria concreta dell’interesse poggi su una sola risposta fondamen­tale” (Pietranera G., Interesse, in Dizionario di econo­mia politica a cura di Napoleoni C., Milano, 1956, p. 732), essendo in­vece preoccupazione principale degli economisti quel­la di individuare i fattori considerati preminenti nella formazione del saggio d’interesse. Al livello delle operazioni economiche individuali (e basta in proposito consultare le trattazioni scolastiche elemen­tari) viene normalmente sottolineata la stretta con­nessione fra il profilo “corrispettivo” e quello “com­pensativo”, che vengono invece artificialmente tenuti distinti dai giuristi.

[23] V., ad esempio, Pugliese G., La prescri­zione estintiva, II, Torino, 1924, p. 368.

[24] Cfr. Ascarelli T., Le obbligazioni pecuniarie, in Commentario del codice civile, a cura di Scialoja A. Branca G., Libro quarto. Delle obbligazioni, Bologna, 1963, p. 565; Trib. Bergamo II gennaio 1960, in Corti Br. V., 1960, p. 370.

[25] Le definizioni correnti nella nostra dottrina con­siderano dunque essenzialmente il profilo strutturale dell’obbligazione degli interessi, e nulla dicono in or­dine al profilo funzionale e al fondamento giuridico dell’obbligazione stessa. Invece nella dottrina giu­ridica di lingua tedesca (che pur ha dedicato al pro­filo strutturale dell’obbligazione di interessi indagini molto approfondite, v., soprattutto, Werner O., in Düringer A., Hachenburg M., Das Handelsgesetzbuch vom, 10 Mai I897, IV, Mannheim, 1932, pp. 575 ss.) le defi­nizioni degli interessi sottolineano sempre in primo luogo quella che, secondo la definizione economica più tradizionale e diffusa, ne è la funzione (quella di “corrispettivo per l’uso di un capitale altrui”). V., fra gli autori più recenti, Schlegelberger F., Hefermehl W., Handelgesetzbuch, III, Berlin, 1965, p. 1617; Gschnitzer F., Schuldrecht. Allgemeiner Teil, Wien, 1965, p. 40; Larenz K., Lehrbuch des Schuldrechts, 10, Mun­chen, 1970, p. 137; Fikentscher W., Schuldrecht, Berlin, 1969, p. 143; Esser J., Schuldrecht, I, Karlsruhe, 1968, p. 123: “L’interesse è il compenso per l’uso di un capi­tale consistente in denaro o in cose fungibili, prestato sotto forma di periodica corresponsione, per tutta la durata di tale uso, di frazioni prede terminate del bene capitale”. Nella dottrina italiana invece, come già accennato, l’individuazione del significato dell’interesse sotto il profilo economico è di solito considerata estranea alla correlativa definizione giuridica, che è sotto un certo profilo più ristretta della definizione economica, e sotto un diverso profilo più ampia, ammettendosi di solito che la medesima struttura ob­bligatoria, caratteristica dell’obbligazione di inte­ressi, sia nell’ordinamento utilizzata per la realizza­zione di fini economico-sociali fra loro differenti. Si afferma pertanto, nella nostra dottrina, che è poco utile il richiamo, in sede di trattazione giuridica, della problematica economica relativa all’interesse (cfr. Ascarelli T., op. cit., p. 576, sub art. 1284; Marinetti F.T., Interessi (diritto civile), in Noviss. Dig. it., VIII, Torino 1962, p. 859); sul che non si può non consentire, conside­rando che questa problematica – e si pensi soprattutto alle discussioni degli ultimi decenni – è prevalentemen­te dedicata al tema della formazione del saggio d’inte­resse (e v. ampiamente Jossa E., Interesse, moneta e credito, Napoli, 1960); un tema che è ovviamente privo d’importanza per il giurista, il quale potrà soltanto considerare il saggio di mercato come un “dato” a cui attribuire, se del caso, rilevanza giuri­dica. Più interessanti invece per il giurista le discussioni, più diffuse in passato, circa la “giustificazione” dell’interesse. Sulle teorie economiche relative all’inte­resse v. comunque, ad esempio, Schumpeter J.A., Storia della analisi economica, trad. it., Torino, 1959-1960, passim; Pietranera G., op. cit., pp. 729 ss.

[26] Il carattere dell’accessorietà, inteso in senso strutturale e non normativo, nelle intenzioni della dottrina tradizionale vale a distinguere gli interessi dalle rendite, che sono anch’esse prestazioni periodi­che di danaro o di una certa quantità di cose fungi­bili, ma non sono collegate ad un’obbligazione prin­cipale di restituzione della somma capitale. Che le annualità di rendita non possano dirsi neanche “in­teressi” del capitale da pagare nel caso di riscatto afferma da ultimo decisamente Lener A., Il rapporto di rendita perpetua, Milano, 1967, pp. 193 ss.; conseguenza principale della negata equiparazione agli interessi è che le annualità di rendita scadute saranno a loro volta produttive di interessi, senza che ad esse si applichino i limiti riguardanti l’anatocismo (pp. 198 s.). Ciò nono­stante, rendite ed interessi vengono di solito equipa­rati al fine dell’applicazione di altre norme.

[27] I caratteri della periodicità e della proporzio­nalità, fra loro combinati, nelle intenzioni della dot­trina tradizionale valgono a distinguere gli interessi dai dividendi distribuiti dalle società di capitali (ri­spetto ai quali potrebbe in certo modo ravvisarsi il collegamento con un’obbligazione principale di resti­tuzione di una certa quantità di cose fungibili, cioè del conferimento). Anche il dividendo viene di solito qualificato come frutto civile (ma v., in senso contra­rio, i convincenti rilievi di Auletta G., I dividendi quali frutti delle quote sociali, in Studi in memoria di T. Ascarelli, I, Milano, 1969, p. 1).

[28] Cosi, Fragali M., Mutuo (artt. 1813-1822), in Comm. c.c. a cura. di Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1966, p. 355 e, già, Simonetto E., op. cit., p. 273.

[29] Per tale impostazione v. chiaramente ENNECCERUS u. LEHMANN, Recht der Schuldverhaltnisse, e ESSER u. SCHMIDT, Schuldrecht, I, Heidelberg, 1984, p. 139. Per una concezione particolarmente rigorosa dell’autonomia della prestazione degli interessi, una volta sorta, v. Marinetti F.T., op. cit., p. 860 e, in giurisprudenza, Cass., 2-10-1980, n. 5343, e, ad es., Cass., 29-1-1980, n. 687, in Foro it., 1980, I, p. 1691.

[30] Cfr. Barassi L., La teoria generale delle obbliga­zioni, III, Milano, 1948, p. 492.

[31] App. Napoli 27 luglio 1955, in Foro nap., 1955, p. 325; Cass., 2 febbraio 1957, n. 406, in Foro pad., 1957, I, p. 393. Nella specie si trattava di un contratto di mutuo di danaro con interessi convenuti in grano; le vi­cende del caso di specie impedirono però l’approfondimento del problema dell’applicabilità, a questa parti­colare obbligazione di interessi, della relativa disci­plina.

[32] Barcellona P., Frutti e profitto d’impresa, Mi­lano, 1970, p. 23.

[33] Così ad esempio, in relazione all’applicazione della disciplina degli interessi nel fallimento, c’è chi guarda essenzialmente al substrato economico del rap­porto, prescindendo dalla configurazione strutturale data dalle parti ai loro rapporti obbligatori (cfr. Provinciali R., Manuale di diritto fallimentare, I, Mi­lano, 1969, p. 839).

[34] Chiari i rilievi in proposito di Simonetto E., op. cit., p. 260 e s. e di Fragali M., op. cit., p. 356 s.

[35] Esattamente si sottolinea che un simile patto non implica una deroga al principio della maturazione progressiva degli interessi; con l’importante conseguenza che, se il debito principale viene a scadenza o si risolve prima del previsto, degli interessi già pagati saranno ripetibili quelli relativi al periodo per il quale non abbiano potuto maturarsi. Al riguardo, v.: Libertini M., Interessi, in Enc. Del dir., XXII, Milano, 1972, p. 125; Canaris C.W., Der Zinsbegriff und seine rechtliche Bedeutung, in NJW, 1978, p. 1896; Belke W., Die Strafzinsen im Kreditgewerbe, in BB, 1968, p. 1225.

[36] Così, invece, secondo un indirizzo diffuso: Messa G.C., op. cit., p. 72 e s.; Vita C., op. cit., p. 53; Marinetti F.T., op. cit., p. 862.

[37] V., infatti, in tale disposizione la chiara proposizione della contrapposizione tra interessi dovuti e scaduti.

[38] In tale prospettiva si inquadrano i rilievi di: Oppo G., Eguaglianza e contratto nella società per azioni, in Riv. dir. civ., 1974, I, p. 162; Simonetto E., op. cit.; Fragali M., op. cit.; Ascarelli T., op. cit., p. 589. In giurispruden­za, A. Bologna, 8-11-1962, in Giust. civ., 1963, I, p. 938.

[39] Ciò soprattutto oggi che l’area dell’interesse legale è estesa a rapporti di tipo contrattuale. Non pare, quindi, di poter accogliere la soluzione di incentrare senz’altro sulla natura legale o convenzionale dell’interesse la soluzione della questione (così, invece, Libertini M., op. cit., p. 124, nota 129), essendo evidente la necessità di operare una differenziazione, anche nella sfera degli interessi legali, tra ipotesi come quelle del mutuo e dell’indennità risarcitoria. Generalizzante nel senso dell’identificazione, ai fini della prescrizione, tra maturazione e scadenza in caso di interessi legali, T. Cosenza, 15-2-1969, in Rep. Foro it., 1971, voce “Interessi”, n. 20.

[40] Il fatto che la norma configuri la scelta per la normale tutela creditoria come richiesta di un “di più” rispetto agli interessi legali corrisponde ad una valutazione, difficilmente contestabile, di quella che è la normale intenzione del creditore, il quale, chie­dendo il risarcimento del danno effettivamente subito (ed assoggettandosi perciò ad un più gravoso onere probatorio), non intende con ciò rinunciare al credito e agli interessi, per l’ipotesi in cui la domanda di inte­grale risarcimento non venga accolta. Giustamente perciò la giurisprudenza considera la richiesta di ri­sarcimento del maggior danno come “comprensiva della richiesta, implicitamente subordinata, degli in­teressi” (Cass., 13 luglio 1968, n. 2489) negando conse­guentemente che vi sia ultrapetizione qualora il giudice, respingendo la richiesta di risarcimento del maggior danno, liquidi tuttavia gli interessi legali, non espres­samente richiesti come tali.

[41] Cfr. Cass. 23 giugno 1956, n. 2235; App. Roma 26 settembre 1956, in Giust. Civ. mass. app., 1956, p. 137; Cass. 8 giugno 1957, n. 2135; App. Milano 25 gennaio 1957, in Giust. Civ. mass. app., 1957, p. 13.

[42] V. in tal senso Giorgianni M., L’ inadempimento. Corso di diritto civile, Milano, 1975, p. 162: “Nello sforzo di attribuire una funzione alla costitu­zione in mora, si può ritenere che essa sia necessaria per la produzione degli interessi moratori nei debiti illiquidi” (ma l’autore ha cura di avvertire che, in pratica, l’ambito di tale funzione è oltremodo ristretto).

[43] Senza pretese di completezza, si possono ci­tare in tal senso: Cass. 17 giugno 1947, n. 948; App. Firenze 3 febbraio 1950, in Giur. tosc., 1950, p. 251; App. Genova 12 giugno 1954, in Temi gen., 1954, p. 489 (che richiede espressamente che la li­quidazione sia agevole, sì da permettere al debitore l’offerta di una somma presuntivamente dovuta); Cass. 23 giugno 1956, n. 2235; App. Roma 26 settembre 1956, in Giust. Civ. mass. app., 1956, p. 137; Cass. 8 giugno 1957, n. 2135; App. Milano 25 gennaio 1957, in Giust. Civ. mass. app., 1957, p. 13; App. Lecce 5 gennaio 1957, ivi, p. 1; App. Brescia 10 gennaio 1958, ivi, 1958, p. 1; App. Firenze 15 gennaio 1959, in Giur. tosc., 1959, p. 179; App. Firenze 3 marzo 1961, ivi, 1961, p. 285; Trib. Fi­renze 3 maggio 1965, in Giust. civ., 1965, I, p. 1943; Cass. 16 febbraio 1965, n. 252, in Foro it., 1965, I, p. 1274; App. Firenze 23 novembre 1965, in Giur. tosc., 1966, p. 237; App. Roma 22 marzo 1967.

[44] App. Milano 22 novembre 1951, in Foro pad., 1952, I, p. 180; Cass. 17 maggio 1952, n. 1422; Cass. 13 luglio 1955, n. 2205; App. Messina 5 maggio 1956, in Giust. Civ. mass. app., 1956, p. 755; Cass. 30 aprile 1957, n. 1465; Cass. 26 aprile 1968, n. 1285, in Giust. civ., 1958, I, p. 1440, e in Foro it., 1968, I, p. 2578. Cfr. anche Cons. St., sez. IV, 26 aprile 1968, n. 262, in Cons. St., 1968, I, p. 639 (ove però il ragionamento è svolto in relazione all’art. 1282). Anche nelle senten­ze citate si trova di frequente l’afferma­zione secondo cui gli interessi sui debiti illiquidi decor­rono dalla domanda giudiziale; ma dal contesto si de­sume di solito che l’affermazione, collegata ai fatti di causa, intende riferirsi alla domanda giudiziale nel suo significato sostanziale di atto produttivo della costi­tuzione in mora. La portata pratica di questa preci­sazione è evidente: se la domanda giudiziale viene intesa in questo secondo senso, la produzione degli interessi è indipendente dalla sorte del processo, sì che su di essa non incide l’eventuale successiva estin­zione di questo (Trib. Lucera 18 ottobre 1967, e Trib. Firenze 3 maggio 1965).

[45] Non si tratta di una giurisprudenza di facile interpretazione, in quanto, spesso, delle sentenze in­dicate alle note precedenti, risultano pubblicate la sola massima o brevi passi della motivazione, non sufficienti per comprendere il reale significato della controversia decisa dalla giurisprudenza in base ai principi ricor­dati nel testo. Non ci sembra comunque esatto quan­to afferma il Benatti F., La costituzione in mora del debitore, Milano 1968, p. 98), secondo cui il superamento del principio “in illiquidis non fit mora” verrebbe affermato dalla giurisprudenza sempre con riferimento a controversie relative a respon­sabilità extracontrattuale; infatti in questi casi la giurisprudenza suole si ammettere la produzione di interessi, ma suole altresì prescindere, nell’attribuzione degli stessi, dalle regole della mora, parlando di “interessi compensativi”.

[46] Sul punto v. ampiamente Giorgianni M., op. cit, p. 98 s.; Benatti F., op. cit., p. 85 ss.

[47] Natoli U., L’attuazione del rapporto obbligatorio, in Trattato dir. civ. e comm., Cicu-Messineo (dir.), Milano, 1974, p. 159 ss.; Bianca C.M., Dell’inadempimento delle obbligazioni, in Commentario del codice civile, a cura di Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1979, p. 20 ss.; Benatti F., op. cit., p. 104 ss.

[48] La soluzione accolta nel testo vale ovvia­mente anche per le obbligazioni legali illiquide. Così in ordine al problema degli interessi sulle somme do­vute dal possessore a titolo di restituzione dei frutti (problema in ordine al quale è invece tradizionale l’al­ternativa fra la tesi che fa decorrere gli interessi dal giorno della percezione dei frutti e quella che li fa decorrere dal giorno della liquidazione della somma: v. da ultimo sul punto Gentile F.S., Il possesso, Torino, 1965, p. 197). Fra le obbligazioni legali illiquide una disciplina particolare riceve però quella relativa agli alimenti. In proposito è opinione comune (basata sul combinato disposto degli art. 445 e 1224 c.c.) quella secondo cui gli interessi, sulla somma liquidata dal giudice, de­corrono dal momento della costituzione in mora (cfr. Tamburrino A., Alimenti, in Enciclopedia del Diritto, II, p. 43; Benatti F., op. cit., pp. 100 s.; Tedeschi G., Gli ali­menti, in Trattato di diritto civile italiano diretto da Vassalli F., op. cit., III, 2, 1958, p. 449; in giurisprudenza v. Cass. 9 agosto 1956, n. 3101, che, a quanto risulta dalla massima, sembra fondare gli interessi moratori, nella specie, sul principio della retro attività della sen­tenza). L’opinione corrente, con le precisazioni di cui nel testo, può essere accolta. La particolarità della disci­plina è data però da quanto disposto nell’ultimo inciso dell’art. 445, che prevede la perdita del diritto agli alimenti arretrati (e quindi ovviamente anche degli interessi già maturati) quando alla costituzione in mora non segua entro sei mesi la domanda giudiziale.

[49] Il modello di cui si parla è la legge 66-1010 del 28 dicembre 1966, novellata dalla legge 89-1010 del 31 dicembre 1989 e successivamente inserita nel code de la consommation del 1993.

[50] La misura era riferita al mese, quindi il tasso annuo era del dodici per cento.

[51] In questo senso cfr. Manzione D., Usura e mediazione creditizia, Milano, 1998, p. 26.

[52] V. l’ampia indagine di Cervenca G., Contributo allo studio delle usure c.d.. legali nel diritto romano, Milano, 1969, pp. 205, 273.

[53] Conf. Giorgianni M., op. cit., p. 142 s. La soluzione accolta nel testo deriva dai prin­cipi generali sull’acquisto del legato: la “cosa frut­tifera appartenente al testatore” e produttiva di interessi, di cui parla l’art. 669 comma 1 c.c. può essere un titolo di credito o un credito qualsiasi produttivo di interessi (non evidentemente una quantità di pezzi monetari individuati); in base all’art. 649 la titolarità del credito fruttifero o la proprietà del titolo di cre­dito passano al legatario al momento della morte del testatore, e a decorrere da quel momento il legatario ha diritto agli interessi che il credito in concreto abbia prodotto (v. per tutti Azzariti F., Martinez G., Azzariti G., Successioni per causa di morte e dona­zioni, Padova, 1959, p. 450, i quali precisano inoltre (p. 468) che gli interessi maturati al momento della morte del testatore spettano all’erede e non al lega­tario).

[54] Simonetto E., I contratti di credito, Padova, 1953, p. 263, nt. 186; Marinetti F.T., op. cit., p. 868; Frangali M., Del mutuo, in Comm. cod. civ., Scialoja e Branca, Bologna – Roma, 1966, p. 347.

[55] Articolo 820, comma 3, Codice civile: “Sono frutti civili quelli che si ritraggono dalla cosa come corrispettivo del godimento che altri ne abbia. Tali sono gli interessi dei capitali, i canoni enfiteutici, le rendite vitalizie e ogni altra rendita, il corrispettivo delle locazioni.” Il legislatore, quindi, identifica i frutti civili con le utilità, che si ritraggono dalla cosa come corrispettivo del godimento che altri ne abbia. Come per i frutti naturali anche per i frutti civili l’art. 820 contiene un’elencazione di carattere esemplificativo, riconducendo in tale concetto gli interessi, i canoni enfiteutici, le rendite vitalizie e ogni altra rendita ed il corrispettivo delle locazioni. Dall’enunciato normativo si desume, quindi, che i frutti civili non sono nuovi beni, ma prestazioni dovute in esecuzione di diritti di credito. I soggetti che in astratto possono percepire i frutti civili sono il proprietario del bene concesso in godimento a terzi o chi sullo stesso vanta un diritto reale di godimento che lo abilita ad attribuirlo in godimento a terzi. Il concetto di frutti civili è, quindi, finalizzato a disciplinare il fenomeno della rendita, “legittimando il proprietario a ricavare un vantaggio dal bene anche se non lo sfrutta direttamente”(Scozzafava T., Dei beni, Com. Schlesinger, Milano, 1999, p. 161). Dunque, il concetto di frutti civili ha la funzione di risolvere tutte quelle questioni relative alle modalità di utilizzazione di determinate entità con ciò differenziandosi marcatamente dal concetto di frutti naturali che, invece, identifica un processo di creazione di una nuova entità ed individua il soggetto a favore del quale si realizzerà l’acquisto a titolo originario di queste ultime. In conclusione, il concetto di frutto civile ha la funzione di ribadire il principio causale anche rispetto ai contratti con cui si attribuisce a terzi il solo godimento di un determinato bene (Scozzafava T., Gli interessi dei capitali, Milano 2001, p. 83).

[56] Franzoni M., Le obbligazioni, Torino, 2004, p. 1060

[57] Torrente A., Manuale di diritto privato, Milano, 2007, p. 338.

[58] Caringella F., Le obbligazioni, Milano, 2008.

[59] Gli interessi vengono tradizionalmente classificati in tre fondamentali categorie: corrispettivi, moratori e compensativi (Sulla validità della tripartizione degli interessi cfr. Valcavi A., Riflessioni sui c.d. crediti di valore, sui crediti di valuta e sui tassi di interesse, in Foro it., 1981, I, 2112; Lucchino C., Interessi compensativi in Nuova giur. Civ., 1990, I, 442. Sul punto anche Gambino A. Dalla legge Efim nuove luci su interessi corrispettivi, moratori compensativi, maggior danno e suo meccanismo rivalutativo, in Economia e dir. del terziario, 1994, 455).

[60] L’obbligazione di interessi è rappresentabile matematicamente come la funzione del tasso in rapporto al tempo di godimento che del denaro faccia il debitore e consegue, di fronte al principio della naturale fecondità del denaro, alla dissociazione tra proprietà e godimento del denaro (Di majo A., Le obbligazioni pecuniarie, Torino, 1996, 19 ss., 201-205; Dimundo C., Frutti civili, in Digesto civ., Torino, 1992, vol. III, 552; Mazzoni A., Frutti civili e interessi di capitale, Milano, 1986. Cfr. Cass., 18 agosto 1982, n. 4642: nelle obbligazioni pecuniarie funzione primaria degli interessi è quella corrispettiva, quali frutti civili della somma dovuta, e nei contratti di scambio, caratterizzati dalla contemporaneità delle reciproche prestazioni, quella compensativa del mancato godimento dei frutti della cosa, consegnata all’altra parte prima di riceverne la controprestazione; funzione secondaria degli interessi è quella risarcitoria, propria degli interessi di mora, i quali presupponendo l’accertamento del colpevole ritardo o la costituzione in mora ex lege del debitore, debbono essere espressamente domandati, indipendentemente dalla domanda di pagamento del capitale; conseguentemente la richiesta di corresponsione degli interessi, non seguita da alcuna particolare qualificazione, deve essere intesa come rivolta all’ottenimento soltanto degli interessi corrispettivi, i quali, come quelli compensativi, decorrono, in base al principio della fecondità del denaro, indipendentemente dalla colpa del debitore nel mancato o ritardato pagamento, salva l’ipotesi della mora del creditore ( Conforme Cass., 12 marzo 1981, n.1411).

[61] Basti pensare alla stessa organizzazione della materia, regolata inizialmente in apertura del libro delle obbligazioni (art. 15 e ss,), comunque prima dell’ipotesi dei danni nelle obbligazioni pecuniarie (art. 122); ovvero alla ricomparsa, senza alcuna traccia di motivazione nei lavori preparatori, del requisito della liquidità nell’art. 1282 c. c., dopo che l’art. 17 p.m. ne aveva fatto a meno.

[62] Galgano F., Le obbligazioni in generale, il contratto in generale, i singoli contratti, gli atti unilaterali e i titoli di credito, i fatti illeciti e gli altri fatti, fonte di obbligazione, la tutela del credito, Padova, 2009.

[63] Relazione al c. c., nn. 570 e 593.

[64] Così, la Relazione al c. c., n. 570.

[65] V., infatti, la Relazione al c. c., n. 570.

[66] Per il dibattito in proposito, cfr. indicativamen­te: Ascarelli T., Limiti di applicabilità dell’art. 1231 cod. civ., in Riv. dir. comm., 1930, I, p. 379 e ss. Sull’art. 1224, 2° comma c. c.

[67] Anche se si tiene a sottolineare che, in vista degli effetti di cui in commento “non si tratta di un semplice mutamento di terminologia” (Relazione al c. c., n. 570), resta il fatto che la prestazione degli interessi permane identica nella sostanza.

[68] Ipotesi eccezionale, ove il tasso legale sia adeguato, come è da ritenere ancora all’epoca della redazione del codice.

[69] Nella Relazione al c. c., n. 570, così delineando i caratteri della categoria, si allude espressamente agli artt. 1499, 1815 e 1825 c. c.

[70] Di particolare importanza, ad es., quello relativo alla giurisdizione (in tema di pubblico impiego).

[71] Esemplari, in tal senso: Cass., 13-4-1944, n. 241 in Giur. it, 1945; Cass., 26-6-1956, n. 2291, in Giur. it., 1957, I, 1, 285; Cass., 16-5-1960, n. 1167, in Foro pad., 1961, I, 1120; Cass., 18-3-1971, n. 780, in Rep. Foro it., 1971, “Interessi”, n. 10; T.A.R. Sicilia, 12-3-1975, n. 73, ivi, 1975, voce, n. 15.

[72] In tal senso, cfr. Giorgianni M., Inadempi­mento, Milano 1975, p. 159.

[73] Si tratta della nota posizione di Giorgianni M., op. cit., p. 161 e ss.

[74] Cfr. Bianca C.M., L’obbligazione. Milano 2006, p. 185.

[75] Cfr. Bianca C.M., op. cit., p. 186 e ss.

[76] E V., ad es., la corrente interpretazione dell’art. 104 c. obbl. svizzero, tendente a considerare del tutto irrilevante l’imputabilità del ritardo richiesto per l’attribuzione degli interessi: Siegwart U., Allgemeiner Teil des schweizerischen Obligationenrecht, II, Ziirich, 1944, p. 588.

[77] Cfr. Nicolò T., Gli effetti della svalutazione della moneta nei rapporti di obbligazio­ne, in Foro it., 1944-46, IV, 44.

[78] Partendo dalla giustificazione causale del fenomeno, non sembra, insomma, possibile che concludere per l’unitarietà, da tale punto di vista.

[79] A tale conclusione è giunta, peraltro, Cons. St., Ad. plen., 7-4-1981, n. 2.

[80] Particolarmente significativa, al riguardo, Cass., 8-8-1973, n. 2249, in Giust. civ., 1973, I, 1858, in cui si evidenzia come «una funzione risarcitoria o indennitaria, magari non esclusiva, deve essere in realtà riconosciuta ad ogni specie di obbligazione di interessi ».

[81] Questi, in particolare, trovano il loro riferimento normativo nell’art. 1499 cod. civ. ed il loro campo generale di applicazione si pone nei contratti di scambio, in relazione ai quali assolvono la funzione di ripagare (compensare) il creditore per il mancato godimento dei frutti di un bene produttivo di frutti naturali, civili o altri proventi in genere, bene consegnato all’altra parte (debitore) prima di ricevere la controprestazione e sempreché le prestazioni reciproche siano sottoposte a contemporanea esecuzione. Tali interessi non sono ancorati né alla mora del debitore, cioè al colpevole ritardo nel pagamento del prezzo, né alla scadenza della relativa obbligazione, cioè alla liquidità ed esigibilità del credito, e sono invece dovuti per esigenze equitative, propriamente per “compensare” il venditore (creditore del prezzo), del mancato godimento dei frutti della cosa venduta, e da lui consegnata al compratore prima di ricevere la controprestazione, sempreché il possesso del bene sia transitato in capo all’acquirente (Cass., 7 aprile 2000, n. 4358; Cass., 23 marzo 1991, n. 3184. Gli interessi compensativi rimangono dovuti ove per il pagamento del prezzo sia stato convenuto un termine o sia stato previsto il condizionamento a un evento successivo alla consegna del bene (Cass., 10 novembre 1989, n. 4775) e possono essere convenzionalmente estesi, in misura maggiore o minore del tasso legale, all’intervallo tra la conclusione del contratto e la consegna della cosa (Cass., 12 febbraio 1988, n. 1510). In assenza di specifica pattuizione, l’obbligazione di interessi compensativi ex art. 1499 cod. civ. non si estende – in caso di contratto preliminare – al periodo intercorrente tra la data della consegna del bene e quella della stipulazione del contratto definitivo prevista per la corresponsione del saldo del prezzo (Cass., 6 luglio 1999, n. 6967; in senso contrario Cass., 23 dicembre 1995 n. 13104), così come non si estende al caso del promissario acquirente di un bene detenuto ad altro titolo – ad esempio locazione – perché la detenzione del bene deriva da altro titolo contrattuale (Cass., 19 agosto 1998, n. 8196; Cass., 4 ottobre 1996, n. 8713). La giurisprudenza, dal canto suo, ha traslato il concetto di interessi compensativi del campo delle obbligazioni risarcitorie, tradizionalmente considerate crediti di valore, per considerare il saggio di interesse quale compensazione del ritardo nell’adempimento della prestazione originaria inadempiuta che di per sé configura un decremento patrimoniale per il creditore insoddisfatto: ex multis Cass., 3 dicembre 1999, n. 13463.

[82] Espressamente, Cass., 18-8-1982, n. 4642, in Mass. Foro it., 960. Del resto, alla «normale corrispettività e compensatività degli interessi» alludeva già la Relazione del G. al p. m., n. 32.

[83] Così, Cass., 12-10-1979, n. 5333, in Rep. Foro it., 1979, voce «interessi », n. lO e Cass., 13-2-1982, n. 894, in Mass. Foro it., 1982, 200.

[84] In tal senso, esplicitamente, Ascarelli T., Obbligazioni pecuniarie,Bologna 1971., p. 565 e  V., anche Bianca C.M.,  op. cit., p. 338.

[85] Quadri E., La modificazione del saggio degli interessi legali, in Nuove leggi civili commentate, 1990, p. 1412.

[86] Corte cost., 2 giugno 1994, n. 207, in Foro it., 1994, I, 2034. La questione sottoposta al vaglio della Corte Costituzionale riguardava  l’incostituzionalità del privilegio previsto dall’art. 429, 3 comma, c. p. c. , in quanto il cumulo della rivalutazione con gli interessi legali, elevati al dieci per cento dalla. 26 novembre 1990, n. 353, accorda ai crediti di lavoro un eccesso irragionevole di tutela. La questione è risultata inammissibile”perché impegna la sfera riservata alle valutazioni discrezionali del legislatore. La ratio dell’art. 1 della legge, che ha modificato l’art. 1284, 1 comma, c.c., sarebbe quella di inglobare nel saggio degli interessi legali, oltre al corrispettivo per l’uso del denaro, anche un compenso forfetario per il diminuito potere di acquisto della somma capitale a causa dei processi inflattivi. Perciò, dopo il 1 gennaio 1991, il cumulo dell’importo della svalutazione con gli interessi legali comporterebbe per i crediti di lavoro un’irrazionale duplicazione di copertura del deprezzamento della moneta. In virtù del cumulo l’interesse nominale del dieci per cento stabilito dal nuovo testo dell’art. 1284 c.c., si converte, nell’ipotesi dell’art. 429 c. p. c. , in un interesse reale: il che è ritenuto eccessivo. L’irrazionalità emerge dal punto di vista dell’analisi economica, la quale non distingue, a differenza dell’analisi giuridica, tra godimento legittimo di una somma di denaro in base a un rapporto di credito e godimento illegittimo per mancato tempestivo pagamento del debito. Non si potrebbe obiettare che l’aumento del saggio degli interessi legali è stato disposto con riguardo agli interessi corrispettivi, e dunque gli interessi nella misura del dieci per cento sono dovuti indipendentemente dall’inflazione. Il problema posto dal giudice rimettente  in una prospettazione più ampia della razionalità economica, potrebbe essere risolto, anziché con un intervento diretto sull’art. 429 c.p.c. , con una revisione dell’art. 1284 c.c. come modificato dalla l. n. 352 del 1990, la cui rigidità, in contrasto con l’odierna tendenza al ribasso dei tassi d’interesse, appare inopportuna in un’ economia fluida come quella attuale, caratterizzata da continui mutamenti dei parametri economici e finanziari.” Così Foro it. , 1994, I, p. 2034

[87] Così Cass. civ. , sez. I, 5 agosto 1991, n. 8561, secondo cui, non è, peraltro necessaria la stipulazione contestuale al sorgere del credito principale; inoltre v. Cass. civ. , sez. II, 27 aprile 2006, n. 9646, secondo cui la clausola del contratto per adesione che prevede la corresponsione di interessi in misura superiore a quella legale, non rientra tra quelle che debbono essere specificamente approvate per iscritto a norma dell’art. 1341 c.c., stante la tassatività dell’elencazione e l’impossibilità di procedere all’inclusione della suddetta clausola in via di interpretazione estensiva, non sussistendo in questa ipotesi l’esigenza di tutelare il contraente per adesione in una situazione per lui particolarmente sfavorevole.

[88] Bianca C.M., op. cit, p. 191

[89] L’obbligo della forma scritta, imposto dall’art.1284, terzo comma c.c. per la pattuizione in misura superiore di quella legale, non postula necessariamente che il documento negoziale contenga l’indicazione in cifra del tasso pattuito, ma può essere adempiuto, secondo i principi generali sulla determinatezza o determinabilità dell’oggetto del contratto, contenuto nell’art. 1349 c.c., anche mediante il richiamo operato per iscritto dalle parti a prestabiliti criteri o elementi estrinseci obbiettivamente e sicuramente individuabili che consentano la concreta determinazione di quel tasso nel corso del rapporto contrattuale (Cass. 3.2.1992 n.2765). Tuttavia il rilascio, in sede di rinnovo, di una cambiale comprensiva degli interessi ultra legali non può soddisfare l’obbligo della forma scritta richiesto dall’art.1284 c.c. (Cass. 15.5.2000 n.6244; Cass. 14.3.1995 n.2921).

[90] Bianca C.M., op. cit,, p. 192; così Cass. civ., 9 aprile 1984, n. 2262:”il pagamento spontaneo di interessi in misura ultralegale, pattuiti invalidamente, costituisce adempimento di obbligazione naturale e determina l’irripetibilità della somma così pagata”ma, continua Bianca,”l’indicato presupposto non ricorre nel caso di una banca che abbia proceduto all’addebito degli interessi ultralegali sul conto corrente del cliente per sua esclusiva iniziativa e senza autorizzazione alcuna da parte del cliente medesimo, così Cass. civ. 10 luglio 1973, n. 1995, in Banca, borsa e tit. cred. , 1974, II, p. 184: il pagamento spontaneo di interessi pattuiti in misura ultralegale, ma non usurario, costituisce adempimento di un’obbligazione naturale e pertanto non è ripetibile, ancorché non eseguito personalmente dal debitore, ma a mezzo di un terzo a ciò incaricato; nonché, fra i giudici di merito, v. Trib. Palermo, 9 marzo 1992, in Tema siciliana, 1992, p. 114:”la pattuizione di interessi elevati non costituisce negozio illecito ed il pagamento spontaneo di essi, fuori dall’ipotesi di reato d’usura, non è ripetibile costituendo adempimento di  obbligazione naturale”.

[91] Articolo 1825 c.c. :”Sulle rimesse decorrono gli interessi nella misura stabilita dal contratto o dagli usi ovvero, in mancanza, in quella legale.”

[92] Cfr. Cass. civ. , 14 febbraio 1984, n. 1112, in Foro It. , 1984, I, 1285; Cass. civ. , 21 dicembre 1987, n. 9518: Cass. civ. , 30 maggio 1989, n. 2664, in Gius. civ., 1989, I, p. 2034, con nota di Costanza A.; Cass. civ. , 22 maggio 1990, n. 4617; Cass. civ. , sez. I, 7 marzo 1992, n. 2765, in Banca, borsa, 1993, II, p. 390, con nota di Stefani C..

[93] E’ necessario sottolineare che, in ossequio al art. 1284, comma 3, c.c., il legislatore ha previsto al comma 7 dell’art. 117 del T. U. B. un regime di sostituzione imperativa delle clausole nulle, per inosservanza delle prescrizioni di cui al 6 comma, determinato anche in questo caso un’ipotesi di nullità parziale.

[94] v. Cass. civ. , sez. III, 25 agosto 1992, n. 9839, in Foro it., 1993, I, p. 2172:”l’obbligo della forma scritta ad substantiam per la pattuizione di interessi eccedenti la misura legale si deve ritenere ugualmente soddisfatto quando nel documento contrattuale le parti abbiano indicato criteri certi ed oggettivi che consentono la concreta quantificazione del tasso d’interesse, ancorché ciò avvenga per relationem mediante il richiamo ad elementi estranei al documento stesso (nella specie, le clausole negoziali fissavano gli interessi dei conti correnti riferendosi alle condizioni praticate usualmente dalle aziende di credito sulla piazza).

[95] Cfr. i commenti alla sent. Cass. civ. , sez. I, 18 maggio 1986, n. 4605 di Fondrieschi A.I, in Contratti, 1997 p. 40 e ss.

[96] V. Cass. civ. , sez. I, 13 marzo 1996, n. 2013, in Foro it. 1997, I, p. 1939, in base al quale”la sentenza presenta due motivi di interesse, uno più debole e l’altro più forte. Il primo consiste nell’esplicita presa d’atto dell’inammissibilità delle clausole contrattuali di rinvio agli usi per la determinazione dei tassi e di ogni altro prezzo e condizione praticati dalle banche ai propri clienti: presa d’atto imposta dalle norme, cui la stessa Cassazione si richiama, e cioè l’art. 4, 3 comma, l. 154/92, poi trasfuso, in una veste più analitica, nell’art. 117, 6 comma, T. U. B. , alla stregua del quale sono nulle e si considerano non apposte le clausole di rinvio agli usi per la determinazione dei tassi d’interesse e di ogni altro prezzo o condizione praticati. Il secondo e più forte motivo di interesse deve ravvisarsi nel revirement che la Suprema corte opera fornendo un’ originale interpretazione della sua giurisprudenza sul punto; una giurisprudenza, per la verità fin troppo generosa nei confronti delle banche che in virtù del mutato spirito del tempo –di cui le citate novità legislative sono la manifestazione più vistosa- andrebbe riletta in una chiave di maggior rigore. In altri termini, anche se la nuova disciplina non si applica ai rapporti sorti prima della sua entrata in vigore, ad avviso della Suprema corte, di essa si deve egualmente tener conto onde pervenire ad un’interpretazione adeguatrice non dell’art. 1284 c.c., ma di ciò che gli stessi giudici di legittimità all’art. 1284 c.c. avevano sin qui fatto dire. (nota di Nivarra A.).

[97] v. Cass. civ. , sez I, 1 febbraio 2002, n. 1287, in Foro it. , 2002, I, p. 1411.

[98] Trib. App. Lecce, 22 ottobre 2001, in Foro it. , 2002, I, p. 555. Sulla violazione della normativa antitrust in materie di norme bancarie uniformi, in particolare, Ubertazzi L., Ancora su norme bancarie uniformi e diritto antitrust, in Dir. banc. , 1997, I, p. 415.

[99] Articolo 1282 c.c. : “I crediti liquidi ed esigibili di somme di denaro producono interessi di pieno diritto, salvo che la legge o il titolo stabiliscano diversamente. Salvo patto contrario, I crediti per fitti non producono interessi se non dalla costituzione di mora. Se il credito ha per oggetto il rimborso di spese fatte per cose da restituire, non decorrono interessi per il periodo di tempo in cui chi ha fatto le spese abbia goduto della cose senza corrispettivo e senza essere tenuto a render conto del godimento.”

[100] Cass. , sez. I, 24 settembre 2002, n. 13859 ha sottolineato che “la liquidità ed esigibilità del credito, necessarie perché questo produca interessi ai sensi dell’art. 1282 c.c., possono essere escluse anche da circostanze e modalità di accertamento dell’obbligazione che, in ragione della natura pubblicistica del soggetto debitore, siano specificamente disciplinate da atti aventi efficacia solo regolamentare, come le disposizioni degli artt. 269 e 279 del r. d. n. 827/ 1924 ( regolamento per l’amministrazione del patrimonio e per la contabilità generale dello Stato), secondo cui tutte le spese dello Stato devono passare per gli stadi dell’impegno, della liquidazione e dell’ordinazione e pagamento. Ne consegue che, quando ai fini della decorrenza degli interessi sia necessario stabilire il momento in cui il credito pecuniario verso un’amministrazione statale è divenuto liquido ed esigibile, l’accertamento di tale duplice requisito non può prescindere dal presupposto formale dell’emissione del titolo di spesa che, sia pure alla stregua di una regola di condotta interna della P. A. (la quale da una norma di legge ripete la sua efficacia vincolante interna), condiziona e realizza il suddetto requisito (fattispecie relativa ad interessi per ritardata restituzione dei titoli di Stato e certificati di deposito costituiti in cauzione da soggetto imputato, e poi prosciolto dal reato di illecita esportazione di valuta all’estero)”. Cass., 3482/1981 e 13508/1991, secondo cui al debitore viene imposto di versare un supplemento relativo al capitale, calcolato in misura percentuale rispetto allo stesso, con scadenza periodica.

[101] MINUSSI, Il rapporto obbligatorio, Napoli 2006 secondo cui gli interessi corrispettivi sono dovuti di per sé, a causa della naturale fertilità del denaro e rappresentano il corrispettivo della somma di denaro protratto dopo le scadenze del credito.

[102] Trib. Roma, 17 ottobre 1989, in Temi Rom. , 1990, p. 165

[103] Bianca C.M.,  Istituzioni di diritto privato, Milano, 2001, p. 333

[104] Cass. civ. , sez. I, 24 settembre 2002, n. 13859; Cass. civ. , sez. I, 23 febbraio 2000, n. 2701 e Cass. civ. , sez. lav. , 24 gennaio 1987, n. 690.

[105] La recente tendenza legislativa – derivante dalla legge 18 giugno 1998, n. 192, recante la subfornitura nella attività produttive, e proseguita con il d. lgs. 9 ottobre 2002, n. 231 che ha dato attuazione alla direttiva 2000/35/CE in materia di lotta contro il ritardo di pagamento nelle transazioni commerciali- nel fornire una puntuale disciplina dei pagamenti tra soggetti professionali, è specificatamente volta a garantire la correttezza e la trasparenza nei rapporti di scambio fra imprenditori nonché, in particolare, ad evitare i possibili abusi, di chi, approfittando dei bassi livelli degli interessi di mora e della lentezza delle procedure di recupero, ritardi volontariamente il pagamento delle somme dovute al fine di trarre indebiti vantaggi di natura finanziaria. Il decreto legislativo 231/2002, avente portata più ampia, in quanto, relativo ad ogni pagamento effettuato i titolo di corrispettivo in transazioni commerciali tra imprese ovvero tra imprese e pubbliche amministrazioni,  all’art. 4, comma 3, stabilisce che, ove il termine per il pagamento non sia stabilito nel contratto, gli interessi decorrono automaticamente, senza che sia necessaria la costituzione in mora, trascorsi 30 giorni dal ricevimento della fattura da parte del debitore o di una richiesta di pagamento equivalente, ovvero, ancora, dalla data di ricevimento delle merci o dalla data di prestazione dei servizi. La normativa determina, altresì, il saggio degli interessi moratori eventualmente dovuti, fissandolo in misura pari al tasso di riferimento della Banca Centrale Europea maggiorato di sette punti percentuali e facendo salva la possibilità per le parti di disporre diversamente. La l. 192/1998, sulla subfornitura, al fine di tutelare il subfornitore, quale parte debole del contratto fra professionisti, all’art. 3, commi 2 e 3 sancisce un termine massimo di 60 giorni per l’adempimento dell’obbligo di pagare il prezzo da parte del committente e, al contempo, prevede un regime di mora ex re per il caso di ritardo, ponendo a carico del debitore inadempiente la corresponsione di interessi moratori in misura fissa e particolarmente gravosa, salva la prova del danno ulteriore da parte del creditore. La specifica normativa contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, prevista dal d. lgs. n. 231/2002, lascia libere le parti di stabilire sia il termine per l’adempimento del debito pecuniario che la misura degli interessi moratori, intervenendo solo a colmare l’assenza di specifiche previsioni contrattuali a riguardo. Dando puntuale attuazione alla delega, l’art. 10 del d. lgs. n. 231/2002 ha modificato l’art. 3, comma 3 della legge n. 218/1998, stabilendo che anche il saggio degli interessi di mora a favore del subfornitore sia pari al tasso di riferimento della Banca Centrale Europea aumentato di sette punti percentuali.

[106] Gli interessi moratori sono contemplati dall’art.1224 cod. civ. ed assolvono una funzione sanzionatoria, in quanto costituiscono un risarcimento forfettario del danno derivante al creditore (presunto ex lege) dall’inadempimento o del ritardo colpevole di una obbligazione pecuniaria (Cass., 18 febbraio 2000, n. 1834; Cass., 29 settembre 1998, n. 9703. Scozzafava T., Interessi moratori, Napoli, 1984). Essi presuppongono, pertanto, il colpevole inadempimento o ritardato adempimento e decorrono dalla data di costituzione in mora del debitore prescindendo dal requisito della certezza e liquidità del credito, non richiesto ai fini della mora debendi (Cass., 20 novembre 1998, n. 11736; Cass., 14 maggio 1994, n. 4712; App. Venezia, 17 febbraio 1992: la liquidità del debito non è condizione necessaria per la costituzione in mora non trovando il principio in illiquidis non fit mora applicazione del nostro ordinamento).

[107] L’art. 1219, comma I, c.c., prevede che il debitore è costituito in mora mediante intimazione o richiesta fatta per iscritto. A tal proposito può essere utile segnalare il principio espresso da Cass. civ. , sez. III, 9 ottobre 2003, n. 15058 secondo cui “la notificazione della sentenza effettuata a norma dell’art. 285 c. p. c. non ha gli effetti della costituzione in mora ex art. 1219 c.c. con riferimento agli interessi sulle spese legali in essa liquidate, e non è, quindi, idonea a far decorrere gli interessi moratori previsti dall’art. 1224 c.c., atteso che la notifica de qua viene compiuta dal procuratore costituito e non contiene l’intimazione o la richiesta scritta prevista dall’art. 1219, mentre detta intimazione o richiesta va effettuata al debitore di persona”.

[108] Cass. 3 dicembre 1993, n. 12013, in Giust. civ., 1994, I, 1247: “è indubbio che la convenzione stipulata dalle parti in causa presenta talune analogie con la clausola penale, dal momento che in ambedue le ipotesi viene predeterminata in maniera pattizia, la conseguenza dell’inadempimento o del tardivo adempimento di una determinata obbligazione. Tuttavia, se dall’analisi del profilo strutturale, si passa all’esame del profilo funzionale, le richiamate analogie vengono meno ove si consideri che alla convenzione controversa risulta estranea la configurabilità della funzione sanzionatoria. Una funzione siffatta, per vero, non può essere sicuramente rinvenuta nella pattuizione in esame che, risolvendosi nella previsione di un tasso di interesse inferiore a quello che la legge riconnette automaticamente al tardivo adempimento delle obbligazioni pecuniarie ( art. 1224 c.c. ) lungi dal costituire una sanzione per il debitore, si traduce sostanzialmente nella limitazione del danno risarcibile ex lege”.

[109] Si deve ricordare che il tasso legale degli interessi è stato pari al 5% annuo fino all’entrata in vigore dell’art. 1 L. 26/11/90, n. 353, che lo ha invece elevato al 10%; successivamente, la L. 23/12/96, n. 662 lo ha ricondotto al 5%, salvi i successivi aggiornamenti annuali disposti con D. M. cui la legge ha fatto rinvio. Sicché, ove si debba calcolare il tasso d’interesse con decorrenza, ad esempio, dal 1/12/1988, lo stesso andrà computato al tasso del 5% fino all’entrata in vigore della citata L. n. 353/90, poi al 10% fino all’entrata in vigore della citata L. n. 662/96 e poi di nuovo al 5% ed alle variazioni ulteriori del tasso medesimo, come anno per anno eventualmente rideterminato.

[110] Cfr. Cass.S.U., Sent. n. 19499 del 16/07/2008.

[111] La Cassazione ha dunque fornito la propria interpretazione innovativa dell’art. 1224 c.c. non nascondendo che ciò sia il frutto non solo di motivazioni strettamente giuridiche, ma anche di esigenze sociali. In particolare, l’effetto che si vuole perseguire è proprio la disincentivazione dell’inadempimento (e, di riflesso, la positiva ricaduta sulla diminuzione del contenzioso civile e sulla semplificazione del processo) attraverso un’interpretazione della norma che renda il debitore consapevole del fatto che la promozione di una causa da parte del creditore insoddisfatto si risolverebbe, comunque, nel riconoscimento a suo favore di un maggior importo corrispondente quantomeno all’utile economico minimo che il debitore ha tratto o che avrebbe potuto trarre dalla conservazione, medio tempore, del denaro che doveva dare e che non ha dato.

[112] A tal fine sarà in linea di massima sufficiente la produzione di documentazione dalla quale si evinca che, durante la mora del debitore, egli aveva fatto ricorso al credito bancario (con saggio di interesse passivo che oggi si attesta, a quanto consta, sull’Euribor maggiorato tra circa 0,20 e 2,5 punti) o ad altre forme di approvvigionamento di liquidità, con la dimostrazione dei relativi costi; e sempre che, in relazione alle dimensioni dell’impresa ed all’entità del credito, sia effettivamente presumibile che il ricorso al credito esterno sia stato conseguenza dell’inadempimento, ovvero che l’adempimento tempestivo avrebbe comportato la destinazione della somma alla parziale estinzione del debito assunto verso il finanziatore (si incoraggerebbe altrimenti il possibile ricorso strumentale al credito bancario in funzione probatoria dell’entità del danno nel successivo giudizio di adempimento e risarcimento).

[113] L’idea di mora culpata, e cioè della necessaria rilevanza della colpa quale presupposto della mora, è del tutto unanime in dottrina, ed assai risalente nel tempo: “mora fieru intelligitur non ex re, sed ex persona; id est si interpellatus opportuno loco non solverit (Dig. , 22, I, 32, Marcianus lib. IV Regularrum)

[114] In termini, cfr. es. Cass. , II, 7/3/94, n. 2538 -ma v. poi Cass. , III, 21/6/2001, n. 8481.

[115] Nobili C., Le obbligazioni: manuale e applicazioni pratiche dalle lezioni di Guido Capozzi, Milano 2008.

[116] Gli interessi costituiscono tradizionalmente uno degli esempi principali della categoria dei frutti civili. Invero la dottrina suole osservare che la defi­nizione legale di frutto civile sembra riferirsi solo agli interessi “corrispettivi”, (come è noto, la legge parla di “corrispettivo del godimento” di una cosa altrui, e fra gli esempi di frutti civili cita gli “inte­ressi dei capitali”), ma che la norma si applica anche alle altre categorie di interessi in base ad una inter­pretazione estensiva o analogica (Giorganni M., L’ina­dempimento, cit., pp. 153 s. L’accoglimento, da parte nostra, di una tesi che svaluta le pretese differenze funzionali fra le varie categorie di interessi, facilita naturalmente l’accogli­mento di questa soluzione. È piuttosto discusso il problema (che ha una cer­ta importanza pratica, soprattutto in tema di pre­scrizione dell’obbligazione di interessi, ma anche sotto altri profili: v., ad esempio, l’art. 1263 comma ult.) se l’ “acquisto”, di cui all’art. 821 c.c., coincida o no con la “scadenza” dell’obbligazione, se cioè le porzioni di interessi maturate siano immediatamente esigibili. Per la soluzione positiva v. Messa C., L’obbligazione degli interessi, Milano 1932, p. 72 s.; Mosco L., I frutti nel diritto positivo, Milano 1947, 71. Secondo altri invece, per l’esigibilità degli interessi, varrebbe il principio della annualità delle rate; così App. Bologna 8 novembre 1962, in Giustizia civile, 1963, I, 938; Simonetto E., I contratti di credito, Padova 1994, 261 s.; Ascarelli T., op. cit.., 589, Fragali A., Del mutuo, in Commentario del codice civile a cura di SCIALOJA e BRANCA, cit., 1966, 357, sub art. 1815. La tesi è stata sviluppata soprat­tutto dal Simonetto, secondo il quale gli art. 1284 e 2948 sembrerebbero riconoscere un uso generale circa la determinazione degli interessi in ragione dell’anno, che del resto coinciderebbe con la considera­zione sociale del fenomeno. Tali argomenti però non sembrano decisivi, tanto più se si considerano i pro­fili pratici in relazione ai quali il problema in esa­me assume rilevanza; né d’altra parte la valutazione del Simonetto, secondo cui la tesi della scadenza im­mediata degli interessi fornirebbe al creditore uno strumento vessatorio nei confronti del debitore, ap­pare realisticamente fondata.

[117] Tut­tavia, in sede di interpretazione della l. 6 dicembre 1962, n. 1643, istitutiva dell’ENEL, che prevede il paga­mento degli indennizzi in venti rate semestrali, sta­bilendo altresì che sulle somme dovute decorra un interesse del 5,50 per cento annuo, pagabile anch’esso in semestralità, si è ritenuto (dalla commissione per l’esame dei ricorsi avverso la liquidazione degli inden­nizzi, nonché dalla prevalente giurisprudenza: Trib. Roma 30 novembre 1966, in Rass. Giur. Enel, 1967, 59; Trib. Roma 28 marzo 1968, ivi, 1968, 341; Trib. Milano 10 luglio 1969, ivi, 1969, 864; Trib. Roma 15 ottobre 1969, ivi, 846; Trib. Roma 7 settembre 1970, in Giust. civ., 1970, I, 1908) che le semestralità di interessi non debbano computarsi sulla base del 2,75 per cento sul capitale dovuto (cioè in base alla metà aritmetica del 5,50 per cento annuo) bensì in base a quel tasso cui corrisponda un “rendimento effet­tivo” del 5,50 per cento annuo; donde l’applicazione di uno sconto e il computo degli interessi al tasso nominale di circa il 2,71 per cento. Questo modo di calcolare gli interessi (che, tra l’altro, non trova ri­scontro nei casi analoghi in cui si hanno pagamenti rateali misti per capitale e interessi, e così ad esem­pio in tutto il traffico bancario) sembra però chiara­mente in contrasto con l’art. 821 c.c., in quanto la giu­risprudenza parte dal principio che la “maturazione” degli interessi del 5,50 per cento avvenga non gior­nalmente, ma solo alla fine dell’anno, sicché il paga­mento semestrale viene considerato come una “anti­cipazione” di una parte degli interessi. Né sembra che il disposto dell’art. 821 possa essere superato considerando che il calcolo puramente aritmetico pro­duce un vantaggio economico per il creditore, che viene a conseguire un rendimento “effettivo” superiore al tasso nominale; questa è una considerazione di fatto non contestabile, ma è anche una conse­guenza del sistema voluto dalla legge (o che potrebbe essere voluto, in casi analoghi, dalle parti). In senso conforme a quanto qui sostenuto cfr. Trib. Firenze 27 febbraio 1969, in Rass. Giur. Enel, 1969, p. 175, alla cui compiuta motivazione si può rinviare per un maggiore approfondimento della questione. Sul problema V. anche JEMOLO, Gli occhiali del giurista, Padova, 1970, 531 ss. (e già in Riv. dir. civ., 1967, II, 417).

[118] Il codice civile prevede la modalità di calcolo degli interessi secondo la regola della c.d. capitalizzazione semplice. L’art. 1283 cod. civ. dispone che “in mancanza di usi contrari gli interessi scaduti possono produrre interessi solo dal giorno della domanda giudiziale o per effetto di convenzione posteriore alla loro scadenza, e sempre che si tratti di interessi dovuti almeno per sei mesi”. L’interesse (capitalizzazione semplice) prodotto da un capitale con riferimento ad un certo periodo di tempo ed ad un certo tasso è, quindi, eguale al prodotto del capitale per il tasso per il tempo.

[119] Cass., 13/11/89, n. 4791.

[120] Così es. Cass., 7/4/94, n. 3290; Cass., 20/6/90, n. 6209.

[121] Da ultimo, cfr. es. Cass., L, 26/1/2002, n. 958; Cass., III, 27/7/2001, n. 10291; Cass., I, 29/5/2001, n. 7260.

[122] Molle G., Operazioni in conto corrente e i tassi d’interesse “del cartello“, in Banca borsa, 1951, II, pp. 319 ss.; Di Majo A., La forma del tasso ultralegale di interessi nei rapporti bancari, in La forma degli atti nel diritto privato. Studi in onore di M. Giorgianni, Napoli-Roma, 1988, pp. 128 ss.; Messinese U., Sulla presunta validità dell’art. 7 comma 6 delle norme bancarie uniformi sui conti correnti di corrispondenza, in Dir. giur., 1989, p. 562; Porzio M., L’accordo interbancario sulla trasparenza, in Dir. banc., 1990, I, pp. 380 ss.; Viale M., Conto corrente bancario e interessi ultralegali, in Riv. dir. comm., 1990, I, p. 593; Giordano F., La trasparenza delle condizioni contrattuali nella nuova legge bancaria, in Riv. soc., 1994, p. 1242; Ferrari M., La nullità della clausola “uso su piazza“: una riforma preannunciata, in Giur. comm., 1994, II, pp. 456 ss.

[123] CENDON P., Commentario al codice civile, Milano 2008.

[124] Per quella più recente v. Cass. 18 novembre 1984, n. 9791; in Giur. it., 1995, I, 1, p. 1882; Cass. 18 maggio 1996, n. 4605, in Contratti, 1997, pp. 37 ss., con nota di Fondrieschi.

[125] Cass. 7 marzo 1992, n. 2765, in Banca borsa, 1993, II, p. 390, con nota di Stefani. In dottrina v. per tutti Patroni Griffi A., Note in tema di cartello bancario e disciplina dei tassi, in Le operazioni bancarie a cura di Portale G., Milano, 1978, I, pp. 61 ss.

[126] Cfr. Cass. 9 aprile 1983, n. 2521, in Giur. it., 1984, I, 1, p. 1018, con nota di Inzitari; Trib. Milano 16 ottobre 1977, in Banca borsa, 1978, I, p. 61, e App. Milano 17 febbraio 1976, p. 60.

[127] Trib. Firenze 18 marzo 1978, in Banca borsa, 1979, II, p. 101, con nota di Bronzini. Da ultimo, Trib. Alba 12 gennaio 1995, in Contratti, 1996, p. 154, con nota di Tucci rileva che tale clausola “non mette mai il cliente alla completa mercé della banca perché ricollega l’andamento dei tassi alla politica economica in atto da parte dell’Autorità Monetaria“.

[128] Trib. Milano 7 ottobre 1985, in Banca borsa, 1987, II, p. 606; Trib. Napoli 6 gennaio 1981, in Dir. giur., 1981, p. 101, con nota di Proto Pisani.

[129] Trib. Milano 7 ottobre 1985, in Banca borsa, 1987, II, p. 606; Trib. Napoli 6 gennaio 1981, in Dir. giur., 1981, p. 101, con nota di Proto Pisani.

[130] V. per una panoramica dell’indirizzo giurisprudenziale richiamato Palisi F., Clausola di “interessi uso piazza“ e orientamenti della giurisprudenza, in Dir. banc., 1991, II, pp. 151 ss.; Stefani M., Brevi note in tema di contestazione del documento di saldoconto e di interessi bancari ultralegali, in Banca borsa, 1993, II, p. 393; De Sinno C., Le clausole di determinazione degli interessi nei contratti bancari, Napoli, 1995, passim.

[131] È stata fornita anche l’ulteriore spiegazione da De Sinno C., op. cit., p. 130, secondo il quale l’esigenza di variabilità nascondeva in realtà una modalità di selezione nell’erogazione del credito. La banca attraverso la variazione, sostanzialmente in via unilaterale, del saggio degli interessi stabilisce la maggiore o minore affidabilità del cliente: tanto il tasso è elevato tanto è meno affidabile il cliente. In realtà tale spiegazione reca in sé un elemento di contraddizione in quanto l’aumento del costo del denaro proprio in danno di chi già fa fatica a restituire quanto ricevuto dalla banca sortisce l’effetto di aumentare ancora di più il debito da restituire (v. Salanitro G., Tassi e condizioni uniformi nei contratti bancari: vincoli di trasparenza e di uniformità, in Banca borsa, 1989, I, p. 491). Sempre a tale proposito è stato correttamente notato che anche la fissazione del tasso d’interesse in cifre avrebbe come grave svantaggio quello di rendere troppo rigida la sua determinazione in relazione alla usuale consistente durata del contratto e quindi alla incidenza delle modificazioni del mercato dei capitali nel medio e nel lungo periodo: v. Molle G., Gli interessi nelle operazioni bancarie in conto corrente, in Banca borsa, 1978, II, p. 62; Bronzini G.B., Regola di comune esperienza per determinare i tassi bancari, in Banca borsa, 1979, II, p. 101; Foglia B., Alcuni rilievi sui saggi d’interesse nei conti correnti bancari, in Banca borsa, 1983, II, p. 187.

[132] Cfr. App. Milano 15 dicembre 1989, in Dir. banc., 1992, I, p. 224, con nota di Inzitari e Ferrari; Trib. Macerata 17 agosto 1989, in Banca borsa, 1991, II, p. 679, ivi, 1991, II, p. 148, con nota di Palisi; Trib. Milano 20 maggio 1991, in Fallimento, 1992, p. 69; Trib. Milano 24 febbraio 1992, in Impresa, 1992, p. 2732, con nota di Volanti; Pret. Pavia 28 novembre 1992, in Giur. comm., 1994, II, p. 446, con nota di Ferrari; Trib. Pavia 1° ottobre 1993, ivi; Trib. Napoli 25 marzo 1994, ivi; Pret. Torino 19 maggio 1994, in Banca borsa, 1996, II, p. 585. Per la giurisprudenza di legittimità v. Cass. 23 gennaio – 10 ottobre 1996, n. 8851, in Impresa, 1997, p. 278, con nota di Martella; Cass. 29 novembre 1996, n. 10657, ivi, p. 479, con nota di Martella.

[133] Per tutti v. Putti G., Gallo M., L’incidenza della legge di attuazione della direttiva Cee 93/13 in materia di clausole abusive nella disciplina dei contratti bancari di conto corrente, apertura di credito, anticipazione bancaria, deposito, in Le clausole vessatorie nei contratti con i consumatori a cura di Alpa e Patti, Milano, 1997, II, pp. 903 ss.

[134] I tassi di interesse, ad esempio, possono essere previsti anche in misura superiore al tasso legale.

[135] In Giur. Milanese, 2002, p. 446.

[136] Rispettando, in caso di variazioni in senso sfavorevole al correntista, le prescrizioni della l. 17 febbraio 1992, n. 154 e delle disposizioni di attuazione.

[137] I conti correnti bancari c.d. mossi presentino, cioè, movimenti dal lato attivo e dal lato passivo in modo tale che agli scoperti si accompagnino rimesse che eguaglino o superino la misura degli interessi maturati nel periodo di riferimento.

[138] Così MORERA, Sulla non configurabilità della fattispecie “anatocismo” nel conto corrente bancario,in Riv.Diritto Civile,2005,II, p.21, : “il che risulta pienamente confermato dall’art. 7, comma 1, delle N.B.U. che oggi disciplinano il conto corrente bancario, ove infatti è stabilito che tutti i rapporti di dare e avere fra banca e cliente titolare del conto sono regolati con annotazioni sul conto stesso.

[139] In Riv. giur. sarda, 2004, p. 63 con nota di Vacca.

[140] Cass. 25 novembre 2002, n. 16568, in Diritto e Giustizia, 2002, p. 6476.

[141] Trib. Napoli 24 novembre 2000, in Giur. napoletana, 2001, p. 4.

[142] App. Roma 24 settembre 2002, in Giur. romana, 2003, p. 138; Trib. Roma 21 gennaio 2000, in Giur. it., 2000, I, p. 2045.

[143] Decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all’evasione fiscale), pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 4 luglio 2006, n. 153.

[144] Legge 4 agosto 2006, n. 248 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, recante disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all’evasione fiscale), pubblicata sul supplemento ordinario alla Gazzetta Ufficiale dell’11 agosto 2006, n. 186.

[145] Decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385 (Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia), pubblicato sul supplemento ordinario alla Gazzetta Ufficiale del 30 settembre 1993, n. 230.

[146] Tale modificazione non riguarda propriamente l’atto in sé, quanto il rapporto tra le parti contraenti. Essa non consiste in una nuova determinazione del contenuto del contratto, quanto in una sua specificazione ovvero nel suo adattamento a un fatto sopravvenuto; nei contratti bancari di cui ci si occupa, è quest’ultima ipotesi a rilevare specificamente. Sulla formalizzazione concettuale del ius variandi come diritto potestativo, v. Gambini A., Fondamento e limiti dello ius variandi, Napoli, 2000 p. 137.

[147] È ovviamente applicabile la presunzione di conoscibilità che è stabilita dall’art. 1335 c.c.

[148] Per quanto riguarda i contratti stipulati con i consumatori, tali clausole sono attualmente disciplinate dal 5° e, rispettivamente, dal 6° comma dell’art. 33 del codice del consumo, i quali riproducono il 6° e, rispettivamente, il 7° comma del previgente art. 1469-ter c.c. (v. Gaggero C., sub art. 1469-bis, 5°, 6° e 7° comma, in Comm. cod. civ. Schlesinger, diretto da Busnelli, Artt. 1469-bis – 1469-sexies, Clausole vessatorie nei contratti del consumatore, a cura di Alpa e Patti, Milano, 2003, p. 669 ss.).

[149] Roppo A., Il contratto, in Tratt. Iudica-Zatti, Milano, 2001, pp. 555 e 557.

[150] Schlesinger, Poteri unilaterali di modificazione (“jus variandi”) del rapporto contrattuale, in Giur. comm., 1992, p. 18 ss.

[151] Decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206 (Codice del consumo, a norma dell’art. 7 della l. 29 luglio 2003, n. 229), pubblicato sul supplemento ordinario alla Gazzetta Ufficiale dell’8 ottobre 2005, n. 235.

[152] Per un’analisi dettagliata del contenuto precettivo della norma, si rinvia a Sirena, sub art. 1469-ter, 3° comma, in Comm. cod. civ. Schlesinger, diretto da Busnelli, Artt. 1469-bis – 1469-sexies, Clausole vessatorie nei contratti del consumatore, a cura di Alpa e Patti,  cit., p. 913 ss.

[153] Roppo A., op. cit., p. 557. Ma in senso opposto cfr. Bussoletti, La disciplina del ius variandi nei contratti finanziari secondo la novella codicistica sulle clausole vessatorie, in Dir. banca merc. fin., 2005, p. 32 s.

[154] Roppo A., op. loc. ult. cit.

[155] Legge 18 giugno 1998, n. 192 (Disciplina della subfornitura nelle attività produttive), pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 22 giugno 1998, n. 143.

[156] Per quanto riguarda il diritto italiano, v. al riguardo  Gabrielli E., voce “Arbitraggio”, in Dig. disc. priv., Sez. Civ., Agg., Torino, 2003, p. 134 s.; Macario, Adeguamento e rinegoziazione nei contratti a lungo termine, Napoli, 1996, p. 182 ss.

[157] Per quanto riguarda il diritto italiano, v. al riguardo  Gabrielli E., voce “Arbitraggio”, in Dig. disc. priv., Sez. Civ., Agg., Torino, 2003, p. 134 s.; Macario, Adeguamento e rinegoziazione nei contratti a lungo termine, Napoli, 1996, p. 182 ss.

[158] Barenghi F., Determinabilità e determinazione unilaterale nel contratto, Napoli, 2005, p. 135 ss.

[159] Cfr. Di Marzio F., Clausole abusive nei contratti bancari. Recesso, ius variandi e limitazioni di responsabilità, in Il diritto dei consumi, I, a cura di Perlingieri e Caterini, Rende, 2004, p. 316.

[160] Su quest’ultimo punto v. Scognamiglio R., Dei contratti in generale, Art. 1321-1352, in Comm. Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1970, p. 361.

[161] Sul problema v. Sacco, in Sacco, De Nova A., Il contratto, II, in  Trattato di diritto civile, diretto da Sacco, Torino, 1993, p. 137, nonché recentemente FICI, Il contratto “incompleto”, Torino, 2005, p. 165 ss.

[162] Nel senso del testo, v., a proposito dell’art. 1349 c.c., Bianca C.M., Diritto civile, III, Il contratto2, Milano, 2000, p. 330; Gazzoni, Manuale di diritto privato12, Milano, 2006, p. 902.

[163] Con specifico riguardo ai contratti di finanziamento v. Nivarra C., Ius variandi del finanziatore e strumenti civilistici di controllo, in Riv. dir. civ., 2000, II, p. 468.

[164] Sulla risarcibilità del danno da demansionamento e dequalificazione del lavoratore si sono recentemente pronunciate le Sezioni Unite in Cass., 24 marzo 2006, n. 6572, in Riv. giur. lav., 2006, p. 233 ss., con nota di Fabbri, Le Sezioni Unite, lo ius variandi dell’imprenditore e il danno esistenziale da demansionamento.

[165] Per un’indicazione in tal senso v. Di Marzio F., Clausola sullo ius variandi, in I nuovi contratti nella prassi civile e commerciale, XXV, a cura di Cendon, Padova, 2004, p. 165

[166] Cass. 8 novembre 1997, n. 11003, in Giust. civ., 1998, I, 2889, con nota di Pagliantini, Indeterminabilità dell’oggetto, giudizio di nullità e contratto di agenzia: verso l’inefficacia delle clausole di modificazione unilaterale del contratto?; in Nuova giur. civ. comm., 1999, I, p. 338 ss., con nota di Scarpello, Determinazione dell’oggetto, arbitraggio, jus variandi.

[167] Com’è stato rilevato più in generale, la buona fede sancita a carico delle parti obbliga ciascuna di esse a salvaguardare l’utilità dell’altra, nei limiti in cui ciò non importi un apprezzabile sacrificio (v. soprattutto Bianca C.M., Diritto civile, IV, L’obbligazione, Milano, 1993 (rist.), p. 87).

[168] Quadri E., Le obbligazioni pecuniarie, in Trattato di diritto privato, Torino, 1984, p. 566-567

[169] Cass., 23 ottobre 1976, n. 3807; Cass., 22 agosto 1977, n. 3832.

[170] Cass., 9 aprile 1984, n. 2262, in www.altalex.it; Cass., 22 agosto 1977, n. 3832, in www.altalex.it.

[171] Trib. di Monza, 12 dicembre 2005, n. 3393, in www.ilcaso.it

[172] Cutugno D.E., De Gioia V., L’anatocismo bancario, Varese, 2005, p. 90

[173] Rolfi M., Le Sezioni Unite e l’anatocismo, in Corr. merito, 2005, 1, p. 7

[174] Trib. di Monza, 12 dicembre 2005, n. 3393.

[175] Martines T., Diritto costituzionale, Milano, 1992, p. 65

[176] Cass., 16 maggio 1977, n. 1724, in Riccio A., L’anatocismo, Padova, 2002, p. 65

[177] Trib. di Monza, 12 dicembre 2005, n. 3393.

[178] Cass., 6 ottobre 1976, n. 3303, in Foro it., 1977, I, p. 442; Cass., 9 febbraio 1987, n. 1337, in Mass. Giust. civ., 1987, p. 2; Cass., 27 dicembre 1994, n. 11177, in Rep. Foro it., voce “Indebito”, n. 11; Cass., 18 novembre 1995, n. 11973, in Gius, 1995, p. 693 ss.

[179] Trib. di Vibo Valentia, 16 gennaio 2006, in Giurispr. di Merito, 2006, 10, p. 41

[180] AA.VV., Le obbligazioni e il contratto, Torino, 2004, p. 489

[181] Maffeis D., Anatocismo bancario e ripetizione degli interessi da parte del cliente, in I contratti, 2001, p. 406.

[182] Cass. civ., sez. I, 3 maggio 1999, n. 4389, in Banca, borsa, tit. cred., 2000, II, p. 505

[183] Pandolfi V., Anatocismo bancario: le questioni ancora aperte, in Contratti, 2005, n. 7, p. 715; Maffeis D., op. cit., p. 411; Salanitro G., Gli interessi bancari anatocistici, in Banca, borsa, tit. cred., 2004, 4, p. 15.

[184] CASTRO S., Con lo scioglimento del contratto scatta l’obbligo di restituire il capitale (Nota a Cass. sez. un. civ. 8 aprile 2008 n. 12639) in Guida al Diritto, 2008, fasc. 31, pagg. 60-63.

[185] Tarzia G., Il contratto di conto corrente bancario, Milano, 2001, p. 178 ss.

[186] Cass. 16 marzo 1999, n. 2374, in Banca borsa e tit. cred., 1999, II, p. 389.

[187] cfr. Cass. 15 dicembre 1981 n. 6631, in Riv. dir. comm., 1982, II, 89.

[188] Cass., sez. un., 4 novembre 2004 n. 21095, in Dir. banca e mercato fin., 2004, p. 645, con nota di Nigro, in Foro it., 2004, I, 3294, con note di Palmieri e di Pardolesi ed in Giur. it., 2005, 66, p. 741, con note di Cottino e di Razzante; conf. Cass. 30 novembre 2007 n. 25016; Cass. 19 maggio 2005 n. 10599). Nei medesimi termini, in sede di merito, v., tra le altre, Trib. Palermo, sez. III, 6 ottobre 2006 n. 3885, in Merito, 2007, p. 4; Trib. Torino, sez. VIII, 5 maggio 2006 n. 2956, ivi, n. 4, p. 12, con nota di Lamanna; Trib. Lecce, sez. I, 6 marzo 2006, n. 422, in dejure.giuffre.it; Trib. Reggio Calabria, sez. II, 4 maggio 2006, n. 591, in dejure.giuffre.it (contra), prima dell’intervento delle Sezioni Unite, sulla scorta dell’autonomia negoziale degli istituti di credito nonché alla luce delle peculiarità del rapporto di conto corrente bancario, cfr. Trib. Napoli 10 novembre 2004, n. 11490; Trib. Bari, 28 febbraio 2001, n. 530; Trib. Catanzaro 12 luglio 2001, n. 599.

[189] Così anche Trib. Roma 12 gennaio 2007, in Foro it., 2007, I, p. 1947; Trib. Cagliari 5 aprile 2006, in Riv. giur. sarda, 2007, n. 2, p. 409, con nota di Casula.

[190] Trib. Pescara 4 aprile 2005, in dejure.giuffre.it, 2005, n. 9, 1772.

[191] Cfr., di recente, Trib. Civitavecchia 5 novembre 2007, in dejure.giuffre.it; Trib. Torino, sez. VIII, 5 maggio 2006, n. 2956, cit.; Trib. Terni 18 marzo 2003.

[192] V., tra le altre, Trib. Firenze, sez. III, 27 novembre 2006, in dejure.giuffre.it; Trib. Bari, sez. I, 20 ottobre 2006, n. 2618, in www.giurisprudenzabarese.it

[193] In dottrina, in argomento, tra i molti, Bolano M., La cadenza temporale della capitalizzazione degli interessi e i giudici di merito: due sentenze a confronto, in Nuova giur. civ. comm., 2006, p. 28; Carbone V., Il salvataggio normativo dell’attuale prassi bancaria sull’anatocismo al centro di un acceso dibattito, in Corr. giur., 2000, p. 366; Fauceglia G., Anatocismo bancario: la consulta boccia la disposizione di sanatoria, in Dir. e prat. soc., 2000, n. 21, p. 66; Gioia G., La disciplina degli interessi divenuti usurari: una soluzione che fa discutere, in Corr. giur., 2000, p. 883; Panzani L., Anatocismo: tra giurisprudenza e nuova legislazione, in Fall., 1999, p. 1236; Scozzafava O.T., L’anatocismo e la Cassazione: cosi è se vi pare, in Contratti, 2005, p. 225.

[194] Trib. Messina 16 agosto 2005, in Giur. Locale – Messina, 2005.

[195] Trib. Roma 3 giugno 2004, (s.m.); Trib. Torino, 14 novembre 2002, in Giur., 2003, p. 243 (s.m.); Trib. Reggio Calabria, 28 giugno 2002, in Giur., 2003, p. 900, nota di Lenoci; Trib. Roma, 28 novembre 2002, in Giur., 2003, p. 899 nota di Lenoci.

[196] Trib. Pescara 6 maggio 2005, in Foro it., 2005, I, p. 2177.

[197] In Bollettino legisl. tecnica, 2001, p. 862.

[198] Cass., sez. un., 4 novembre 2004, n. 21095, in Dir. banca e merc. fin., 2004, p. 645.

[199] Pret. Roma 11 novembre 1996, in Nuova giur. civ. comm., 1998, I, p. 183 con nota di Gallo; Trib. Busto Arsizio 15 giugno 1998, in Foro it., 1998, I, p. 2997; Trib. Vercelli 21 luglio 1994, in Giur. it., 1995, I, 2, p. 408 con nota di Inzitari; Trib. Monza 23 febbraio 1999, in Foro it., 1999, I, p. 1340.

[200] Libertini U., Interessi, in Enc. dir., XXXIII, Milano, 1972; Sinesio D., L’anatocismo, in Dir. banc., I, 1990, p. 27.

[201] Trib. Milano 27 febbraio 1992, in Giur. it., 1992, I, 2, p. 375; Trib. Milano 13 ottobre 1988, in Banca borsa tit. cred., 1990, II, p. 213.

[202] App. Cagliari 8 maggio 1986, in Riv. giur. sarda, 1987, p. 659.

[203] Cass., sez. III, 15 dicembre 1981, n. 6631, in Giur. civ. Mass., 1981, f. 12.

[204] Giacalone G., Illegittima la capitalizzazione trimestrale degli interessi bancari a debito dei clienti, in Giust. civ., I, 1999, 1307; Costanza M., Anatocismo: la svolta della Cassazione, in Giust. civ., I, 1999, p. 1585; Moscuzza D., L’anatocismo nel contratto di conto corrente ordinario e nel contratto di conto corrente bancario, in Giust. civ., I, 1999, p. 1588; Palmieri-Pardolesi, Nota, in Foro it., 1999, p. 1153.

[205] NigroA., L’anatocismo nei rapporti bancari tra passato e futuro, in Foro it., I, 2000, p. 460.

[206] MORERA, Sulla non configurabilità della fattispecie “anatocismo” nel conto corrente bancario,in Riv.Diritto Civile,2005,II, p. 23

[207] MORERA, Sulla non configurabilità della fattispecie “anatocismo” nel conto corrente bancario,in Riv.Diritto Civile,2005,II, p. 23

[208] MORERA, Sulla non configurabilità della fattispecie “anatocismo” nel conto corrente bancario,in Riv.Diritto Civile,2005,II, p. 23 ; L’anatocismo può essere definito come errore, equivoco o meglio, “effetto ottico”, e “ alla fine dell’operazione di chiusura”, il conto evidenzierà , rispetto a prima una somma diversa (saldo disponibile) a disposizione del cliente, il quale potrà assumere diversi comportamenti: a) ritirarla e chiudere il conto (se la somma è positiva, e cioè “in avere”); b) versare direttamente l’equivalente e chiudere il conto (se la somma è negativa, cioè “in dare”); c) continuare a fruirne in quanto moneta bancaria, lasciando dunque operativo il conto sul quale matureranno commissioni, spese ed interessi (attivi o passivi); laddove, in particolare, gli interessi verranno pagati Dal cliente alla banca, mediante annotazione , alla successiva “chiusura” periodica del conto.

[209] MORERA, Sulla non configurabilità della fattispecie “anatocismo” nel conto corrente bancario,in Riv.Diritto Civile,2005, II, p. 24, e, MORERA, Anatocismo bancario ed errori di prospettiva: nonostante la Cassazione, c’è luce in fondo al tunnel,in Giustizia civile, 2005, I, p. 1841 ss.; “vale precisare che le conclusioni raggiunte non possono trovare alcuna applicazione in relazione a quelle ipotesi di conto corrente bancario in cui l’apertura di credito risulti “revocata” (art. 1845 c.c.), con residuo debito da restituzione in capo al correntista; ovvero parimenti, a quelle ipotesi di conto corrente non più “in funzionamento”, con saldo debitore residuo. Gli è infatti che sul saldo debitore esistente al momento della revoca dell’affidamento in conto gli interessi che continuano a maturare nel tempo non potranno in alcun caso essere pagati dal correntista; né con denaro depositato dallo stesso, né con denaro messo a disposizione dalla banca attraverso un’apertura di credito; e ciò perché mancano, nella fattispecie, tanto il primo quanto il secondo. Cosicché, allora sì, l’eventuale “ addebito” degli interessi maturati alla fine del trimestre –in caso poi di calcolo degli interessi, al termine del trimestre successivo, sulla somma rappresentata dal capitale iniziale e dagli interessi precedentemente addebitati – finirebbe per rappresentare fattispecie anatocistica; allora in principio vietata, in mancanza di determinate condizioni, dal citato art. 1283 c.c.”

[210] C. cost. 17 ottobre 2000, n. 425, in Giur. comm., 2001, II, p. 179, nota di Santucci.

[211] Cass., sez. un., 4 novembre 2004, n. 21095, in D&G, 2004, p. 4229, nota di Rossetti.

[212] BIANCA, Diritto civile, vol. 4, L’obbligazione, Milano,1993, p. 196. in giurisprudenza Cass. civ., sez. I, 22 aprile 2000, n. 5286, che ha ritenuto pacificamente applicabile ai contratti di conto corrente bancario la disciplina di cui all’art. 1815, comma 2, c.c., quando siano stati pattuiti interessi passivi usurari a titolo di scoperto.

[213] App. Napoli, 26/11/1954, in Gius. civ. ,1955, I, p. 642; App. Firenze, 28/4/1967 in Gazz. Trib. , 1967, p. 735.

[214] E. SIMONETTO, Mutuo, I) Disciplina generale, 1990, in Enciclopedia giuridica Treccani, XX, 1-14, P. 8, secondo il quale “ occorre tenere presente che il privato che impresta, in genere impresta quando le banche non impresterebbero, o per i rischi inerenti, soggettivi e oggettivi, oppure perché il mercato dei capitali è in periodo di contrazione, oppure per altre ragioni. Occorre tenere presente altresì che il rischio corso da un privato è più elevato di quello della banca che ha modo di scaricare i rischi stessi sui suoi clienti, sia con la qualità di operazioni contemporaneamente in corso, sia con la costituzione di fondi di rischio. Mentre il privato corre un rischio singolo, non assorbito né assorbibile da alcun fondo rischio, essendo l’operazione isolata”

[215] U. BRECCIA, Le obbligazioni, in Trattato di diritto privato, a cura di IUDICA e ZATTI, Milano, 1991, p. 344

[216] G. GIAMPICCOLO, Mutuo (dir. priv.),in Enciclopedia del diritto, XXXVII,p. 462; contra: M. LIBERTINI, Interessi,in Enciclopedia del diritto, XXII,p. 110.

[217]  Trib. Genova , 12/01/1956 in Temi genovese, 1957, p. 433, secondo cui: “la pattuizione di un interesse elevato non costituisce di per sé un illecito né contrasta con norme di ordine pubblico. In proposito è sufficiente rilevare che il legislatore ha lasciato alla libera volontà delle parti la determinazione del tasso di interesse, solo prescrivendo l’onere dell’atto scritto ab substantiam per la pattuizione di interessi superiori al tasso legale; e che, di conseguenza, non puòritenersi illecita di per sé la fissazione di interessi in misura anche assai elevata posto che con ciò si fa uso di una facoltà riconosciuta dalla legge.”

[218]  L. CRISTOFARI, Mutuo e risoluzione del contratto, in Il diritto privato oggi, Milano, 2002: il dato che unifica le due tesi è rappresentato dall’elemento oggettivo dell’ingiustificata elevatezza degli interessi convenuti. Ma, mentre per alcuni tale elemento era da considerare di per sé sufficiente a integrare la nozione di “interessi usurari” e, conseguentemente, a produrre la nullità della clausola con cui gli stessi erano stati convenuti, per altri, allo stesso effetto, era ritenuta indispensabile, pur nel silenzio della legge, la presenza di un elemento ulteriore rappresentato dall’approfittamento dell’altrui stato di bisogno.

[219] E. SIMONETTO, I contratti di credito, Padova, 1953, p. 270; A. VENDITTI, Della nullità della clausola contenente la stipulazione di interessi usurari, in Giustizia civile,I,p. 647;

  1. MIRABELLI, La rescissione del contratto, Napoli, 1962, p. 138.

[220] Trib. Roma, 26/05/1981, in Rivista di diritto civile,1982, p. 507.

[221] Cass. n. 1158 del 16/05/1966, in Foro padano,1967, I, p. 553

[222]  App. Napoli 11/03/1988

[223] Cass., n. 9021, del 26/08/1993, in Archivio civile , 1994,I, p. 31.Con il secondo motivo il ricorrente denuncia vizio di motivazione della sentenza impugnata su punto decisivo della causa, in relazione all’art. 360, n.5, c.p.c., per avere la Corte d’Appello erroneamente ritenuto non usurari gli interessi convenzionalmente stabiliti. Anche questa censura non è fondata, avendo la Corte d’Appello, con puntuale e corretta motivazione, osservato che la misura degli interessi, fissata per iscritto, era stata accertata dal debitore liberamente determinatosi alla contrattazione, dal momento che il denaro ricevuto in prestito doveva servirgli non già per fare fronte a improrogabili necessità di vita, bensì soltanto per espletare una normale attività imprenditoriale: dovendo sul punto riaffermarsi che la pattuizione di interessi elevati non costituisce motivo di illiceità del negozio, essendo illecito solo quello in cui si ravvisino gli estremi del reato di usura a norma dell’art. 644 c.p.; conseguentemente, può ritenersi l’illiceità del contratto solo se ricorrono un vantaggio usurario, lo stato di bisogno del debitore e l’approfittamento di tale stato da parte del creditore.

[224] Cass. n. 1693, del 12/06/1973, in Foro Italiano, 1974,I,p. 481. Ancora si affermava che nel valutare se si versi in tema di convenzione usuraria illecita non si può prescindere dall’indagine circa l’uso che il debitore abbia inteso fare del denaro ottenuto in prestito, quando il debito sia stato contratto senza alcuna particolare ragione e a piena libertà di determinazione.

[225] E.QUADRI, Aspetti e prospettive della disciplina penale dell’usura, in Rivista trimestrale di diritto pubblico dell’economia,1995, p. 343

[226]  L. FERRONI ,La nuova disciplina civilistica del contratto di mutuo ad interessi usurari,Napoli, 1997,p. 20.

[227] Così L. FERRONI ,La nuova disciplina civilistica del contratto di mutuo ad interessi usurari,Napoli, 1997,p.20.

[228] L. FERRONI ,La nuova disciplina civilistica del contratto di mutuo ad interessi usurari,Napoli, 1997.,p. 20.

[229] F. CARRESI, Il mutuo, in Trattato di diritto civile italiano diretto da VASSALLI, VII,2, Torino,1957, p. 127; M. LIBERTINI, Interessi, in Enciclopedia del diritto, XXII, 1972, p. 130.

[230] M. LIBERTINI, Interessi, in Enciclopedia del diritto, XXII, 1972, p. 130.

[231] App. Napoli 26/11/1954 in Giustizia civile,1955,I, p.642, l’inquadramento della stipulazione di interessi usurari nel concetto generale di lesione non è in contrasto con l’espressione usata dal legislatore “la clausola è nulla” la quale potrebbe fare pensare, attraverso la soluzione ex lege del tasso legale alla misura convenzionale, a un ben più circoscritto rimedio giuridico, riconducibile al diverso problema della efficacia delle clausole accessorie al rapporto principale di obbligazione. La incongrua formulazione della norma in esame si giustifica per l’equivoco incorso dal legislatore nel ritenere la clausola degli interessi un elemento accessorio ed eventuale nel contratto di mutuo. Sennonché la più autorevole dottrina ha ormai definitivamente chiarito che la stipulazione degli interessi costituisce il corrispettivo della prestazione offerta dal mutuante, per cui la disciplina degli interessi usurari investe di necessità la intera economia del rapporto negoziale e, come tale, va esaminata sub specie dell’art. 1448, c.c. la particolarità degli effetti si risolve in concreto in un’automatica reductio ad aequitatem della prestazione eccessiva onde, anche sotto questo riflesso,il rimedio in esame non presenta alcuna specifica individualità, che valga a ricondurlo fuori dell’ambito della generale azione di lesione.

[232] M. FRAGALI, Del mutuo,in Commentario del codice civile a cura di SCAJOLA e BRANCA, Bologna, 1966,p. 373; G. GIAMPICCOLO, Comodato e mutuo, in Trattato di diritto civile, diretto da GROSSO  e SANTORO PASSARELLI, Milano, 1972, p. 92; G.B. FERRI, Interessi usurari e criterio di normalità, in Rivista del diritto commerciale e del diritto generale delle obbligazioni,I, 1975,p. 291; O.T. SCOZZAFAVA, Gli interessi monetari, Napoli,1984,p. 204; R. TETI, Il mutuo,in Trattato di diritto privato diretto da RESCIGNO, Torino, 1985, p. 678; A. LUMINOSO, Contratti tipici e atipici, in Trattato di diritto privato a cura di IUDICA e ZATTI, Milano, 1995, p. 717.

[233] G.B. FERRI, Interessi usurari e criterio di normalità, in Rivista del diritto commerciale e del diritto generale delle obbligazioni,I, 1975,p. 273-297, all’intervento legislativo che sia sotto il profilo civile (art. 1448 c.c.) sia sotto il profilo penale (art. 644 c.p.) colpisce il singolo atto di approfittamento, si è opportunamente affiancato (art. 1815 c.c.) un intervento che, quanto meno sotto il profilo civilistico (attraverso appunto il meccanismo e della nullità della clausola e che contiene interessi usurari e della contemporanea riduzione di essi alla misura legale) colpisca, anche e soprattutto, quel più ampio ventaglio di ipotesi, frequentissime nella pratica, in cui la non adeguatezza della prestazione nasce non tanto in vista dell’approfittamento di uno stato di bisogno, ma dall’operare di livelli di costo del denaro predeterminati da chi, alla luce di criteri di imprenditorialità, organizza professionalmente un certo tipo di mutuo. Ciò significa che colui che presta a usura non si preoccupa tanto dell’eventuale stato di bisogno del mutuatario quanto del che il denaro sia impiegato a quelle condizioni che egli ha predeterminato. Svincolato, dunque, da un lato il rilievo civilistico dell’usura dall’approfittamento dello stato di bisogno che costituisce invece uno degli elementi del reato di usura ex art. 644 c.p.

[234] E. QUADRI, Profili civilistici dell’usura,1995, in Foro Italiano, p. 344, con l’art. 644 c.p. si è inteso reprimere non ogni obbligazione usuraria, bensì solo le fattispecie in cui essa sia qualificata da quegli elementi ulteriori che integrino la violazione di quei superiori diritti sociali, che giustifica la sanzione penale, connotando la situazione come particolarmente grave per l’allarme sociale che suscita; elementi consistenti nell’abuso dello stato di bisogno della persona che contrae l’obbligazione. Non può sfuggire, insomma la distinzione, nella norma penale, di due elementi, uno di carattere oggettivo, costituito dagli “interessi o altri vantaggi usurari”, uno di carattere soggettivo, rappresentato dall’abuso dello stato di bisogno altrui; nell’ambito dell’art. 644 c.p., cioè, il requisito soggettivo risulta essere ulteriore rispetto a quello oggettivo, essendo richiesto per la ricorrenza del reato. Ogni accenno relativo all’attività profittatoria scompare, invece, nella disposizione del codice civile, ove si allude semplicemente alla pattuizione di “interessi usurari”; altri elementi di differenziazione a favore di una diversità strutturale tra le disposizioni in esame in G. GIAMPICCOLO, Comodato e mutuo, in Trattato di diritto civile, diretto da GROSSO  e SANTORO PASSARELLI, Milano, 1972, p. 88, secondo cui la lettera della norma penale e la storia della sua formulazione lasciano più di un dubbio sul fatto che con l’art. 644 c.p. il legislatore abbia inteso penalmente colpire ogni forma di usura, e non piuttosto colpirne solo la forma più grave che si ottiene approfittando dello stato di bisogno altrui. In secondo luogo, l’art. 1815 c.c. non fa riferimento a un “attività” usuraria ma solo a un “compenso “usurario. E i due concetti non coincidono del tutto. Occorre tenere presente, infatti che, pur nel linguaggio comune, ma già nel linguaggio tecnico e nello stesso legislativo, per interesse o vantaggio o compenso “usurario” non si intende già il lucro ottenuto sfruttando le altrui necessità o debolezze, ma più semplicemente quel vantaggio o interesse smodato, esorbitante, che mentre, per essere assai lontano dal giusto corrispettivo, incontra comunque la riprovazione della coscienza sociale come una forma immorale di speculazione sul denaro, dall’altro, per essere solitamente frutto di strozzinaggio, si suol definire da “usuraio”o, appunto “usurario”.

[235]  G. GIAMPICCOLO, Comodato e mutuo, in Trattato di diritto civile, diretto da GROSSO  e SANTORO PASSARELLI, Milano, 1972,  p. 89.

[236] G.B. FERRI, Interessi usurari e criterio di normalità, in Rivista del diritto commerciale e del diritto generale delle obbligazioni,I, 1975,p. 292, non esistono infatti interessi astrattamente esorbitanti e quindi astrattamente individuabili come usurari. Esistono interessi concretamente esorbitanti e quindi, in concreto,usurari. Quello che può essere un tasso d’interessi usurario, rispetto a una determinata e concreta situazione, può non avere tale carattere rispetto a una situazione diversa; non è ,dunque, sufficiente constatare un tasso elevato di interesse per far ritenere usurario il compenso pattuito; ma sarà indispensabile constatare se il tasso, che appaia esorbitante, abbia o meno una giustificazione economica, una sua congruità con l’operazione economica di cui, appunto, il tasso di interessi stesso rappresenta un elemento. In sostanza , l’individuazione della natura usuraria o meno dell’interesse pattuito, nascerà dalla valutazione del tipo di operazione economica cui esso si collega. Ciò significa che non sarà possibile fare ricorso a criteri e metri di valutazione precisi e costanti, cioè applicabili, in via generale, a ogni situazione che in concreto si presenti.

[237] G.B. FERRI, Interessi usurari e criterio di normalità, in Rivista del diritto commerciale e del diritto generale delle obbligazioni,I, 1975,p. 294, per determinare quale sia il rischio che grava sul mutuante è necessario considerare sia il periodo di utilizzazione della somma di denaro mutuata, sia la possibile svalutazione della moneta durante il periodo in cui il mutuatario avrà a disposizione la somma mutuata, sia infine il fatto che il mutuante abbia ottenuto o meno garanzie. Dalla considerazione di tutti questi elementi è dunque possibile valutare il carattere eventualmente abnorme e quindi usurario degli interessi richiesti. E tuttavia tale affermazione necessita di un’ulteriore specificazione che permetta di stabilire se taluni eccessi possano configurare, sempre nei confronti del caso concreto, fenomeni di usura. Ed è per questo che accanto alla valutazione del rischio che grava sul mutuante devono essere considerati quegli eventuali maggiori rischi che possono derivare da altri fattori. Qual è, ad esempio, la considerazione del mercato in cui dovrà realizzarsi l’operazione economica per il quale il mutuo sia stato richiesto.

[238] Trib. Torino, 6/09/1950, in Temi, 1950, p.577

[239]  E. QUADRI, Profili civilistici dell’usura,1995, in Foro Italiano, p. 343, riporta parte della Relazione Ministeriale al codice civile,in cui si legge che la sanzione della nullità si è limitata all’eccedenza sulla misura degli interessi legali, mantenendosi fermo, nel resto, il contratto. In tal modo si è colpito il mutuante impedendogli di godere del vantaggio usurario che si è fatto promettere dal mutuatario, il quale, se si fosse dichiarato nullo il contratto, sarebbe rimasto obbligato all’immediata restituzione del capitale ricevuto.

[240] A. CANDIAN, Contributo alla dottrina dell’usura e della lesione del diritto positivo italiano, Milano, 1946, p.52; G. MIRABELLI, La rescissione del contratto, Napoli, 1962, p.122

[241] G. OPPO, Banca e titoli di credito, Padova, 1992, p.434, secondo cui:” può dirsi punito, e quindi vietato, il negozio solo in quanto la norma penale prende in considerazione un comportamento dei privati nella sua struttura ed efficacia negoziali. Perché possa dirsi vietato il contratto occorre che sia punito il comportamento negoziale di entrambe le parti: diversamente, l’antigiuridicità penale è di per sé nel comportamento della parte punita, non nel contratto.

[242] E. SIMONETTO, Mutuo, I) Disciplina generale, 1990, in Enciclopedia giuridica Treccani, XX, 1-14, p. 8, il rimedio previsto dalla legge contro la usurarietà dell’interesse è quello dell’automatica reductio ad aequitatem, che sarebbe l’applicazione automatica dell’interesse legale in luogo di quello usurario,continuando il rapporto fino alla scadenza del mutuo o ad altra ragione di fine del rapporto stesso. La prosecuzione del rapporto è disposta per fare sì che la cessazione non si verifichi a danno completo del vessato che dovrebbe la restituzione anticipata, senza poter fruire dei capitali fino alla fine. L’applicazione della risoluzione farebbe sì che nessuno invocherebbe la norma, terrorizzato dalla conseguenza della restituzione ante diem e della fine della fruizione per scopi magari personali essenziali oppure economico-restaurativi dell’impresa

[243] App. Firenze  28/04/1967, in Gazzetta tributaria, 1967, p. 735, “quanto all’esistenza di un prestito con interessi usurari, basta ricordare che l’art. 1815, comma secondo, c.c. dichiara nulla la clausola con cui siano stati pattuiti interessi usurari e legittima la loro riduzione a interessi alla misura legale. Per il che è evidente che, salvo variazione di questa pattuizione accessoria che è il tasso degli interessi oltre il limite di legge, il contratto nel suo insieme rimane fermo e valido.

[244] Trib. Milano, 13/11/1997, in Foro italiano, 1998, I, p. 1623

[245] Cass. n.1720, del 15/07/61, in Rivista del diritto commerciale e del diritto generale delle obbligazioni,1962,II,p.201

[246] M. FRAGALI , Del mutuo, in Commentario al codice civile, di SCAJOLA e BRANCA, Bologna, 1962, p.387, secondo cui l’usura è soltanto per il mutuante contraria a ogni principio morale, secondo la concezione ricevuta dall’ordinamento. Onde l’interesse eccedente la misura legale è sicuramente ripetibile da parte del mutuatario, ove la misura convenuta appaia esosa.

[247] Cass. n. 926 del 6/04/1966 in Foro italiano, 1966,I,p. 1535, statuisce che : “allorché il debitore, il quale assume di avere dovuto subire la imposizione di interessi usurari, non abbia versato denaro, ma abbia trasferito cambiale accettate da terzi, appar chiaro che nessuna restituzione può porsi a carico del creditore per le cambiali rimaste insolute, in rapporto alle quali egli non ha riscosso cioè somma alcuna, ma ne abbia probabilmente erogato per cercare di ottenere il pagamento. Appare chiaro altresì che, nella situazione predetta, non si tratta di compensare il credito di chi ha subito l’usura nelle mani del creditore usuraio, ma si tratta invece di determinare la misura delle indebite percezioni, operazione imprescindibile per stabilire se e quanto possa ripetere chi ha subito l’usura.” In altri termini: “sebbene l’usura si consumi anche con la semplice promessa di denaro o di altre cose mobili, quando si deve provvedere sulla domanda di restituzione è necessario stabilire quello che il creditore ha effettivamente percepito e a tal fine non si può tener conto di cambiali accettate da terzi che il debitore abbia trasferito al creditore e che siano rimaste insolute nelle mani di costui.

[248] R. TETI ,Profili civilistici della nuova legge sull’usura, in Rivista italiana di diritto privato, 1997, p. 485 : “ con la nuova disciplina la nozione di usurarietà non è limitata al tasso nominale di interesse, ma si estende a tutte le somme che costituiscono il costo del credito”.

[249] V. CARBONE, Usura civile: individuato il “tasso soglia”, 1997, in Corriere giuridico, p. 508; F. REALMONTE, Stato di bisogno e condizioni ambientali: nuove disposizioni in tema di usura e tutela civilistica della vittima del reato, 1997,in Rivista del diritto commerciale e del diritto generale delle obbligazioni, I, p. 779; U. MORERA, Interessi pattuiti, interessi corrisposti, tasso soglia e usurarietà sopravvenuta, 1998, in Banca, borsa e titoli di credito, p. 519; E. QUADRI, in Usura (diritto civile), 1999,in Enciclopedia giuridica Treccani, XXXII, 4.

[250] O.T. SCOZZAFAVA, Gli interessi monetari, Napoli, 1984, p.211; contra: M. LIBERTINI, Interessi, 1972, in Enciclopedia del diritto , XXII, p. 126.

[251]  F. REALMONTE, Stato di bisogno e condizioni ambientali: nuove disposizioni in tema di usura e tutela civilistica della vittima del reato, 1997,in Rivista del diritto commerciale e del diritto generale delle obbligazioni, I, p. 780: si può in ogni caso ricorrere alla disciplina della frode alla legge. Sicché, la pattuizione di termini ravvicinati imposti dall’usuraio al fine di porre quasi immediatamente il mutuatario in posizione di inadempimento deve considerarsi nulla ex art. 1344 c.c. La nullità colpisce  sia la clausola con cui si determina la misura degli interessi, sia la pattuizione del termine ravvicinato, ponendo l’usuraio che intenda conseguire la restituzione del capitale di fronte alla necessità di fare ricorso al giudice, onde ottenere ex art. 1183 c.c. la fissazione di un termine congruo secondo la natura dell’affare. Ne scaturisce un sistema di tutela coerente in cui l’ipotesi più grave è sanzionata con la nullità della pattuizione, mentre all’ipotesi meno grave consegue la (eventuale) equa riduzione degli interessi.

[252] R. TETI, Profili civilisticidella nuova legge sull’usura, 1997, in Rivista di diritto privato, p. 483; GIOIA, Difesa dell’usura?, 1999, in Corriere giuridico,p. 506; D. SINESIO, Gli interessi usurari, profili civilistici, Napoli, 1999, p. 64; F. DI MARZIO, Il trattamento dell’usura sopravvenuta tra validità, illiceità e inefficacia della clausola di interessi, 2000, in Giustizia civile, p. 3104.

[253] F. DI MARZIO, Il trattamento dell’usura sopravvenuta tra validità, illiceità e inefficacia della clausola di interessi, 2000, in Giustizia civile, p. 3104: sembra assorbente il rilievo che né l’art. 644 c.p. né l’art. 1815 2° co., c.c., nelle formulazione avvicendatesi nel tempo, hanno mai distinto tra interessi corrispettivi e interessi moratori;pertanto appare consequenziale ritenere che questi ultimi siano compresi nello spazio applicativo di entrambe le disposizioni.

[254] Trib. Roma, del 10/07/1999 in Foro italiano, 1999, I, p. 343, secondo il parere dell’organo giudicante: “ va osservato che la ratio legis implica che nel calcolo del tasso applicato siano ricompresi anche gli interessi moratori. È infatti evidente che il legislatore,  ricomprendendo tra le voci interessate le “commissioni” e le “remunerazioni (dovute) a qualsiasi titolo e spese”, ha inteso evitare ogni possibilità di facile aggiramento della norma, aggiramento che invece, ove gli interessi moratori venissero esclusi dal conteggio di quelli rilevanti ai fini usurari, verrebbe facilmente realizzato attraverso la previsione di termini di pagamento di improbabile rispetto, idonei a rendere legittima la corresponsione di interessi sostanzialmente usurari sotto la forma di interessi moratori.

Esattamente perciò la distinzione fra interessi corrispettivi e interessi moratori è stata definita “una foglia di fico” per rimuovere la quale non è pensabile che il legislatore accorto abbia fatto affidamento non sul testo da esso formulato ma sull’estremo rimedio del contratto in frode alla legge. Se ne deve dedurre che con la parola “remunerazione” esso abbia inteso riferirsi a ogni utilità pecuniaria richiesta al debitore, e quindi anche a quelle relative agli interessi moratori, facendo ricorso a una terminologia giuridica non nuova per la quale il termine “remunerazione” ha significato generico comprensivo di prestazione a funzione anche risarcitoria .” (analogamente: Trib. Campobasso del 3 /10 2000, in Foro Italiano, 2001, I, p.333)

[255]Cass. n. 5286/2000 in Foro Italiano, 2000, I, p. 2183. Secondo la Suprema Corte, non v’è ragione per escludere l’applicabilità del nuovo disposto del secondo comma dell’art. 1815 c.c. anche all’assunzione dell’obbligazione di corrispondere interessi moratori, risultati di gran lunga eccedenti lo stesso tasso soglia: va rilevato, infatti, che la l. 108/19996 ha individuato un unico criterio ai fini dell’accertamento del carattere usurario degli interessi e che nel sistema era già presente un principio di omogeneità di trattamento degli interessi, pur nella diversità di funzione, come emerge anche dall’art. 1224, 1° co.,c.c., nella parte in cui prevede che se prima della mora erano dovuti interessi in misura superiore a quella legale, gli interessi moratori sono dovuti nella stessa misura. Il ritardo colpevole, poi, non giustifica di per sé il permanere della validità di un obbligazione così onerosa e contraria al principio generale posto dalla legge

[256] F. REALMONTE, Stato di bisogno e condizioni ambientali: nuove disposizioni in tema di usura e tutela civilistica della vittima del reato, 1997,in Rivista del diritto commerciale e del diritto generale delle obbligazioni, I, p.781, secondo il quale: “deve segnalarsi come la concreta operatività della norma sia subordinata alla consacrazione della pattuizioni usurarie in un testo scritto, rischiando di rimanere lettera morta rispetto all’ipotesi, frequente nella prassi, in cui l’operazione si risolva nella consegna della somma e nella sottoscrizione di effetti cambiari per un importo comprensivo di capitali e interessi, con le conseguenti immaginabili difficoltà probatorie.”

[257] A ciò si aggiunge la natura personale della clausola usuraria:G.  MERUZZI, Usura, 1996, in Contratto e impresa, p. 786: “ la nullità della clausola concernente il tasso di usura può essere fatta valere dall’emittente nei confronti del primo prenditore(usuraio) quale eccezione a questo personale (art. 1993, 1° co. c.c.) o, al più, nei confronti del successivo prenditore che abbia agito intenzionalmente a danno dell’usurato, sulla base dell’ exceptio doli attribuita all’emittente dall’art. 1993, 2° co. c.c.: nei confronti dell’inevitabile giratario estraneo al rapposto di usura la disposizione dell’art. 1815, 2° co. , c.c., perderà ogni efficacia.”

[258] F. REALMONTE, Stato di bisogno e condizioni ambientali: nuove disposizioni in tema di usura e tutela civilistica della vittima del reato, 1997,in Rivista del diritto commerciale e del diritto generale delle obbligazioni, I, p. 781, si pensi ai casi in cui l’obbligazione contratta dalla vittima non abbia ad oggetto la corresponsione degli interessi ma di “ altri vantaggi usurari”.

[259] F. REALMONTE, Stato di bisogno e condizioni ambientali: nuove disposizioni in tema di usura e tutela civilistica della vittima del reato, 1997,in Rivista del diritto commerciale e del diritto generale delle obbligazioni, I, p. 779,: “ anteriormente alla riforma spezzare il legame tra la norma civile e la fattispecie penale significava sostanzialmente pretermettere il requisito dell’approfittamento ai fini della tutela in sede civile. Oggi l’approfittamento non è più richiesto dal reato di usura, in quanto le nuove disposizioni  lo hanno privato di quell’elemento soggettivo che tanto appesantiva l’accertamento penale con le segnalate ripercussioni in sede civile. Sicché ormai possono intendersi venute meno le ragioni che giustificano l’opportunità di un’emancipazione dell’art. 1815, 2° co, c.c. rispetto all’art. 644 c.p., potendosi dunque opinare che l’oggettivazione del reato debba essere salutata con favore anche sul versante civilistico.”

[260] Trib. Velletri del 3/12/97 in Foro Italiano, 1998, I, p. 1618, secondo cui : “l’art. 1815, 2° co., c.c. come modificato dalla l. n. 108/96, dispone che se sono convenuti interessi usurari la clausola è nulla e non sono dovuti interessi. L’art. 644 c.p., anch’esso modificato dalla cd. “legge antiusura”, stabilisce, al primo comma, che commette il reato di usura chiunque si fa dare o promettere, in corrispettivo di una somma di denaro o altre utilità, interessi o vantaggi usurari; e, al terzo comma, demanda alla legge la determinazione del limite oltre il quale gli interessi sono sempre usurari. Entrambe le norme, per quanto riguarda la determinazione degli interessi usurari, sono integrate dell’art. 2, quarto comma, della l.108/96, che individua la soglia usuraria nel tasso medio risultante dall’ultima rilevazione pubblicata nella Gazzetta Ufficiale, aumentato della metà. La nuova normativa, dunque, ha individuato un criterio unico ai fini dell’accertamento del carattere usurario degli interessi, valevole sia nel settore civile, sia nel settore penale, e ha fissato una soglia oltre la quale si determinano la nullità della stipulazione e la consumazione del reato. È così definitivamente tramontata la tesi dell’autonomia del profilo civilistico rispetto alla connotazione di carattere penale.l’unitarietà del concetto di usura, identico per entrambi i settori dell’ordinamento, impone di tenere conto dell’indipendenza dei due sistemi.

[261] D. SINESIO, Gli interessi usurari. Profili civilistici, Napoli. 1999, p. 20.

[262] G. OPPO, Lo squilibrio contrattuale tra diritto civile e penale, 1999, in Rivista diritto civile, I, p. 535,: “ non par dubbia l’autosufficienza della norma civilistica, la quale non consente le si assegni altro presupposto che la pattuizione di un interesse usurario nella misura, sia o non sia apllicabile (anche) la sanzione penale. La legge (civile) rifiuta cioè che oggettivamente l’interesse sproporzionato, anche se la sanzione civile, nella sua gravità, risente della (tipica) illiceità penale”.

In senso analogo: G. BONILINI, La sanzione civile dell’usura, 1998, p. 224; P.F. DE ANGELIS, Usura, in Enciclopedia giuridica Treccani, XXXII, p. 9.

[263]  Sui profili penali della l. 108/96: SANTACROCE, La nuova disciplina penale dell’usura; analisi della fattispecie base e difficoltà applicative, in Cass. pen., 1997, 1529 e ss.

[264] RABBITI, Contratto illecito e norma penale..Contributo allo studio della nullità, Milano, 2000, p. 249 ss; VANORIO, Il reato di usura ed i contratti di credito: un primo bilancio, in Contratti e impresa, 1999, p. 501.

[265] Come rileva OPPO, “Lo squilibrio contrattuale tra diritto civile e diritto penale”, 1999, p. 535, “… la totale cancellazione dell’interesse suppone il reato o solo l’oggettivo livello -superiore alla soglia-  dell’interesse “convenuto”? Normalmente i due termini coincidono ma potrebbero non coincidere ove si ritenesse che alla esistenza del reato sia essenziale (sotto il profilo del dolo) un elemento (soggettivo) ulteriore rispetto alla pattuizione dell’interesse”.

[266] OPPO, Lo squilibrio contrattuale tra diritto civile e diritto penale, 1999, p. 534 e ss.

[267] PEDRAZZI,Sui tempi della nuova fattispecie di usura, in Rivista italiana di diritto processuale penale ,1997, p. 661 ss.; COLLURA, La nuova legge sull’usura e l’art. 1815 cod. civile in Contratti e impresa, 1998, p.602 ss; F. DI MARZIO, Il trattamento dell’usura sopravvenuta tra validità, illiceità e inefficacia della clausola di interessi, 2000, in Giustizia civile, p. 3103 ss.; GAZZONI, Usura sopravvenuta e tutela del debitore, in Rivista notarile , 2000, p. 1447 ss.

[268] In Gazzetta Ufficiale, Serie generale, n. 226 del 26 settembre 1996

[269]

[270] “Istruzioni per la rilevazione del tasso effettivo globale medio ai sensi della legge sull’usura”, in Gazzetta Ufficiale, 30 settembre 1998, n. 228.

[271] Come chiarito dalla Nota della Banca d’Italia n. 43400 del 22 novembre 1996, non rientrano nella categoria dei muti, bensì in quella degli “altri finanziamenti a medio/lungo termine, le operazioni di finanziamento chirografarie, quelle che prevedono l’erogazione in due o più momenti e quelle aventi un piano di ammortamento il quale preveda il pagamento della quota capitale per intero alla scadenza del prestito.

[272] In Gazzetta Ufficiale,serie generale, n. 225 del 26 settembre 1997.

[273] Si è in proposito osservato che, nell’ipotesi in cui non si rinvenisse concretamente l’operazione nella quale inquadrare il contratto in questione (ad esempio perché ci si trovi in presenza di un’operazione di nuovo tipo, o ad una modifica nella tipologia dei rapporti creditizi), dovrebbe, in linea di principio, estendersi in via interpretativa  nelle categorie già classificate, salvo comunque il divieto di analogia della legge penale, di cui all’art. 14 dis. prel. al Codice Civile,così SINESIO, Gli interessi usurari, profili civilistici, Napoli, 1999, p. 24 e ss.

[274] Consiste nella media degli interessi praticati dalle banche e dagli intermediari finanziari iscritti negli elenchi tenuti dalla Banca d’Italia e dall’Ufficio Italiano dei Cambi, comprensivi anche di “commissioni, remunerazioni a qualsiasi titolo e spese, escluse quelle per imposte e tasse”, rapportata su base annua e rilevata, per ciascun trimestre, dal Ministero del Tesoro, sentiti la Banca d’Italia e l’Ufficio Italiano dei cambi.

[275] MOLLE – DESIDERIO, Manuale di diritto bancario e dell’intermediazione bancaria, Milano, 2005, p.149

[276] La disposizione in parola è stata recentemente “riscritta” dal primo dei decreti cd. Bersani sulle Liberalizzazioni ovvero dal d.l. 4 luglio 2006, n. 223 come conv. In l. 4 agosto 2006, n. 248. Il “nuovo” art. 118 t.u.b. così dispone:1. Nei contratti di durata può essere convenuta la facoltà di modificare unilateralmente i tassi, i prezzi e le altre condizioni di contratto qualora sussista un giustificato motivo nel rispetto di quanto previsto dall’art. 1341, secondo comma del codice civile.

-2. Qualunque modifica unilaterale delle condizioni contrattuali deve essere comunicata espressamente al cliente secondo modalità contenenti in modo evidenziato la formula: “Proposta di modifica unilaterale del contratto”, con preavviso minimo di trenta giorni, in forma scritta o mediante altro supporto durevole preventivamente accettato dal cliente. La modifica si intende approvata ove il cliente non receda, senza spese, dal contratto entro sessanta giorni. In tal caso, in sede di liquidazione del rapporto, il cliente ha diritto all’applicazione delle condizioni precedentemente praticate. -3. Le variazioni contrattuali per le quali non siano state osservate le prescrizioni del presente articolo sono inefficaci, se sfavorevoli per il cliente. -4. Le variazioni dei tassi d’interesse conseguenti a decisioni di politica monetaria  riguardano sia tassi debitori che quelli creditori, e si applicano con modalità tali da non recare pregiudizio al cliente”. Il secondo comma introdotto dall’art. 118 t.u.b. ribadisce ulteriormente che, “in ogni caso, nei contratti di durata, il cliente ha sempre facoltà di recedere dal contratto senza penalità e senza spese di chiusura”.

[277] Più incisivi strumenti di tutela (fra i quali, ad esempio, la disciplina in materia di clausole vessatorie di cui agli artt. 1469-bis ss. c.c.) si sono progressivamente aggiunti, negli ultimi vent’anni, su impulso della legislazione comunitaria che ha riconosciuto la rilevanza della disparità sostanziale fra le parti in molti settori della contrattazione di massa e ha esortato gli Stati membri a tutelare la parte debole ovvero il consumatore mediante la predisposizione di strumenti diretti ed indiretti di protezione , così ANTONUCCI, Diritto delle banche, Milano, 2006, p. 297 ss.

[278] Si crea, in tal caso, la figura del cd. Credito disponibile, per cui la banca viene a trovarsi in una situazione di soggezione rispetto al cliente, i cui atti di disposizione la impegnano senza che essa possa liberarsi dal suo obbligo. Così MOLLE – DESIDERIO, Manuale di diritto bancario e dell’intermediazione bancaria, Milano, 2005, p.149.

[279] Per effetto della disciplina normativa sulla trasparenza nei rapporti con la clientela (l. 17 febbraio 1992, n. 154), i contratti bancari hanno cessato di essere a forma libera, salvo diversa specifica indicazione del CICR per determinate fattispecie negoziali. L’art. 117, 1° co., t.u.b. impone, infatti, la forma scritta a pena di nullità; v. ANTONUCCI, Diritto delle banche, Milano, 2006, p. 299 ss.; MOLLE – DESIDERIO, Manuale di diritto bancario e dell’intermediazione bancaria, Milano, 2005, p.149.

[280] L’art. 117, 4° co. tu.b. impone, infatti, che esso fornisca notizie chiare ed esaustive delle condizioni economiche, indicando il tasso d’interesse ed ogni altro prezzo e condizione praticati, inclusi, per i contratti di credito, gli eventuali maggiori oneri in caso di mora.

[281] La disposizione in questione è l’art. 120 t.u.b. che, nella sua versione originaria, era costituito da un solo comma in tema di decorrenza delle valute; con il d.lgs. 342/1999 già citato, alla norma sono stati aggiunti due commi che si occupano dell’anatocismo bancario. E’ nota la diffusa prassi bancaria di esasperare il cd. Gioco delle valute, ritardando il computo degli interessi a favore del cliente rispetto al momento del versamento e anticipandolo rispetto al momento dell’effettivo prelevamento. Purtroppo la norma in parola ha un ristretto ambito di applicazione, poiché si occupa della decorrenza delle valute limitatamente ad una fascia ristretta di operazioni ovvero i versamenti di denaro e titoli assimilati in ragione della immediata disponibilità della somma, al pari del denaro (assegni circolari emessi dalla stessa banca e assegni bancari tratti sulla stessa succursale). Così ANTONUCCI, Diritto delle banche, Milano, 2006, p. 311-312 ss.; MOLLE – DESIDERIO, Manuale di diritto bancario e dell’intermediazione bancaria, Milano, 2005, p.149 ss.

[282] Cosi l’orient5amento della Suprema Corte : cass., 22 aprile 2000, n.5286,  in I contratti, 2000, p. 685 ss.

[283] ANTONUCCI, Diritto delle banche, Milano, 2006, p. 317 ss. ; MACARIO, Credito al consumo, in Trattato di diritto privato europeo, IV, Padova, 2003,p. 85 ss.

[284] Secondo BONORA, La nuova legge sull’usura, in Enciclopedia,1998, p.78: “Ciò che appare discutibile è la scelta di introdurre un tale precedente in un quadro normativo civilistico complessivo che tende a intervenire sugli abusi contrattuali riducendo ad equità il contratto e punendo la parte che a tali abusi ha dato luogo. L’abbandono della strada della reductio ad aequitatem a favore di soggetti non sicuramente e necessariamente meritevoli costituisce un precedente che ci si augura non sia ripetuto e anzi venga presto corretto.

[285] LOCATELLI, Osservazioni sulla nuova legge “antiusura”, in Fisco,1996, p. 52528; in senso analogo:BONILLINI, La sanzione civile dell’usura, in Contratti, 1996, p. 224.

[286] FERRONI, La nuova disciplina civilistica del contratto di mutuo ad interessi usurari, Napoli, 1997, p. 74.

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