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Successione necessaria

Introduzione

L’istituto della successione dei legittimari riveste nel nostro ordinamento notevole, e non sempre percepita, rilevanza pratica. I diritti dei legittimari risultano difatti determinanti nelle scelte di qualsiasi soggetto che in vita decida di donare un bene ovvero decida, in sede testamentaria, di assegnare determinata parte del proprio patrimonio a soggetti diversi da quelli indicati dal legislatore. La riserva posta dalla legge a favore dei legittimari influenza conseguentemente la stessa commerciabilità ed appetibilità dei beni. De cuius, eredi, terzi acquirenti, creditori sono tutti soggetti interessati alla conoscenza delle regole successorie.

Questo lavoro propone una esauriente e lineare panoramica di tutte le problematiche connesse al tema della successione necessaria, cercando al tempo stesso di fornire una chiara e schematica guida operativa, aggiornata alla giurisprudenza nonché alla recente riforma attuata con il c.d. decreto competitività (convertito con legge n. 80/2005) ed all’innovativo istituto del Patto di famiglia.

L’articolo 536 c.c. definisce legittimari “le persone a favore delle quali la legge riserva una quota di eredità”, che sono, il coniuge, i figli legittimi (cui sono equiparati i legittimati e gli adottivi), i figli naturali, gli ascendenti legittimi, i discendenti dei figli legittimi (e quindi anche dei legittimati e degli adottivi) o naturali “che vengono alla successione in luogo di quelli” (diritto di rap-presentazione).

Gli ascendenti legittimi hanno diritto alla legittima solo se non ci sono figli legittimi o naturali.

La successione dei legittimari è un modo di successione per legge, che rettifica o neutralizza (in tutto o in parte) la successione testamentaria, ovvero atti di disposizione a titolo gratuito, già compiuti dal “de cuius” (“is de cuius hereditate agitur”), durante la su vita, garantendo ai legittimari la possibilità di agire in riduzione contro la lesione della legittima, e vietando al testatore di imporre pesi o condizioni sulla quota loro spettante (art. 549 c.c.).

Gli articoli da 553 a 564 c.c., riportati nella sezione intitolata: “Della reintegrazione della quota riservata ai legittimari”, trattano delle modalità con le quali il legittimario, leso nella legittima, in concreto viene soddisfatto del suo diritto.

Poiché può accadere che la legittima sia stata lesa dal defunto per mezzo di disposizioni testamentarie o di donazioni, l’ente ecclesiastico donatario deve tenere presente che se non basta il “relictum” (cioè, quanto esiste nell’asse ereditario al giorno della morte, detratto il passivo) per integrare la legittima lesa, si procede alla riduzione delle donazioni “il cui valore eccede la quota della quale il defunto poteva disporre” (art. 555 c.c.).

Quando vi sono dei legittimari, si distinguono nel patrimonio ereditario, due parti:

– la quota disponibile, della quale il testatore era libero di disporre;

– la quota legittima (o riserva), della quale il testatore non poteva disporre perché spettante per legge ai legittimari.

Il diritto del legittimario alla legittima non è un diritto di credito verso gli altri successori, ma un diritto assoluto che si esplica sui beni ereditari; pertanto questi ha il diritto di conseguire in natura tutti i beni che costituiscono la legittima.

Il legato in sostituzione ricorre quando il testatore lascia al legittimario, a titolo di legittima, beni e somme determinate anziché una quota dell’eredità. Il legittimario può:

–         rinunciare al legato e chiedere la legittima, acquistando così la qualità di erede;

–         conseguire il legato, perdere la qualità di erede e perdere il diritto ad un supplemento qualora il valore del legato risulti inferiore alla quota spettantegli come legittima.

Il legato in conto di legittima è quello con cui il testatore fa al legittimario un’attribuzione di beni, che deve essere calcolata ai fini della legittima, con la conseguenza che il legittimario può chiedere il supplemento se i beni attribuitigli non raggiungono l’entità della legittima.

Si ha lesione di legittima quando la quota ad essa relativa resta intaccata, da parte del titolare del patrimonio, per effetto di atti di disposizione, ossia, o di donazioni oppure di disposizioni “mortis causa”.

Quando la legittima è lesa occorre reintegrarla, mediante l’azione di riduzione degli atti che hanno prodotto la lesione stessa: presupposto indispensabile di tale azione è la “riunione fittizia”.

Quest’ultima è un’operazione contabile diretta a calcolare l’intera entità del patrimonio ereditario all’epoca dell’apertura della successione, per stabilire se siano stati lesi i diritti dei legittimari. Consta di più operazioni:

– la formazione della massa ereditaria;

– la riunione fittizia vera e propria;

– calcolo della disponibile e della legittima.

In ultimo, si è esaminata la responsabilità del notaio nelle successioni dei legittimari.

Anche il Notaio, infatti, come ognuno che viva nell’ordinamento giuridico vivente, è soggetto a responsabilità civile (o penale) per i danni di cui sia causa. Ai sensi dell’art. 76 l. not. “Quando l’atto sia nullo per causa imputabile al notaro, o la spedizione della copia dell’estratto o del certificato non faccia fede per essere irregolare, non sarà dovuto alcun onorario, diritto o rimborso di spese. Negli accennati casi, oltre al risarcimento dei danni a norma di legge, il notaro deve rimborsare le parti delle somme che gli fossero state pagate”. Si discute sulla natura giuridica della responsabilità del Notaio. La maggior parte delle tesi prospettate dalla dottrina si possono raggruppare in due gruppi: al primo gruppo appartengono coloro che affermano sussistere a carico del notaio, oltre ad una responsabilità contrattuale, nei confronti delle parti, anche una responsabilità extracontrattuale o aquiliana o ex lege anche verso i terzi, mentre fanno capo al secondo coloro che propendono per la sola responsabilità contrattuale.

CAPITOLO I

La successione necessaria: cenni introduttivi

  1. La successione dei legittimari

Con il termine successione necessaria si fa riferimento al particolare regime introdotto dal legislatore, per garantire a talune categorie di soggetti, precisamente, il coniuge, i figli, legittimi, naturali, legittimati, adottivi, nonché gli ascendenti legittimi (cosiddetti legittimarii), una determinata quota di eredità, o altri diritti nella successione[1].

La tutela riservata ai legittimari  opera, essenzialmente, quale limite all’autonomia negoziale del defunto.

L’art. 457, ult. comma, c.c., pone in luce in modo esemplare tale profilo, prescrivendo che le disposizioni testamentarie non possono pregiudicare i diritti riservati ai legittimarii. Il limite si estende anche alle donazioni, eccedenti la quota disponibile (arg. ex art. 555 c.c.)[2]. In entrambi i casi, il legittimario danneggiato può esperire l’azione di riduzione, in relazione alle disposizioni lesive.

Il sistema dei limiti all’autonomia testamentaria si completa con la previsione della nullità della divisione disposta dal testatore, nel caso non sia stato contemplato taluno dei legittimarii, o qualcuno degli eredi istituiti (art. 735 c.c.). Nel caso, poi, di divisione testamentaria che leda i diritti di un legittimario, è ammesso il ricorso all’azione di riduzione (art. 735, 2° comma, c.c.).

Il principio della intangibilità della legittima, che informa la disciplina sopra esaminata, è particolarmente pregnante.

Per evitare possibili elusioni, l’intangibilità è estesa oltre i limiti del mero valore aritmetico della quota riservata ai legittimari attenendo anche al contenuto del diritto: il testatore, invero, non può limitare i diritti successori del legittimario, imponendo pesi o condizioni (art. 549 c.c.)[3]. La disciplina in esame si caratterizza, quindi, per la ricerca di un delicato equilibrio fra interessi confliggenti, egualmente meritevoli di riconoscimento, da parte dell’ordinamento giuridico: vale a dire, l’autonomia negoziale del defunto e la garanzia dei diritti inderogabili degli stretti congiunti.

Il sacrificio della libertà del testatore di disporre dei propri beni, tuttavia, si giustifica nei limiti di quanto sia strettamente necessario per garantire la tutela dei diritti successorii riconosciuti ai legittimarii.

Tale profilo emerge, in modo evidente, in alcune disposizioni: così, a titolo d’esempio, l’art. 558, cpv., c.c., consente al testatore di dichiarare che taluna disposizione debba avere effetto, con preferenza sulle altre. In tal caso, la disposizione in questione potrà essere ridotta soltanto se il valore delle altre non sia sufficiente ad integrare la legittima.

Nel bilanciamento tra i due interessi contrapposti di cui sopra prevale, in ogni caso, il profilo della tutela dei legittimarii[4]. Le norme poste a tutela dei diritti successorii di questi ultimi, sono, in linea di principio, inderogabili[5].

Il fondamento di tale limitazione della libertà del de cuius, risiede nell’esigenza di tutelare i famigliari più stretti del dante causa, contro il rischio di un trattamento deteriore nella fase successoria, fino all’estremo della diseredazione.

Alla base del regime della successione necessaria vi è, quindi, una finalità conservativa delle sostanze del defunto nell’ambito della cerchia ristretta dei suoi famigliari[6]. Taluni autori sottolineano, altresì, l’esigenza sociale di garantire la solidarietà nei rapporti familiari[7].

Tale limitazione della libertà del testatore è, peraltro, conforme ai principi costituzionali. Invero, l’art. 42, ultimo comma, Cost., prevede che la legge ordinaria possa porre limiti all’autonomia testamentaria, in relazione alle esigenze imposte da interessi superiori[8].

Tali sono l’interesse alla tutela della famiglia fondata sul matrimonio (art. 29 Cost.), e l’interesse alla solidarietà nell’ambito della comunità familiare (art. 2 Cost.). Sotto questo profilo, quindi, il sistema dei limiti all’autonomia negoziale, posti a tutela dei diritti successorii dei legittimarii, delinea un quadro normativo che è coerente con la gerarchia dei valori costituzionali[9].

  1. La tutela dei legittimari e il valore della solidarietà familiare nella nostra Carta Costituzionale

Come anticipato la ratio delle disposizioni riguardanti la successione necessaria risiede nella solidarietà familiare.

Nel nostro ordinamento infatti è sempre stato ribadito il collegamento fra la successione e la famiglia, nel senso di considerare la successione legittima e quella necessaria come una sorte di tutela della famiglia, sia che si affermi che gli eredi avrebbero, iure sanguinis o iure nuptiarum, il naturalistico diritto di ricevere i beni del defunto, sia che si ritenga che la trasmissione dei beni ai prossimi congiunti rappresenterebbe la logica continuazione del dovere morale e giuridico di mantenerli che faceva capo al defunto, sia infine che si ravvisi il fondamento della successione legittima in una sorte di comunione etico sociale e patrimoniale della famiglia.

Alla successione necessaria è dunque attribuita una posizione di preminenza inderogabile, rispetto alla successione testamentaria, e che tutelano in conseguenza i più stretti congiunti del defunto (sulla base della relazione parentale o del vincolo di coniugio), riconoscendo loro una quota fissa di riserva individuale determinata dal codice.

Il sistema delle quote fisse di riserva a favore dei legittimari individualmente, contemperando il principio dell’autonomia testamentaria e quello solidaristico familiare, sembra dunque senz’altro superiore a quello dell’intervento discrezionale ed in funzione assistenziale ad esempio delle Corti inglesi.

Tuttavia lo stesso fondamento dei diritti del legittimario, ricondotto con sensibilità costituzionale ad un dovere di solidarietà familiare[10], è stato rimesso in discussione in tempi recenti.

L’art. 42 Cost. in effetti, al 4° comma, formula in termini ampi una riserva di legge, che però si limita a considerare la successione testamentaria e quella intestata, senza menzionare la riserva, suscettibile pertanto di essere modificata e persino soppressa dal legislatore ordinario[11].

Ma in quello stesso articolo è scritto di “norme e limiti” della successione, ed è principio generale degli ordinamenti di civil law che quei limiti siano imposti in funzione delle aspettative successorie dei familiari più stretti[12].

  1. I legittimari, il coniuge, il coniuge separato, i figli, i figli naturali, i figli non riconoscibili, gli ascendenti

Occorre ora indicare i soggetti in capo ai quali è tutelata, l’aspettativa di attribuzione di diritti sul patrimonio del defunto.

L’individuazione è operata sulla base esclusiva dei rapporti familiari, dando rilievo soltanto a quelli più stretti.

Sono, invero, legittimari: il coniuge; i figli (od i loro discendenti, in forza di rappresentazione a norma dell’art. 468 c.c.), sia legittimi che naturali riconosciuti o dichiarati; gli ascendenti, ma soltanto legittimi e soltanto in mancanza di discendenti (artt. 536 e 539, 1° comma, c.c.).

Devono peraltro tenersi presenti anche i diritti che formano oggetto di vocazioni anomale, che sono considerati intangibili da disposizioni testamentarie; del pari intangibili sono anche i legati ad efficacia obbligatoria disposti direttamente dalla legge in favore di determinate persone.

Al coniuge superstite è riservata la metà del patrimonio del defunto, se è l’unico legittimario nel momento di apertura della successione o se concorre con uno o più ascendenti legittimi; un terzo, se concorre con un solo figlio; un quarto, se concorre con due o più figli (artt. 540, 542 e 544 c.c.). All’unico figlio è riservata, del pari, metà del patrimonio, se è il solo legittimario, mentre la riserva scende ad un terzo, se concorre con il coniuge superstite (artt. 537, 1° comma, e 542 c.c.); all’insieme dei figli, se due o più, sono riservati i due terzi, riducentisi alla metà in caso di concorso col coniuge (artt. 537, 2° comma, e 542 c.c.). La riserva, infine, degli ascendenti legittimi è di un terzo del patrimonio, quale che sia il loro numero, e si riduce al quarto in caso di concorso col coniuge (artt. 538 e 544 c.c.).

La variabilità della quota riservata in relazione al numero dei figli, uno o più, ha indotto a chiedersi come la quota stessa debba determinarsi nel caso in cui vi siano bensì più figli, ma tutti tranne uno non possano o non vogliano succedere; la questione si ripropone nel caso in cui sia il coniuge superstite a non potere o volere succedere. La risposta degli interpreti, pressoché unanime, è nel senso che il legittimario indegno o rinunciante non deve essere considerato al fine della determinazione della quota riservata[13].

Occorre ancora ricordare che l’equiparazione ai figli legittimi dei naturali, riconosciuti o dichiarati, non è integrale, il figlio naturale che faccia valere i diritti riservati contro la volontà del genitore defunto può dovere subire la facoltà di commutazione dei figli legittimi, e forse del coniuge, che vogliano estrometterlo dalla comunione ereditaria (art. 537, ultimo comma, c.c.).

L’art. 261 c.c. con lo stabilire che il riconoscimento comporta da parte del genitore l’assunzione di tutti i doveri e diritti che egli ha nei confronti dei figli legittimi, mira ad assicurare che la nascita fuori dal matrimonio non costituisca motivo per un trattamento giuridico differenziato, con i soli limiti che si pongono quando venga in rilievo l’esigenza di proteggere l’unità e la coesione della famiglia legittima (art. 30 Cost.)[14].

In questa prospettiva, viene infatti conservato, sia pure parzialmente modificato nel suo contenuto, il diritto per i figli legittimi di commutare in denaro o in beni immobili ereditari la quota di eredità spettante ai figli naturali. Nella nuova formulazione dell’art. 537 c.c., poi, vengono eliminate quelle modalità operative dell’istituto che ponevano i figli naturali in una situazione di mera soggezione ai figli legittimi del defunto ai quali era riservato in precedenza il diritto potestativo di estrometterli dalla comunione ereditaria.

Il nuovo testo della citata disposizione, infatti, prevedendo la possibilità per i figli naturali di proporre opposizione, su cui decide il giudice valutate le circostanze personali e patrimoniali, riduce fortemente la portata effettiva di tale discriminazione.

Nel codice del 1942  l’istituto della commutazione aveva la funzione di impedire un eccessivo frazionamento della proprietà ed offriva ai figli legittimi l’opportunità di conservare i beni ereditari nella loro integrità, impedendo in questo modo a soggetti estranei alla famiglia di pretenderne il conferimento in natura. Sotto questo profilo, dunque, la sua persistenza, dopo la riforma del ‘75 quale residuo di un trattamento di sfavore verso la prole naturale viene giustificata con l’esigenza di salvaguardare i diritti dei componenti della famiglia legittima, evitando che, in sede di divisione giudiziale, questi ultimi siano privati dell’assegnazione in natura di beni ereditari di particolare valore affettivo per il nucleo familiare[15].

Ci si è chiesti però se la previsione della possibilità di opposizione dei figli naturali alle determinazioni dei figli legittimi ed il conseguente ricorso al giudice possa far degradare tale diritto potestativo a mera facoltà riservata ai figli legittimi, suscettibile di venire paralizzata dalla contestazione dei figli naturali.

Infatti, mentre in passato i figli legittimi potevano unilateralmente estromettere i figli naturali dalla comunione ereditaria, purché fossero rispettate le sole limitazioni stabilite dalla legge, e cioè che, nell’ipotesi scegliessero un immobile dell’eredità, questo fosse compreso nell’asse ereditario e fosse apprezzato “a giusta stima”, di modo che il suo valore corrispondesse esattamente all’importo della quota dovuta ai figli naturali[16], ora tale esclusione, in caso di opposizione, non può aver luogo se non a seguito di una decisione del giudice[17].

Ciò tuttavia non impedisce alla gran parte della dottrina di continuare a ritenere che si tratti pur sempre di un diritto potestativo, ad esercizio negoziale secondo alcuni[18], a concessione giudiziale secondo altri[19], mentre è rimasta minoritaria la tesi di chi[20] lo configura quale diritto di credito avente, come contenuto esclusivo, la pretesa ad un comportamento altrui, ovverosia al comportamento meramente omissivo di non opposizione.

In questo contesto, la circostanza che la dichiarazione del figlio legittimo non sia più, come in passato, sufficiente da sola a mutare la situazione giuridica[21], occorrendo l’intervento del giudice, dovrebbe rappresentare un segno della tendenza a sopprimere l’esercizio incontrollato del diritto potestativo, e ad evitare, che il diritto del figlio naturale possa venire modificata per l’altrui iniziativa unilaterale, senza che sia dato riscontrare la presenza di una “giusta causa” o di un “legittimo interesse”[22], da configurarsi in questo caso come effettiva e concreta esigenza di tutela della famiglia legittima[23].

È opportuno infine ricordare, con riferimento al titolo successorio dei figli, come la legge abbia cura di precisare, sia in sede di disciplina della riserva che di successione legittima, che ai figli legittimi sono equiparati gli adottivi (artt. 536, 2° comma, e 567 c.c.).

La precisazione risponde alla necessità di dare contenuto alla norma di rinvio dell’art. 304, 2° comma, c.c., la quale si limita a disporre, con riguardo all’adozione di persone maggiori di età, che i diritti dell’adottato nella successione dell’adottante sono regolati dalle norme del libro II del codice; la stessa precisazione vale oggi, tuttavia, anche per l’azione di minori “in casi particolari”, di cui alla successiva l. 4 maggio 1983, n. 184: invero, anche gli effetti successori di tale adozione sono regolati dall’art. 304, 2° comma, c.c., in forza del richiamo contenuto nell’art. 55 della citata legge speciale.

Con riguardo, invece, all’ordinaria adozione di minori, autonomamente regolata dalla stessa legge speciale, la precisazione ad opera della disciplina successoria è ormai assorbita, e resa superflua, dalla previsione, di carattere generale, secondo cui “l’adottato acquista lo stato di figlio legittimo degli adottanti” (art. 27 della medesima legge).
L’equiparazione dei figli adottivi ai legittimi nella successione dell’adottante, quale che sia il tipo di adozione, è integrale: ad essi spetta, quindi, anche la facoltà di commutazione della quota devoluta ai figli naturali, nel caso di concorso[24].

Sotto ogni altro profilo, vi è invece contrapposizione di trattamenti successori in dipendenza del tipo dell’adozione.

Invero, per l’adozione di maggiori d’età vale la regola secondo cui “’adozione non induce alcun rapporto civile tra l’adottante e la famiglia dell’adottato né tra l’adottato e i parenti dell’adottante”(art. 300, 2° comma, c.c.): sicché l’adottante non è chiamato dalla legge alla successione dell’adottato né, tanto meno, vi ha veste di legittimario; l’adottato, inoltre, non ha titolo nella successione di parenti dell’adottante, nemmeno potendo, in forza di rappresentazione, essere chiamato in luogo di quest’ultimo[25]. Tuttavia, i nuovi vincoli familiari dell’adottato rilevano anche nella successione dell’adottante: secondo la norma dell’art. 468 c.c., invero, i discendenti dell’adottato che non possa o non voglia venire alla successione succedono all’adottante in rappresentazione.

Il rapporto costituito dall’ordinaria adozione di minori è, viceversa, integralmente equiparato, anche sul piano successorio, a quello derivante dalla procreazione nel matrimonio.

  1. Il limiti ai diritti dei legittimari: l’indegnità a succedere

Le norme attinenti l’indegnità a succedere (artt. 463-466 c.c.) sono poste dal legislatore fra le disposizioni generali sulle successioni (nel Capo III, Titolo I, Libro II).

Esse riguardano, perciò, sia la successione intestata che quella testamentaria, come le statuizioni in tema di capacità a succedere di cui all’art. 462 c.c., nel Capo II dello stesso Titolo I.

Si tratta di norme di natura imperativa, ispirate a ragioni di ordine pubblico, che fanno parte della disciplina legale della delazione inderogabile ad opera dei privati.

Per quanto concerne la questione della natura giuridica dell’indegnità a succedere, secondo un primo orientamento, con tale istituto il legislatore delinea una ulteriore fattispecie di incapacità a succedere, che va ad aggiungersi, fra le altre, a quelle specifiche per la successione testamentaria riguardanti il tutore ed il protutore (art. 596 c.c.), il notaio che ha ricevuto il testamento pubblico ed i testimoni e l’interprete che vi sono intervenuti (art. 597 c.c.), il notaio che ha ricevuto il testamento segreto in plico non sigillato e il soggetto che ha scritto il testamento segreto (art. 598 c.c.)[26].

Si parla, in particolare, di incapacità relativa, poiché opera solo per quanto riguarda l’eredità del soggetto nei confronti del quale l’indegno ha attentato[27].

In questo modo, l’indegnità viene considerata come una circostanza che rende impossibile la delazione e che opera direttamente, senza necessità di una dichiarazione giudiziale costitutiva.

Conseguentemente la sentenza concernente l’indegnità ha natura meramente dichiarativa, mentre l’azione volta a chiedere l’accertamento e la dichiarazione giudiziale non è soggetta a prescrizione[28].

Questa interpretazione delle norme inerenti l’indegnità trova un riscontro di carattere storico nell’art. 725 del codice civile previgente, che,  poneva il soggetto indegno all’interno della categoria degli incapaci a succedere. Inoltre, tale tesi, che spiegherebbe l’obbligo a carico dell’indegno di restituire i frutti eventualmente percepiti dai beni successorii dopo l’apertura della successione (art. 464 c.c.), viene considerata, da un lato, maggiormente rispondente all’esigenza di non permettere al soggetto indegno di approfittare dell’eredità dell’offeso; dall’altro, coerente rispetto al legislatore penale che stabilisce l’incapacità successoria dell’autore di reati contro l’onore e la libertà sessuale[29] (art. 541, comma 2, c.p., abrogato però dalla L. 15 febbraio 1996, n. 66, che ha fra l’altro introdotto l’art. 609-nonies c.p., secondo cui per i delitti in esame si prevede, con espressione analoga a quella dell’art. 463 c.c., “l’esclusione dalla successione della persona offesa”).

I casi in cui un soggetto deve considerarsi indegno a succedere vengono precisati dall’art. 463 c.c. e sono tassativi; non ne è dunque possibile una applicazione in via analogica.

In base a ciò, possiamo ritenere, ad esempio, che non possa essere ricondotta fra le ipotesi di indegnità l’esclusione dalla successione legittima del coniuge al quale venga addebitata la separazione con pronunzia passata in giudicato, né l’analoga esclusione del coniuge divorziato[30].

In tutte le fattispecie di indegnità, viene esclusa la possibilità di un legato che sia stato disposto per riconoscenza o per remunerazione.

Infatti, non trova applicazione in queste eventualità il principio della irrevocabilità, dettato in tema di donazioni remuneratorie dall’art. 805 c.c..

Secondo l’orientamento della giurisprudenza, una volta che il giudice si pronunzi favorevolmente sulla domanda di indegnità, il soggetto dichiarato indegno viene a trovarsi in una situazione analoga a quella del primo chiamato, il quale non possa oppure non voglia accettare l’eredità.

In questa fattispecie, se sono presenti i presupposti della rappresentazione, l’eredità viene devoluta ai discendenti dell’indegno secondo le regole della rappresentazione stessa (artt. 467 ss. c.c.).

In caso contrario, l’eredità si devolve a favore dei soggetti chiamati in subordine.

Poiché l’indegnità a succedere non esclude la capacità all’acquisto dell’eredità, ma comporta solo una causa di esclusione dalla successione, gli atti di disposizione compiuti dall’indegno non sono nulli.

Secondo quest’ottica, si tratta, piuttosto, di un’ipotesi di inefficacia del negozio nei riguardi dei soggetti chiamati a succedere in via subordinata.

Tali ultimi soggetti sono, così, gli unici legittimati e interessati all’azione di indegnità e alla conseguente declaratoria di inefficacia dei negozi di disposizione dei beni ereditari[31].

L’art. 464 c.c. prevede che l’indegno debba restituire i frutti a lui pervenuti dopo l’apertura della successione: il trattamento riservatogli è così quello del possessore di mala fede.

Da ciò consegue che nello stesso modo deve essere qualificato il possessore subentrato, a seguito di successione a causa di morte, all’indegno.
Si applica, infatti, il principio secondo cui  il possesso continua nell’erede con le medesime caratteristiche di buona o, come nel caso in esame, di mala fede che aveva presso il de cuius (art. 1146, comma 1, c.c.), senza che in contrario possa avere rilevanza la circostanza che in concreto egli ignori di ledere il diritto altrui[32].

Una conseguenza dell’indegnità, specifica per il genitore indegno, è prevista dall’art. 465 c.c., secondo cui chi viene escluso dalla successione non ha sui beni della medesima, che siano devoluti per rappresentazione o per ragione propria ai suoi figli, il diritto di usufrutto legale, né il potere di amministrare i beni stessi, diritto e potere (regolati rispettivamente dall’art. 324 e dall’art. 320 c.c.) che ordinariamente la legge accorda ai genitori sino a che i figli non raggiungano la maggiore età.

In base alla ratio di privare l’indegno, nella sua qualità di genitore di figli minori, dei benefici che trarrebbe indirettamente dai beni devoluti dal de cuius, l’usufrutto spetta solo all’altro genitore o, se manca, ad un curatore nominato dal giudice secondo l’art. 334, comma 2, c.c., che si applica alla fattispecie de qua in via analogica[33].

L’indegnità  può essere neutralizzata attraverso la riabilitazione, cioè attraverso un atto giuridico (di perdono privato con il quale l’offeso rimette l’offesa patita[34].

Si tratta di un atto non recettizio e personalissimo, suscettibile di vizi della volontà, che può essere contenuto anche in un testamento[35]. A differenza di quest’ultimo, però, non è revocabile.

Il de cuius deve aver provveduto in maniera espressa alla riabilitazione con un atto pubblico o nel testamento (riabilitazione totale), come stabilisce l’art. 466, comma 1, c.c.

Il requisito di forma non è, però, necessario se il testatore, pur senza dichiarare esplicitamente la riabilitazione, ha dettato le disposizioni a favore dell’indegno quando conosceva la causa dell’indegnità (riabilitazione parziale). Si tratterebbe di una manifestazione di volontà tacita, per facta concludentia[36].

In questa ipotesi il soggetto, che ha offeso il testatore, gli succede solo nei limiti della disposizione testamentaria (art. 466, comma 2, c.c.) e, quindi, non può ricevere nulla come successore legittimo, né può agire in riduzione per reintegrare la quota di legittima o riserva, se questa è stata lesa dalle disposizioni del de cuius.

  1. La paventata reintroduzione della diseredazione per giusta causa

La dottrina si è da sempre chiesta se può il testatore escludere dalla successione soggetti che vi sono chiamati per legge[37]?

Questa domanda, coinvolge alcuni dei temi centrali della disciplina delle successioni mortis causa, primi fra tutti la determinazione della funzione normativamente assegnata al testamento e l’individuazione delle possibili manifestazioni del contenuto patrimoniale o tipico dell’atto di ultima volontà.

Rispetto a tali problematiche si pongono, poi, come concettualmente pregiudiziali sia la questione relativa alla configurazione del testamento quale autonomo tipo negoziale, contraddistinto da una propria ed unitaria causa, ovvero quale mera forma atta ad accogliere una pluralità di negozi, sia quella concernente la riconducibilità o meno dell’atto di ultima volontà alla categoria del negozio giuridico.
Sulla questione, occorre rilevare che nell’attuale ordinamento giuridico, di fronte al disposto dell’art. 457, comma 3, c.c., la domanda se la clausola di diseredazione sia o meno legittima può essere formulata solo per quella che colpisca i successibili ex lege diversi dai legittimari[38]: è, infatti, affermazione generalmente condivisa[39] quella secondo cui il legittimario ha, rispetto all’esclusione, la stessa tutela concessagli nei casi di preterizione o di lesione dei suoi diritti di legittima, vale a dire la possibilità di esperire l’azione di riduzione, con la conseguenza che fino a quando non la eserciti, il testamento rimarrà valido ed efficace[40].

In secondo luogo, in forza del fondamentale principio della libera e sovrana volontà del testatore, questi può liberamente attribuire tutto il suo patrimonio ad uno o alcuni soltanto dei suoi successibili ex lege non legittimari a cui favore si aprirà la successione testamentaria (c.d. preterizione).

In questo caso, infatti, si sarà in presenza di un vero e proprio testamento con disposizione attributiva positiva a favore di alcuni e con esclusione di altri soggetti che, mancando il testamento, sarebbero stati eredi[41]; sotto questo profilo parrebbe, anzi, che l’eventuale dichiarazione del testatore di non voler lasciare nulla a questi ultimi non abbia alcuna portata pratica e non aggiunga nulla alle conseguenze che derivano già dal fatto della preterizione. Si avrà, invece, vera e propria diseredazione quando la scheda testamentaria contenga la mera dichiarazione di esclusione dalla successione di uno o più successibili ex lege, senza altre disposizioni.

Può dirsi, dunque, che la clausola di diseredazione ha come presupposto necessario che il testatore non abbia affatto disposto delle sue sostanze, o che lo abbia fatto solo per una parte di esse, e come contenuto la volontà di escludere taluno dalla successione legittima.

La tesi contraria all’ammissibilità della clausola di diseredazione è stata accolta dalla dottrina meno recente[42] e dalla costante giurisprudenza della Corte di Cassazione[43].

Queste, in sintesi, le principali ragioni che giustificherebbero la soluzione negativa:

– la successione testamentaria è la successione che si realizza attraverso quel negozio unilaterale mortis causa di carattere prettamente formale che è il testamento: poiché esso è definito dall’art. 587 c.c. come l’atto revocabile con cui taluno dispone, per il tempo in cui avrà cessato di vivere, di tutte le proprie sostanze o di parte di esse», è giocoforza riconoscere che il suo contenuto tipico è dato dalla sola disposizione patrimoniale positiva, a titolo universale o particolare[44];

– è vero che ai sensi del comma 2 dell’art. 587 c.c. può esservi un contenuto “atipico” e quindi non patrimoniale del testamento, ma tale contenuto, per essere valido ed efficace, deve essere “consentito” dalla legge: ciò che non può dirsi per la clausola di diseredazione, non essendo essa compresa tra le disposizioni non patrimoniali espressamente contemplate ed ammesse;

– la successione testamentaria non è fondata esclusivamente sulla volontà del testatore, ma deve anch’essa essere inquadrata in quelle superiori esigenze di ordine sociale che ispirano il legislatore nella disciplina della successione legittima: da ciò discende l’impossibilità per il de cuius di derogare alle cause legittime di esclusione dalla successione previste nell’art. 463 c.c. per ragioni di indegnità a succedere; norma, quest’ultima da considerarsi d’ordine pubblico, in quanto tale non suscettibile di deroga da parte dell’autonomia privata[45].

Le considerazioni sopra esposte, non giustificano il rifiuto della tesi, propugnata dalla dottrina più moderna[46] e dalla prevalente giurisprudenza di merito[47], che ammette, nell’ambito della disponibile, la disposizione meramente negativa, evidenziandone la natura di disposizione patrimoniale (innominata ma) tipica[48], espressiva della funzione cui il testamento assolve (sia pure in negativo) e atta ad esaurirne il contenuto.

Innanzitutto, deve sottolinearsi che se è vero che la clausola di diseredazione non trova fondamento in un’esplicita disposizione di legge, è altrettanto innegabile che nessuna norma di legge la vieta espressamente e che l’effetto della diseredazione può essere almeno in parte conseguito con la preterizione, della cui validità nessuno dubita[49].

In secondo luogo, decisivo rilievo va riconosciuto al principio della libertà e sovranità della volontà del testatore e, in particolare, alla constatazione che come egli può disporre di tutti o parte dei suoi beni escludendo in tutto o in parte i successori legittimi (disposizione positiva dei suoi beni), non si vede per quale ragione egli, esercitando il suo potere di autonomia, non possa escludere con un’espressa ed apposita dichiarazione uno o più dei suoi congiunti ai quali la successione, nel suo silenzio, sarebbe devoluta per legge (disposizione negativa).
A ciò si aggiunga che il codice vigente, accennando genericamente a disposizione di tutte le proprie sostanze o di parte di esse, non sembra far riferimento, diversamente dal codice del 1865, al significato tecnico di disposizione, ma a quello più generico di manifestazione di volontà del testatore in riguardo all’assetto post mortem dei suoi beni: impressione, questa, significativamente rafforzata dal superamento della regola nemo pro parte testatus pro parte intestatus decedere potest[50].

Ebbene, in quest’ultima accezione è ragionevole che dispone dei suoi averi tanto chi li attribuisce a qualcuno, quanto chi dichiara di non volerli comunque attribuire a qualcuno[51]: ciò che induce a ritenere che il negozio mortis causa sia tipico non nel contenuto[52], ma nella funzione e che, pertanto, l’autonomia privata abbia un sia pur circoscritto “margine di manovra” nell’ambito della funzione che l’ordinamento gli riconosce come tipica.

Numerosi articoli del codice civile contemplano, poi, delle disposizioni testamentarie di contenuto patrimoniale che non implicano un’attribuzione in senso tecnico e che, comunque, risultano autonome rispetto alle figurae iuris di cui all’art. 588, comma 1, c.c.: possono al proposito richiamarsi gli artt. 558, comma 2 (modifica dell’ordine di riduzione delle disposizioni testamentarie mediante la preferenza accordata ad una di esse), 737 (dispensa dalla collazione), 752 (disposizione con cui il testatore deroga al principio della ripartizione tra i coeredi dei debiti ereditari in proporzione delle rispettive quote), 733 (norme date dal testatore per la divisione), 647 (onere testamentario), 1062 (disposizione contraria alla costituzione di servitù per destinazione del padre di famiglia), 629 (disposizioni a favore dell’anima), 2565, comma 3, 713, commi 2 e 3 (divieti testamentari della divisione) del codice civile, nonché l’art. 115 della legge sul diritto d’autore (deroga al principio dell’indivisione triennale tra gli eredi del diritto di utilizzazione dell’opera)[53].

Infine, deve escludersi che il riconoscimento della legittimità della clausola di diseredazione incida sul carattere tassativo delle cause di indegnità: dell’ammissibilità di una simile disposizione può ragionarsi, nel nostro attuale ordinamento, esclusivamente con riguardo ai successibili per legge diversi dai legittimari quali ultimi possono essere esclusi dalla successione solo se si rendano colpevoli di uno dei comportamenti previsti dall’art. 463 c.c.

Riconosciuta la validità della disposizione che si limiti ad escludere dalla successione un soggetto, ad essa si renderanno applicabili le norme dettate per le altre disposizioni testamentarie, nei limiti di compatibilità: così, ad esempio, nulla di diverso vi sarà sotto il profilo dell’interpretazione e dei vincoli formali e la clausola potrà essere sottoposta a condizione[54] o revocata alla stregua di qualsiasi altra disposizione testamentaria[55]; non le si potrà invece riferire la revocazione per sopravvenienza di figli, presupponendo essa un’attribuzione, mentre potranno senz’altro applicarsi le norme in tema di violenza, dolo ed errore.

Vero è che sembra ingiusto ed iniquo che la legge tuteli il diritto alla quota legittima di un figlio che abbia maltrattato o percosso il genitore, od abbia gravemente violato i doveri di assistenza e quelli alimentari verso il medesimo, o si sia totalmente allontanato dalla famiglia conducendo una vita gravemente disonorevole o immorale, oppure di un coniuge che, separato senza addebito o di fatto, abbia dato luogo a gravi violazioni dell’etica familiare.

Se la ragione della tutela del legittimario si fonda sul valore della solidarietà familiare, tale tutela viene meno se l’essenza di tale solidarietà familiare viene calpestata.

Il principio della solidarietà familiare emerge dalla disciplina specifica degli istituti del diritto di famiglia e deriva anche dal dovere generale previsto dall’art. 2 Cost., quale concetto unitario, funzionale, del comportamento del soggetto sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità.

Il valore della solidarietà familiare è composto da regole morali e giuridiche che danno luogo non solo a diritti, ma anche a doveri, in reciproca interazione secondo, del resto, il pieno significato dell’art. 2 Cost.. Se tali doveri vengono gravemente violati, non sussiste più alcuna ragione della tutela di diritti che, compenetrandosi con i doveri, non sembrano più trovare un giusto fondamento ed una ragionevole attuazione.

Questi sono i motivi che, in una eventuale riforma del diritto successorio, potrebbero determinare l’opportunità della reintroduzione nel nostro codice dell’istituto della diseredazione testamentaria, nelle linee dei principi evidenziati nell’analisi comparatistica sopra condotta.

Il legittimario diseredato conserverebbe comunque il diritto ad ottenere un assegno di natura alimentare, se ed in quanto sussista il presupposto dello stato di bisogno ex artt. 433 e 438 c.c.

  1. La legittima: principi generali e intangibilità

L’art. 549 c.c. prevede che “il testatore non può imporre pesi o condizioni sulla quota spettante ai legittimari, salvo l’applicazione delle norme contenute nel titolo IV del libro II c.c.

La disposizione in parola vieta quindi non soltanto l’apposizione di oneri e condizioni, ma anche ogni altra previsione che limiti il contenuto dei diritti riservati ai legittimari. Il divieto si estende sia ai pesi o condizioni che incidano sull’oggetto di un’istituzione di erede o di un legato disposto dallo stesso testatore, quanto a quelli che da lui vengano imposti sulla quota spettante al legittimario quale erede ab intestato. Tra i pesi che risultano vietati occorre ricordare sia i legati qualora siano posti a carico dei legittimari, nel caso invece gravino sull’intera eredità, nell’ipotesi in cui ne derivi una lesione della legittima, possono essere resi inefficaci con l’azione di riduzione[56].

Per quanto concerne, invece, la violazione del divieto, va osservato che il legittimario non è tenuto ad esperire l’azione di riduzione per rendere inefficace la disposizione vietata, infatti, questa è già priva di effetti e l’interessato, per ottenere l’accertamento negativo ha solo l’onere di sollevare un’apposita eccezione. Si tratta quindi di nullità relativa[57].

  1. Le attribuzioni a titolo particolare in favore dei legittimari

Il legato a favore di un legittimario, se è effettuato con l’intenzione di escluderlo dalla comunione ereditaria, e cioè se è disposto in sostituzione di legittima, può essere riferito ad un bene già gravato, in vita, da vincolo di destinazione ex art. 2645 ter.

Se il bene attribuito al legittimario è congruente alla quota di legittima, o se il legittimario intende conseguire il bene, nulla quaestio: si riproporranno, nei confronti del legatario-legittimario le medesime situazioni giuridiche analizzate nel paragrafo precedente[58].

Egli dovrà, esprimersi attraverso un negozio di scelta (di preferenza), con la conseguenza della rilevanza dell’errore vizio[59] ovvero semplicemente conseguirlo (secondo la regola generale per la quale il legato si acquista senza necessità di accettazione, ricavabile dall’art. 649), con la conseguenza della irrilevanza dell’errore, salvi i casi (rilevanti) di violenza o dolo, in applicazione analogica dell’art. 482

In caso contrario, si renderà applicabile l’art. 551 nella parte in cui prevede il diritto di rifiutare il legato e di chiedere la legittima.

Il rifiuto del legato è, secondo l’insegnamento di Mengoni,  condizione preliminare per poter esperire le azioni volte a conseguire la legittima[60]. È da sottolineare, inoltre, che il rifiuto del legato immobiliare soggiace alla regola generale dettata dall’art. 1350 n. 5 (gli atti di rinunzia ai diritti immobiliari richiedono la forma scritta-simmetria delle forme rispetto alla costituzione ed al trasferimento).

Se ne ritrova conferma nella sentenza della seconda sezione della Cassazione n. 13785 del 22/07/2004, secondo la quale: “Il potere attribuito al legittimario, in favore del quale il testatore abbia disposto un legato tacitativo, di conseguire la parte dei beni ereditari spettantegli “ex lege” anziché conservare il legato – potere configurabile non come diritto autonomo ma come facoltà compresa nel diritto di agire per ottenere la legittima attraverso l’azione di riduzione spettante al soggetto incluso nella categoria dei legittimari “ex” art. 536 cod. civ. – postula l’assolvimento di un onere, consistente nella rinuncia al legato, che si rende necessario in ragione del fatto che il legato si acquista “ispo iure” e che, nel legato di specie, l’effetto traslativo dal testatore al beneficiario si verifica al momento stesso della morte del primo, onde, essendo i due benefici “ex lege” alternativi ed essendo l’oggetto del legato già entrato nel patrimonio del beneficiario, questi, per conseguire la legittima, deve, previamente o quanto meno contestualmente alla domanda di riduzione, dismettere il legato (in forma scritta “ad substantiam”, in caso di legato di immobili; anche mediante dichiarazione informale o per “facta concludentia”, per tutti gli altri legati)”.  Ma anche l’esperimento delle azioni (di riduzione del solo testamento e di divisione) da parte del beneficiario del legato in sostituzione (rifiutato) non potrà caducare gli effetti del vincolo di destinazione[61].

Nella valutazione dei cespiti da dividere si dovrà tenere conto della limitazione, e l’assegnatario del bene, dovrà “continuare” la posizione giuridica del de cuius, mantenendosi vivi gli effetti della destinazione.

 8 Il legato sostitutivo della legittima

Un’ipotesi particolare è regolata dall’art. 551 c.c. Detta disposizione prevede che il testatore possa lasciare al legittimario un legato in sostituzione della legittima, ovvero che abbia disposto dell’intera eredità a favore di altri, escludendone il legittimario, e gli abbia attribuito un legato.

Ed infatti, talvolta, l’acquisto del legato sostitutivo può apparire al legittimario preferibile al conseguimento della legittima.

Qualora però il legittimario non sia soddisfatto l’art. 551 c.c. gli offre l’alternativa o di rinunciare al legato e chiedere la legittima, esercitando l’azione di riduzione ed acquistando la qualità di erede oppure di conseguire il legato, perdendo il diritto di chiedere un supplemento, nel caso che il valore del legato sia inferiore a quello della legittima, e conseguentemente non acquistando la qualità di erede.

Quindi se il legittimario opta per la prima soluzione prospettata, il legato perde efficacia per effetto della rinuncia, in alternativa esso rimane efficace, e perciò solo l’onorato resta privo della qualità di erede, pur conservando il diritto di rinunciare al legato e di agire quale legittimario. Va precisato però che la scelta diviene definitiva quando il legittimario dichiara che preferisce conseguire il legato, o nell’ipotesi in cui lasci trascorrere il termine eventualmente fissatogli ai sensi dell’art. 650 c.c.[62]

Detti effetti, non si verificano però, quando il testatore ha espressamente attribuito al legittimario la facoltà di chiedere il supplemento ma in questo caso non si ha legato in sostituzione, bensì in conto legittima.

Il legato in parola trova giustificazione nella volontà del legittimario di uniformarsi integralmente al volere del testatore. La norma dell’art. 551 aderisce all’orientamento della dottrina prevalente, nel vigore del codice abrogato, la quale poneva, a fondamento dell’efficacia della disposizione testamentaria il consenso del beneficiario del legato sostitutivo. L’art. 551 c.c., infatti, consente al legittimario, onorato del legato tacitativo, di accettare il legato e di non conseguire la qualità di erede, o, se preferisce, di non aderire alla disposizione testamentaria e di agire in riduzione per ottenere la quota ereditaria di riserva.

Quanto poi, alla natura di detta adesione, la dottrina prevalente sostiene che il beneficiario del legato tacitativo non rinuncia all’eredità accettando il legato[63], ma rinuncia all’azione di riduzione. Egli, infatti, escluso per volontà del testatore dalla successione ereditaria, qualora accetti il legato sostitutivo, non può più agire in riduzione per reclamare la quota ereditaria di riserva[64].

Risulta evidente quindi che, se gli eredi designati rinunciano all’eredità, o per altra causa non possono succedere e non è disposta alcuna sostituzione, il legittimario preterito nel testamento partecipa alla successione come erede legittimo[65].

A ben vedere poi se il testatore non ha disciplinato interamente la sua successione con il testamento, il legatario in sostituzione di legittima ha diritto di partecipare alla successione ereditaria, nella parte in cui essa è ab intestato.

Ma, mentre nel sistema attuale risultano risolte le questioni, aspramente dibattute nel vigore del codice del 1865, in ordine alla natura della disposizione testamentaria con la quale si attribuiscono beni determinati in luogo della legittima e sul fondamento tecnico-giuridico sul quale tale disposizione opera, rimane, invece, ancora aperta, la discussione relativa al rapporto che intercorre tra il legato in parola e la successione dei legittimari: ci si chiede, cioè, se il legato in sostituzione di legittima abbia, comunque, la natura di legittima al pari della quota ereditaria che sarebbe altrimenti spettata al legittimario.

Ebbene se il legato di cui all’art. 551 c.c. è una sorta di diritto riservato, la disposizione testamentaria che lo prevede, non può esser assoggettata ad alcun peso o condizione, ai sensi e per gli effetti dell’art. 549 c.c.[66]. La dottrina prevalente[67] sostiene che il legato in sostituzione di legittima integra una riserva, anche se non a titolo di quota ereditaria, con la conseguenza che la relativa previsione testamentaria attribuisce, comunque, a chi ne è investito la qualità di legittimario. Gli argomenti a sostegno di tale opinione sono, da un lato, la funzione sostitutiva della legittima del legato in parola e, dall’altro, l’espressa previsione dell’art. 551, secondo la quale il legato ordinato in sostituzione di legittima va a gravare in primo luogo, e fino alla capienza della stessa, sulla quota indisponibile.

L’adesione al legato di cui si discute integra poi una rinuncia alla legittima, con la conseguenza che il legatario in sostituzione di legittima perde il diritto all’azione di riduzione.

Il legato in sostituzione di legittima non può assurgere a quota di riserva. In questo senso, la Corte di Cassazione[68] si è pronunciata assimilando il legittimario rinunziante a quello che accetta un legato in sostituzione di legittima, senza considerarli ai fini del computo dei legittimari aventi diritto alla quota di riserva.

Ciò sul presupposto che la natura sostitutiva del legato non toglie, comunque, ad esso il suo carattere di disposizione a titolo particolare, come tale inidonea a fondare una chiamata a titolo di riserva.

Tale pronuncia rafforza, perciò, la tesi che ritiene il legato in sostituzione di legittima uno strumento concesso al testatore per “escludere” uno o più legittimari dalla chiamata ereditaria, pur salvaguardando i diritti a questo spettanti.

Ed invero, l’art. 551 c.c. dispone ancora al 3° co. che il legato in sostituzione della legittima grava sulla porzione indisponibile, se però il valore del legato eccede quello della legittima spettante al legittimario, per l’eccedenza il legato grava sulla disponibile.

In conclusione si può evidenziare che questa figura di legato rappresenta un modo di attribuzione della legittima, in deroga al principio in base al quale questa consiste in una quota di eredità.

Ne consegue che, il legato sostitutivo, nella misura in cui il suo valore non eccede quello della legittima, non può essere assoggettato a pesi e condizioni.

Oltretutto se l’onorato scelga di conseguire il legato e non diviene erede, non per questo aumentano le quote riservate agli altri legittimari.

 9. Il legato sostitutivo con facoltà di supplemento

L’art. 551 c.c., nel disciplinare il legato in sostituzione di legittima, nella seconda parte del comma 2 regola la figura del legato con diritto al supplemento, sull’inquadramento della quale ampio è il dibattito, in dottrina ed in giurisprudenza, senza che, allo stato, si possa dire che la querelle abbia trovato una soluzione definitiva.

La norma statuisce che il testatore può concedere all’onorato di quello che è, secondo la lettera della legge, un legato privativo di legittima, la facoltà di chiedere il supplemento, nell’ipotesi in cui il valore del legato sia inferiore a quello della legittima; in questo modo il legislatore ha inteso garantire al legittimario il conseguimento, in ogni caso, dell’utile che la legge gli riserva, mediante l’esercizio del diritto al supplemento.

Di conseguenza, con la previsione del supplemento si consente al testatore di realizzare il suo desiderio, scongiurando, per quanto possibile, che il legittimario rinunzi al legato per far valere i suoi diritti di erede necessario, nella prospettiva di una ben maggiore soddisfazione economica. Passando alla natura giuridica della fattispecie alcuni autori[69] affermano che il legato con diritto al supplemento è un normale legato in sostituzione di legittima, cui il testatore non ha collegato la perdita del diritto di agire in riduzione; pertanto, l’esperimento vittorioso dell’azione di riduzione farebbe conseguire al legittimario la qualità di erede limitatamente al supplemento. In definitiva, a giudizio della citata dottrina, nel legittimario si cumulano le due figure di legatario e di erede (eventuale) per il supplemento[70].

Al legittimario legatario in sostituzione sarebbe, poi, preclusa ogni pretesa sulla successione ab intestato, avendo egli ricevuto l’intera quota di riserva.

La facoltà di chiedere il supplemento, perciò, modificherebbe completamente, rispetto a quanto detto finora, la posizione del legatario in sostituzione, che rimarrebbe riservatario, non perderebbe il diritto alla quota di eredità e, di conseguenza, non potrebbe esser chiamato alla successione regolata dalla legge.

Un altro autore[71], pur considerando la tesi della combinazione del legato privativo con l’istituzione d’erede, coerente con il dato letterale della disposizione dell’art. 551, sostiene che il legatario, sia con, che senza diritto al supplemento, non acquista mai la qualità di erede. Egli è destinatario, nel caso del legato con supplemento, di due legati in sostituzione di legittima: uno, attuale e puro, concernente il bene o i beni attribuiti specificamente dal de cuius, e l’altro, mediato, sottoposto alla doppia condizione sospensiva che il primo si riveli di valore inferiore alla legittima e che il supplemento sia, in concreto, richiesto; tale soluzione, si argomenta, è più conforme all’intento del testatore di estromettere, in via definitiva, il legittimario dalla comunione ereditaria.

Infatti, l’onorato, nel legato privativo di legittima, può sempre rinunciarvi, se al momento dell’apertura della successione il valore dei singoli beni, così attribuiti, risulti inferiore alla quota di legittima. Nel legato con supplemento, invece, s’intende scongiurare tale eventualità, conferendo al legatario il diritto al supplemento.

In pratica, si viene a svuotare di contenuto, almeno dal punto di vista patrimoniale, l’interesse del legittimario a rinunciare al legato: il legatario, infatti, resta tale, così come era nelle previsioni del testatore, pur avendo la possibilità di conseguire per intero quanto a lui dovuto.
Perciò, secondo la dottrina in esame, tale opinione è preferibile a quella precedentemente esposta: lì, l’esercizio del diritto al supplemento si traduce nell’esperimento dell’azione di riduzione ed importa comunque l’acquisto di una quota di eredità; qui, invece, il supplemento è costituito, in ogni caso, da un bene determinato, si acquista per effetto dell’apertura della successione, al momento dell’avveramento delle condizioni, ed evita la partecipazione del riservatario alla comunione ereditaria, salvo che l’onorato non rinunci ai legati e chieda la quota di riserva.

La struttura della fattispecie, si conclude, è analoga a quella del legato di usufrutto con facoltà di vendere in caso di bisogno[72], con la differenza che nel legato in sostituzione di legittima con diritto al supplemento lo scarto di valore tra l’assegnazione disposta dal testatore e la quantificazione del diritto spettante al legittimario si presenta come elemento oggettivo[73].

I riflessi di tale orientamento in tema di successione legittima sono evidenti: il legatario non assume, in ogni caso, la qualità di riservatario, né, tantomeno, è erede limitatamente al supplemento; egli può, pertanto, prendere parte alla successione regolata dalla legge ove non preferisca agire in riduzione per ottenere l’intera quota ereditaria di legittima.

È vero che ottiene un’attribuzione particolare quantitativamente pari alla riserva, ma rimane legatario (anche con riferimento al supplemento) e, in mancanza di un’espressa esclusione dal testamento, ha diritto ad una quota di eredità nella successione legittima.
Il legato con supplemento non può però rimanere in sostituzione di legittima, difettando della funzione essenziale di privare il riservatario della quota a lui spettante: con l’esercizio del diritto al supplemento, il legittimario, già onorato del legato, ottiene, per la parte, che residua, la quota a lui spettante, e diviene perciò erede[74].

Non appare condivisibile che la disposizione testamentaria si sostanzi in un doppio legato tacitativo[75]: fermo restando il legato attuale, quello definito condizionale pone non pochi dubbi ad un interprete attento, considerando che è legato, per espressa indicazione dell’art. 588 c.c., l’attribuzione di un bene che deve esser determinato specificamente dal testatore, mentre nel caso de quo il supplemento ha per oggetto la quota di riserva, detratto il valore del legato[76].

Pertanto, pur dovendo riconoscere un certo fascino alle opinioni di chi ha fatto perno sul testo dell’art. 551 c.c. per definire la natura giuridica del legato con supplemento, e apprezzando lo sforzo di rimanere aderenti al dettato legislativo, non si può, a questo punto, non prendere atto dell’imprecisione del legislatore nella collocazione del legato con supplemento nell’ambito della disciplina riguardante il legato in sostituzione di legittima.

Gran parte della più autorevole dottrina[77] ed alcune pronunce della Suprema Corte[78] ritengono che il cd. legato con supplemento sia, nonostante il testo legislativo, una istituzione testamentaria d’erede.

Il tentativo di non togliere al legittimario la facoltà di chiedere il supplemento implica necessariamente la volontà di non privarlo della quota di eredità a lui riservata; perciò l’intento del testatore è, in realtà, quello di istituire il legittimario nella quota di legittima.

Il beneficiario del cd. legato con supplemento è, in altri termini, un erede testamentario, la cui quota è composta dallo stesso testatore in parte con l’oggetto del “legato” ed in parte con il supplemento.

Alla disposizione testamentaria, si dice, va, pertanto, accordata la natura di istitutio ex re certa: il bene o i beni assegnati non vanno oggettivamente considerati, ma rilevano in funzione della quota che il testatore ha inteso attribuire[79].

Peraltro, il legittimario consegue la differenza in più, rispetto al legato – il cosiddetto supplemento -, non con l’esercizio dell’azione di riduzione, ma ripetendo la quota residua di riserva dall’asse ereditario, in sede di divisione, proprio in considerazione della disposizione testamentaria che al riservatario, in aggiunta al “legato”, attribuisce il supplemento eventualmente necessario a completarne la misura. La facoltà attribuita al legittimario di chiedere il supplemento rivela l’intento del testatore di far pervenire al medesimo i beni “legati” in conto della porzione che gli compete e di devolvergli in pari tempo una quota astratta del suo patrimonio, nei limiti del valore occorrente per l’integrazione della riserva.

Perciò il legittimario perviene, in tal caso, alla successione in virtù della disposizione testamentaria e chiede il supplemento necessario all’integrazione della sua quota, senza dovere agire in riduzione contro il testamento[80].

Seguendo quest’orientamento, la natura di istituzione d’erede della disposizione e l’assegnazione testamentaria della quota di legittima escludono ogni possibilità al legatario di prendere parte alla successione ab intestato, proprio perché, come per l’opinione della combinazione del legato in sostituzione e dell’istituzione d’erede limitatamente al supplemento, egli ha ricevuto l’intera quota ereditaria di legittima.

La tesi dell’istituzione d’erede ex re certa, non è però stata condivisa, in quanto stravolge il senso della norma, allontanandosi dal concreto volere del testatore, il quale, pur prevedendo il diritto al supplemento, ha ordinato un legato. È vero, infatti, che la fattispecie de qua non si riduce ad un legato tacitativo proprio perché con la previsione del supplemento ne è esclusa la sua funzione precipua[81]; ma ciò non vale a negare alla figura la natura di legato, a dispetto della lettera della norma che, parlando espressamente in tali termini, disciplina i legati a favore del legittimario.

Del resto, l’istitutio ex re certa ricorre solo “quando risulta che il testatore ha inteso assegnare quei beni come quota del patrimonio”, mentre nell’ipotesi di cui si discute la volontà del de cuiussi è espressa con un legato. Inoltre, è palese la difficoltà di rintracciare nel supplemento una disposizione testamentaria avente ad oggetto una quota di eredità (pari alla quota di riserva prevista ex lege, detratto il valore dei beni specificamente attribuiti).

Infatti, con il testamento al legittimario è accordata esclusivamente la facoltà di chiedere l’integrazione di legittima.

n questo senso depone il testo della norma, che, non a caso, disciplina gli effetti del legato privativo di legittima e quelli del legato con supplemento, utilizzando il termine “supplemento”.

Ciò significa che il meccanismo di funzionamento delle due figure è lo stesso, anche se esso opera in un caso in maniera diametralmente opposta all’altro: nel legato tacitativo, il legittimario che preferisce trattenere il legato, perde il diritto al supplemento e non può agire in riduzione, mentre nel legato con supplemento l’onorato mantiene intatto il diritto all’integrazione, ben potendo agire in riduzione per ottenere, per il residuo, la quota di riserva a lui spettante. Diversamente argomentando si ritiene che si toglierebbe coerenza ed omogeneità al dettato della norma[82]. Si deve poi ricordare che la seconda parte del comma 2 dell’art. 551 esclude l’applicazione al legato con supplemento della prima parte della norma, nulla statuendo per il comma 1 dello stesso articolo.

Ciò comporta, non solo che l’onorato di tale attribuzione particolare, se preferisce di conseguire il legato, non perde il diritto di chiedere il supplemento nel caso che il valore del legato sia inferiore alla legittima, ed acquista la qualità di erede, ma anche che egli può rinunciare al legato con supplemento e chiedere per l’intero la quota di eredità che è a lui riservata.

Tale ultima possibilità non è coerente, come è palese, con la tesi della istituzione testamentaria di erede ex re certa, integrando una rinuncia parziale all’eredità.

Il legato di cui si discute è un legato in conto di legittima: il testatore attribuisce, cioè, al legittimario uno o più beni determinati da imputare alla quota di riserva, con la conseguenza che l’onorato che preferisca trattenere il legato[83], può agire in riduzione per l’integrazione, ove abbia ottenuto meno del valore della riserva, utilizzando i normali mezzi posti a tutela dei legittimari.

Il riconoscimento dell’azione per l’integrazione è l’indice più evidente della natura di legato in conto di legittima della figura de qua: infatti, la facoltà di chiedere il supplemento identifica la volontà del de cuius di attribuire al legatario la quota di legittima tutta intera. Pertanto, i beni attribuiti rappresentano non un surrogato, ma un acconto sulla legittima, ferma restando la facoltà del legittimario di rinunciare al legato e chiedere l’intera quota ereditaria[84].

In questo senso si è aggiunto[85] che l’avverbio “espressamente” intende riferirsi non solo alla disposizione del testatore formulata nel senso di poter chiedere il supplemento, ma anche, e soprattutto, alla disposizione qualificata dal testatore come in conto di legittima. Attribuire espressamente la facoltà di chiedere il supplemento significa dire legato in conto di legittima.

Per quanto attiene alla successione legittima, quest’impostazione implica che il legittimario-legatario in conto ha diritto alla quota di eredità nella successione regolata dalla legge, essendo l’attribuzione a suo favore un semplice legato, il cui valore va tenuto presente solo ai fini della determinazione della riserva nel caso che il legittimario intenda agire in riduzione. Il legatario può trattenere il legato ed eventualmente agire in riduzione per ottenere quanto gli spetta, detratto il valore del legato stesso, o rinunciare al legato e chiedere l’intera quota ereditaria di riserva.

In entrambe le ipotesi, l’integrazione o l’attribuzione della quota ereditaria di riserva preclude al legatario di avanzare pretese sulla successione legittima, che si apre quando il testatore non ha disposto interamente dell’asse ereditario.

  1. Il legato di contratto in funzione divisionale

Il testatore può disporre legati c.d. atipici come, ad esempio, il legato di contratto, il legato di posizione contrattuale (come il legato di prelazione), nonché il legato di clausola contrattuale (come la volontà del de cuius di deferire ad arbitri la decisione di questioni concernenti l’interpretazione e l’esecuzione delle disposizioni testamentarie).

Il legato di contratto è definito, in dottrina ed in giurisprudenza, come la disposizione testamentaria con la quale si commette all’erede o al legatario (nel caso del cd. “sublegato”) la conclusione di un determinato contratto, tipico o atipico, con un altrettanto determinato soggetto (il legatario o “sublegatario”), nel rispetto dell’intuitus personae: per l’onerato, cioè, deve essere indifferente contrarre con l’onorato o con un qualsiasi altro terzo[86].

Un’impostazione rigorosamente tecnica impone di qualificare la disposizione in oggetto nei termini di legato atipico di credito ad efficacia obbligatoria (rientrante, cioè, nella categoria del cd. legatum per damnationem, il beneficiario del quale è tutelato da un’actio in personam nei confronti dell’onerato), avente ad oggetto il diritto alla stipulazione di un dato contratto.

L’atipicità deriva dall’impossibilità di sussunzione nello schema tipico delineato dall’art. 658 c.c., che postula l’esistenza del diritto di credito legato al tempo dell’apertura della successione, mentre l’oggetto del legato de quo è costituito da un credito destinato a sorgere ex novo al momento della morte del testatore[87].

Gli scopi e le esigenze che il testatore può avere di mira nella redazione del legato in oggetto sono, infatti, molteplici.

Con esso il testatore conferisce l’indubbio vantaggio di ottenere la stipulazione di un contratto che l’onorato mai avrebbe potuto ottenere senza l’intervento del testatore, ovvero che avrebbe comunque ottenuto, ma a costo di lunghe e dispendiose trattative che invece con tale disposizione vengono del tutto azzerate.

Insomma, a prescindere dalle condizioni dello stipulando contratto, il legato di credito alla stipulazione arreca già un considerevole beneficio al legatario, la cui portata si apprezza valutando la rilevanza degli interessi che il testatore intende appagare: il bisogno di lavoro, il bisogno abitativo, il bisogno di denaro (per sopravvivere, per curarsi, per iniziare un’attività imprenditoriale, per intraprendere studi, eccetera).

Ci si chiede in dottrina se possa essere veramente qualificato come un legato atipico.

Esistono disposizioni testamentarie connotate dalla stessa atipicità dei contratti innominati previsti dall’art. 1322, secondo comma, codice civile?

Una parte della dottrina qualifica “tipici” i legati espressamente regolati dalla legge e “atipici” quelli non puntualmente contemplati[88]; taluni, poi, estendono la qualificazione di tipicità altresì agli schemi astratti dell’istituzione di erede e del legato, di cui all’art. 588 codice civile[89].

Autorevole dottrina[90] dubita che le singole disposizioni testamentarie siano dotate di una causa propria, reputandole più fondatamente quali momenti di un unico programma negoziale, espressione di una funzione unitaria (la regolamentazione degli interessi per il periodo post mortem).

La tesi merita una convinta adesione: le prescrizioni del testamento, da un lato, ed i singoli contratti, dall’altro, non presentano la stessa valenza causale; l’art. 1321 codice civile definisce la natura giuridica del contratto, mentre le norme sulle singole fattispecie contrattuali ne fissano la causa in ragione degli interessi e delle esigenze che mirano a soddisfare, ma tutte assumono la stessa veste giuridica di contratto.

Al contrario l’art. 587 codice civile traccia una volta per tutte i confini della dimensione funzionale del testamento, della quale risultano necessariamente parte integrante l’istituzione di erede ed il legato (dei quali discorre l’art. 588 codice civile), nonchè tutte le fattispecie di legato, previste o non previste dal codice[91] .

Non esiste una norma che, come l’art. 1321 citato per il contratto, chiarisca quale sia la natura giuridica del testamento: da tempo la dottrina ha risolto il quesito, inserendo l’istituto nella categoria dottrinale del negozio giuridico, inteso come l’atto di privata autonomia indirizzata a uno scopo che l’ordinamento giuridico reputa meritevole di tutela[92].

Quest’ultima tesi comporta la conclusione che l’ordinamento dimostrerebbe tolleranza rispetto al contenuto, del legato di contratto e dei legati obbligatori in genere, esclusa qualunque indagine sulla socialità dell’intenzione e dello scopo; dunque le singole disposizioni testamentarie non devono soggiacere al giudizio di meritevolezza sociale di cui all’art. 1322, secondo comma, c.c., visto che lo stesso è già stato superato dal testamento nel suo insieme[93].

Al contrario, la condivisione della prima opzione interpretativa implica l’affermazione della necessità di un’indagine da parte del notaio (al quale sia stato richiesto di assistere il testatore) sulla sussistenza di un ulteriore requisito di validità del legato: la rispondenza ad interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico.

Perchè la delicatezza di tale compito emerga in tutta la sua evidenza basta focalizzare l’attenzione sulla sanzione civilistica che potrebbe colpire la disposizione, la quale non si presenti idonea al superamento del giudizio di meritevolezza più volte citato: la nullità per assoluto difetto di causa, con conseguente responsabilità del notaio ex art. 28 legge 16 febbraio 1913 n. 89 25.

 11. Le donazioni

Prima della L. 14 maggio 2005, n. 80, i pesi e le ipoteche costituiti sopra i beni donati successivamente alla data della liberalità, erano travolti dall’accoglimento dell’azione di riduzione (art. 561 c.c.), mentre l’alienazione della proprietà dei beni stessi rimaneva efficace, ma inopponibile al legittimario vittorioso, al quale i medesimi dovevano essere restituiti in natura alla duplice condizione che il donatario fosse insolvente (art. 563, comma 1, c.c.) e che il terzo acquirente non preferisse liberarsi dall’obbligo pagando l’equivalente in denaro (art. 563, comma 3, c.c.).

Sul punto la dottrina assolutamente prevalente riteneva che con il termine “pesi” il legislatore avesse inteso comprendere non solo “i pesi in senso tecnico, quali le servitù e gli oneri reali” ma anche “i diritti, reali o personali, di godimento o di garanzia, anche se costituiti senza la volontà del legatario o del donatario (sequestro, pignoramento, ecc. …)”[94] .

Si assisteva pertanto ad un doppio regime di tutela per il legittimario: assai efficace, per quanto riguarda i diritti di cui all’art. 561 c.c.(si pensi ad esempio ad un usufrutto); meno stringente, in caso di alienazione totale del bene. Differenza difficilmente giustificabile sul piano razionale, ma coerente con i precedenti storici delle disposizioni in questione[95].

Con la novella, della L. 14 maggio 2005, n. 80, il legislatore[96] ha posto in parte rimedio a questa situazione, poiché, decorso il ventennio dalla trascrizione della donazione, tanto i diritti di cui all’art. 561, quanto le alienazioni di cui all’art. 563 riceveranno lo stesso trattamento giuridico nei rapporti con i legittimari vittoriosi, restando definitivamente efficaci ed opponibili a questi ultimi.

Tuttavia, il legislatore, evidentemente spinto dall’esigenza di non pregiudicare gli eventuali futuri legittimari che, vivente il donante, temessero di ricevere un pregiudizio dal meccanismo delineato, ha concesso ai medesimi[97], quale correttivo, un diritto di opposizione, il cui esercizio comporta la sospensione del termine ventennale citato ed impedisce così ai terzi di consolidare il proprio acquisto, sottraendosi così al rischio della riduzione.

Il legislatore, infine, ha tenuto anche conto della possibilità che, in considerazione dei particolari rapporti tra futuri legittimari e donatari, si intendesse agevolare questi ultimi nel caso di stipula di atti di alienazione, parziale o totale, del bene donato (atti, per la verità, che il donatario già potrebbe giuridicamente compiere autonomamente, ma sul piano pratico di difficile attuazione proprio a causa del rischio della riduzione).

A tal fine, ha espressamente sancito la legittimità della rinuncia al diritto di opposizione, rinuncia che, ove effettuata da tutti gli aventi diritto, dovrebbe (il condizionale è obbligatorio, come si vedrà) tranquillizzare i terzi sulla definitiva bontà del proprio acquisto.
Le modifiche apportate al codice civile costituiscono quindi la risposta all’esigenza di risolvere il problema, assai frequente nella prassi, della commerciabilità dei beni immobili provenienti da donazione, quando il donante sia ancora in vita o non sia trascorso dalla sua morte il decennio per la prescrizione dell’azione di riduzione (o non sia intervenuta rinuncia all’azione di riduzione da parte dei legittimari). L’intervento del legislatore è nato probabilmente guardando alla prassi bancaria, nella quale i beni provenienti da donazione non sono accettati in garanzia fino al decorso del termine per l’azione di riduzione.
La modifica approvata dal legislatore si pone in quest’ottica e, prendendo atto del notevole intralcio che il sistema della riserva pone alla libera circolazione dei beni donati[98], attua una mediazione tra i diritti dei legittimari e l’aspettativa dei terzi alla consolidazione degli effetti degli atti giuridici, soprattutto quando questi ultimi siano assai risalenti nel tempo.

D’altra parte, è radicato nell’ordinamento il principio che il tempo adegui la situazione di diritto a quella di fatto: è il caso dell’usucapione (prescrizione acquisitiva) o della prescrizione estintiva dei diritti. Non a caso, proprio con riferimento alla tutela dei terzi acquirenti da proprietari di beni di provenienza donativa, si è avanzata l’idea che l’usucapione possa essere fatta valere dallo stesso donatario del bene, decorso il ventennio.

Si tratta di un’applicazione della “teoria del doppio effetto”[99], che giudica compatibile la coesistenza di più cause giuridiche in relazione agli stessi effetti. Nel caso dell’acquisto dal donante che sia il vero titolare del bene, si giungerebbe così ad ammettere la possibilità che, decorso un certo termine, possa comunque operare la fattispecie acquisitiva a titolo originario in favore del donatario, sì che, estremizzando, quest’ultimo potrebbe qualificarsi indifferentemente proprietario in virtù di entrambi i titoli.

La ritrosia della dottrina e della giurisprudenza a condividere tale tesi si basava principalmente sulla considerazione che il legittimario agisce verso il donatario senza mettere in discussione la sussistenza del suo diritto di proprietà, ma anzi presupponendolo[100], a cui andava aggiunta la difficoltà di concepire il decorso di un termine di prescrizione (acquisitiva) contro un soggetto (il futuro legittimario) che, durante la vita del donante, si sarebbe trovato nell’impossibilità giuridica di compiere atti interruttivi (e ciò, contro l’art. 2935).

La legge, oggi, nell’ammettere il diritto di opposizione alla donazione, concettualmente rimuove l’unico serio ostacolo che avrebbe potuto impedire l’adesione all’orientamento riportato del doppio effetto, ma per altro verso implicitamente rigetta l’orientamento stesso, perché il meccanismo che sottrae, decorso il ventennio, i creditori ipotecari o gli acquirenti dalla restituzione del bene al legittimario vittorioso, non si basa affatto sull’usucapione del medesimo da parte del donatario, com’è confermato, tra l’altro, dall’art. 561, comma 1, il quale impone al donatario di compensare in denaro il minor valore del bene.

L’esistenza di quest’obbligo, infatti, conferma che, pur decorso il ventennio, il donatario deve rendere conto al legittimario del valore del bene (ricorrendo naturalmente i presupposti per l’applicazione degli artt. 561 o 563), il che appunto significa che la legge nega la possibilità che un bene oggetto di donazione possa essere usucapito, almeno durante il ventennio fissato per la consolidazione degli eventuali diritti dei terzi.

Ebbene, il legislatore ha introdotto le modifiche in commento “Al fine di agevolare la circolazione dei beni immobili già oggetto di atti di disposizione a titolo gratuito”.

Quanto alla natura degli atti presi in considerazione dalla legge, è evidente che gli ostacoli alla circolazione che la norma evoca non sono ascrivibili all’amplissima categoria degli atti gratuiti, ma alla sua species costituita dagli atti caratterizzati da spirito di liberalità. Oggetto della novella, non sono quindi tutti gli atti gratuiti, ma le sole donazioni, sia dirette che indirette[101] (come si ricava anche dal richiamo contenuto nell’art. 564, ultimo comma, c.c.), effettuate in vita dall’autore della successione, perché solo per questi negozi si pone il problema della lesione dei diritti di riserva e quindi della tutela di cui agli artt. 553 ss..

Ci si deve poi chiedere se, nell’espressione riportata, sia stato corretto l’utilizzo dell’avverbio già. Infatti, leggendo letteralmente il preambolo dell’art. 2, comma 4-novies, sembrerebbe che l’intervento normativo sia limitato alla tutela delle sole donazioni stipulate anteriormente all’entrata in vigore della legge.

A quest’interrogativo è stata data risposta negativa: infatti, adottando una simile interpretazione restrittiva, non avrebbe avuto senso inserire definitivamente nel codice civile le modificazioni citate agli artt. 561 e 563, il che invece rende evidente proprio la volontà di predisporre una normativa a regime.

Poiché la legge non distingue, si deve ritenere che l’azione di restituzione sia ai legittimari preclusa semplicemente in conseguenza del decorso del ventennio dalla trascrizione della donazione, a nulla rilevando il mo mento dell’acquisto dei diritti da parte dei terzi. Sarà pertanto indifferente, ad esempio, che il ventennio cada successivamente all’iscrizione dell’ipoteca sul bene donato o che la formalità in parola sia curata solo successivamente al decorso di tale termine.
Quanto al momento iniziale del termine ventennale, l’art. 561, comma 1, c.c. lo fissa alla data della “trascrizione della donazione”, mentre il successivo art. 563, comma 1, c.c. fa riferimento alla sola data della “donazione”.

Tuttavia, se si considera l’inciso finale dell’ultimo comma dell’art. 563 c.c., trova conferma l’idea che il termine iniziale di cui si parla decorra effettivamente dalla trascrizione dell’atto, e non dalla semplice stipulazione del medesimo[102].

L’art. 561, comma 1, c.c. dispone che il compimento del termine citato rende definitivamente efficaci i pesi e le ipoteche costituiti sul bene donato “se la riduzione è domandata dopo venti anni dalla trascrizione della donazione purché la domanda sia stata proposta entro dieci anni dall’apertura della successione”[103]. Il legislatore non ha quindi inteso disporre un’eccezionale dilatazione del termine per la proposizione dell’azione di riduzione da dieci anni a venti anni, avendo semplicemente esplicitato una delle ipotesi che astrattamente potrebbero verificarsi (anzi, forse proprio l’ipotesi emblematica), e cioè che il ventennio si compia già durante la vita del donante stesso.

Dalla lettura delle innovazioni apportate dalla legge, si ricava innanzitutto che il legislatore non ha inteso privare i legittimari non donatari della propria quota di riserva[104]. Infatti, l’effetto preclusivo disposto dalla legge, riguarda la sola azione di restituzione contro i terzi acquirenti dal donatario.

Il legittimario che ha esperito vittoriosamente l’azione di riduzione ha quindi diritto al valore dell’intero bene, (pur se fosse gravato da un peso o da un’ipoteca divenuti definitivamente efficaci), come risulta dal nuovo secondo periodo dell’art. 561 c.c., il quale sancisce “l’obbligo del donatario di compensare in denaro i legittimari in ragione del conseguente minor valore dei beni”.

In questo caso, oggetto della riduzione sarebbe pur sempre il bene in natura, anche se gravato dal peso o dall’ipoteca. Il minor valore del bene, conseguente all’indicata consolidazione dei diritti citati, sarebbe compensato (così si esprime il legislatore) in denaro da parte del donatario[105].

Non si tratta di un’innovazione che altera le quote di riserva fissate nel codice. Infatti che il meccanismo di “emancipazione” del bene donato ideato dal legislatore ha solamente l’effetto di precludere l’azione di restituzione contro i terzi acquirenti, restando impregiudicata quella contro i donatari. Da un punto di vista giuridico, tuttavia, si registra una restrizione degli effetti dell’azione di riduzione in senso ampio (comprensiva, cioè, dell’azione di riduzione in senso stretto, dell’azione di restituzione verso i donatari e dell’azione di restituzione verso i terzi acquirenti), la quale, qualora fosse decorso il ventennio, colpisce il donatario, ma potrebbe non colpire i successivi acquirenti del bene o di diritti sul bene.

Il che, sotto il profilo economico, può tradursi in una lesione del legittimario, considerata la possibilità che il donatario (tenuto alla restituzione del bene in natura e, sussistendone i presupposti, alla compensazione in denaro) sia insolvente.

Tale eventualità (l’insolvenza del donatario) può causare conseguenze contrarie alla ratio posta a fondamento della norma di cui all’art. 559 (e dell’ultimo periodo del comma 1 dell’art. 563, secondo cui la restituzione degli immobili ai terzi acquirenti si può chiedere “nel modo e nell’ordine in cui si potrebbe chiederla ai donatari medesimi”)[106] relativa all’ordine di riduzione delle donazioni (“Le donazioni si riducono cominciando dall’ultima e risalendo via via alle anteriori”).

In seguito alla novella, un diverso ordine di riduzione delle donazioni potrebbe essere causato dalla volontà del legittimario. Infatti, il meccanismo dell’opposizione alla donazione o della rinuncia all’opposizione sembra in grado di poter determinare proprio il rovesciamento della regola dettata dal legislatore con l’art. 559 c.c..

Si prenda, ad esempio, l’ipotesi in cui, in presenza di due donazioni successive, gli aventi diritto rinuncino all’opposizione nei confronti dell’ultima donazione e si oppongano invece alla prima (o comunque non sia decorso il termine ventennale dalla prima donazione).

Sul piano dell’ordine della riduzione, il legittimario dovrà sempre aggredire per prima la donazione più recente (quella per la quale, nell’esempio fatto, si rinunciò al diritto di opposizione), anche se non avrà la possibilità di agire in restituzione verso i terzi acquirenti del bene o dei diritti oggetto di quella donazione.

Ciò comporta, in caso di insolvenza del donatario, l’applicazione della regola di cui all’art. 562 c.c.: “Il valore della donazione che non si può recuperare dal donatario si detrae dalla massa ereditaria, ma restano impregiudicate le ragioni di credito del legittimario e dei donatari antecedenti contro il donatario insolvente”.

La detrazione del valore dalla massa ereditaria produce la diminuzione sia della quota disponibile che di quella indisponibile dell’eredità, con la conseguenza che la donazione precedente, in ipotesi interamente gravante all’origine sulla disponibile, potrebbe essere aggredita, in tutto o in parte.

Tale effetto, che in definitiva si produce con il concorso della volontà del legittimario (in una con un evento casuale, qual è l’insolvenza del donatario successivo), si palesa iniquo nei confronti del donatario o dei donatari di data anteriore, oltre che in contrasto con la presumibile intenzione del donante, il quale, calcolando l’ammontare delle proprie sostanze, avrebbe potuto sperare nella salvezza dei diritti dei primi donatari.

 CAPITOLO II

Gli strumenti a tutela dei diritti dei legittimari

 1. I profili relativi all’apertura della successione

La successione mortis causa realizza innanzitutto l’obiettivo di assicurare una continuità fra il de cuius ed il suo successore, evitando le conseguenze che deriverebbero dall’automatica estinzione dei rapporti, primi fra tutti quelli obbligatori.

La successione soddisfa, poi, l’esigenza di certezza del diritto: realizza, per volontà del defunto o per legge, una devoluzione di diritti e di rapporti a determinati soggetti, in modo da evitare i rischi che graverebbero sull’ordine sociale ed economico per l’esistenza di patrimoni privi di titolare.

La successione si apre al momento della morte (art. 456 c.c.) e la legge predispone, gli atti dello stato civile (art. 449 c.c. e ss.), l’accertamento, la pubblicità e la prova del decesso.

Il momento di apertura della successione è rilevante per molteplici profili: con riguardo a questo momento, difatti, va, innanzitutto, stabilita la cittadinan­za del de cuius per dedurne l’ordinamento competente a regolare (art. 23 disp. prel. c.c.) l’intera vicenda successoria[107] nonché la disciplina applicabile in caso di mutamenti legislativi; in secondo luogo vanno valutati i presupposti soggettivi per la vocazione ereditaria[108] (capacità dei successibili: art. 462 c. c.), e gli effetti dell’acquisto dell’eredità operato con l’accettazione (art. 459 c. c.); inoltre, salvo il caso di istituzione condizionata, decorre dal momento di apertura della successione (art. 480 c. c.) la prescrizione decennale del diritto del chiamato di accettare l’eredità, nonché (sia pure, in tal caso, in alternativa con la notizia della devoluzione) il termine di decadenza dal beneficio d’inven­tario per il chiamato che sia nel possesso dei beni ereditari (art. 485 c. c.).

Peraltro ai fini dell’attuazione delle disposizioni testamentarie, occorre far riferimento alla situazione patrimoniale esistente al momento dell’apertura della successione, ben potendo il testatore disporre anche di beni che non gli appartengono al momento della redazione del testamento ma rientranti nel suo patrimonio al momento della sua morte[109].

L’apertura della successione si verifica nel luogo dell’ultimo domicilio del defunto (art. 456 c. c.), determinando così l’ufficio giudiziario ed il giudice competente per le varie procedure connesse alla vicenda successoria, nonché il foro territorialmente competente per le cause ereditarie (art. 22 c. p. c.).

Ai fini meramente fiscali acquista, invece, rilievo il luogo dell’ultima resi­denza del defunto (art. 35 d. p. r. 26-10-1972 n. 637).

Infine, l’apertura della successione, individuando obiettiva­mente l’esistenza di una eredità, pone il problema della garanzia della sua destinazione rendendo, perciò, ammissibili una serie di urgenti provvedimen­ti conservativi espressamente previsti e regolati (artt. 752 e ss. c.p.c.). Il fenomeno della chiamata all’eredità si verifica mediante la “vocazione”[110] (art. 458 c.c.).  Essa è il fondamento del fenomeno successorio, costituisce il titolo in base al quale si succede, designa le persone che sono legittimate a succedere al de cuius.

La “delazione”, invece, indica il fenomeno dell’offerta del patrimonio ereditario ad un soggetto, cui spetta, quindi, il diritto di accettare l’eredità[111].

La delazione costituisce l’aspetto dinamico della vocazione, normalmente con essa coincidente o rispetto ad essa differita (si pensi all’ipotesi di istituzione sottoposta a condizione sospensiva, qui la vocazione è immediata mentre la delazione è differita al momento dell’avveramento della condizione).

La vocazione è la designazione del successibile, la delazione è l’effettiva chiamata dell’erede.

A norma dell’art. 459 c.c., l’eredità si acquista con l’accettazione[112]. L’ “accettazione” è il negozio per mezzo del quale il chiamato acquista l’eredità con effetto dal giorno dell’apertura della successione

In generale, la delazione che segue l’apertura della successione, pur rappresentandone un presupposto, non è di per se sola sufficiente all’acquisto della qualità di erede.

Infatti, con la delazione si pone dinanzi al chiamato l’eredità, conferendogli il diritto di accettarla, mentre per l’acquisizione della qualità di erede, sia nell’ipotesi di successione legittima che in quella di successione testamentaria, è necessaria anche, da parte del chiamato, l’accettazione, come chiaramente prescritto dall’art. 459 c.c. [113].

L’accettazione ha natura di negozio giuridico[114] e possiede efficacia retroattiva, operando in maniera che non si verifichi soluzione di continuità fra il de cuius e l’erede.

Essa si dice espressa quando avviene mediante aditio, cioè attraverso dichiarazione esplicita di volontà, con cui si accetta l’eredità oppure si assume il titolo di erede, contenuta in un atto pubblico o in una scrittura privata. In tale fattispecie, si tratta di un negozio formale ad essentiam.

Non va però dimenticata la fattispecie di accettazione in forma tacita, effetto di pro herede gestio, cioè del compimento da parte del chiamato di atti che presuppongono necessariamente la volontà di accettare e che non potrebbe compiere se non nella qualità di erede (art. 476 c.c.).

In ambedue i casi, la semplice delazione non è che la situazione in base alla quale i beni ereditari sono oggettivamente a disposizione dei chiamati[115], il cui diritto di accettare l’eredità si prescrive nel termine di dieci anni dal giorno di apertura della successione.

I soggetti che vi hanno interesse possono, comunque, domandare all’autorità giudiziaria di fissare un termine più breve entro cui il chiamato dichiari se accetta o rinunzia, trascorso inutilmente il quale il chiamato perde il diritto di accettare (art. 481 c.c.). Anche un coerede può essere soggetto interessato a fare fissare un termine entro il quale un altro coerede dichiari se accetta o meno [116].

Uno dei più tormentati problemi del diritto successorio riguarda altresì la qualifica di erede del legittimario, da taluni affermata, da altri negata.

Una parte della dottrina[117] ritiene che il legittimario sia erede fin dal momento dell’apertura della successione.

Secondo un’altra parte della dottrina[118] il legittimario, con l’apertura della successione, ha un solo diritto, esperibile sia contro i successori a titolo particolare che contro i successori a titolo universale, nonché, eventualmente, contro i donatari: quello, cioè, di conseguire sul patrimonio del defunto beni per un valore corrispondente alla propria quota di legittima. Questa non coincide con la quota astratta dello ius defuncti, ma è, invece, una quota concreta dell’attivo netto, e conseguentemente non può dirsi erede il legittimario che tale quota consegua. In particolare, si sostiene che il legislatore si preoccuperebbe soltanto di assicurare al legittimario una quota di utile netto, cioè un valore economico, essendo, di massima, irrilevante che questo valore venga conseguito a titolo di eredità, a titolo di legato, ovvero a titolo di donazione. La tesi si basa sull’art. 556 c.c. che, nel determinare la porzione disponibile (e quindi la legittima), non si riferisce ad una quota di eredità, che comprende attivo e passivo, ma appunto ad una quota di utile netto che, naturalmente, esisterà solo quando il calcolo (relictum – debiti + donatum) dia un risultato positivo.

Dalla teoria sopra esposta si è dedotto che i diritti dei legittimari non costituiscono un terzo genere di successione, ma rappresentano un limite all’applicazione delle norme sulla successione legittima e testamentaria. I legittimari sono eredi, se si fa luogo alla successione legittima o se siano chiamati dal testatore, ma non lo sono se vi è il testamento col quale si sia conferita l’intera universalità a persone diverse dai legittimari; costoro nemmeno per effetto dell’esercizio dell’azione di riduzione acquistano la qualità di erede.

Il legittimario, in quanto tale, non è chiamato all’eredità; egli può eventualmente essere chiamato o per successione testamentaria (se istituito erede dal testatore) o per successione legittima (se le disposizioni testamentarie mancano o comunque non coprono l’intero asse ereditario).

  1. Delazione ereditaria e il legittimario pretermesso

L’art. 457 c.c. sotto la rubrica “delazione dell’eredità”, stabilisce che l’eredità si devolve per legge, o per testamento specificando così l’apertura della successione, lo svolgimento della vicenda successoria si risolve, di norma, nell’offerta (o devoluzione) dell’eredità alle persone che, per chiamata (o vocazione), possono, volendo, accettarla[119].

Titoli della chiamata sono la legge o il testamento, distinguendosi così una successione legittima e una successione testamentaria secondo che l’individua­zione del (o dei) chiamato all’eredità e la determinazione del lascito (oggetto della delazione) siano determinati rispettivamente senza (successione ab intesta­to) o con riferimento alle disposizioni di un efficace negozio testamentario[120].

Il legislatore, peraltro, configurando i rapporti tra le due successioni, prescri­ve che “non si fa luogo alla successione legittima se non quando manca, in tutto o in parte, quella testamentaria” (art. 457, 2 comma, c. c.): se ne deve dedurre che, nel nostro ordinamento, la successione legittima sia da ritenersi meramente sussidiaria perché destinata ad operare con norme (quindi) dispositive[121], soltanto in mancanza, totale o parziale, di una efficace e diversa volontà testamentaria.

In dottrina da diversi anni ci si è posto il problema se in mancanza di una chiamata, sia testamentaria che intestata, il legittimario pretermesso è o non è erede.

Da un lato si è infatti autorevolmente affermato che ormai è divenuto diritto vivente il principio per cui il legittimario pretermesso dal testatore non è chiamato all’eredità se e fino a quando non consegue la

quota riservata mediante l’azione di riduzione[122].

Sul punto infatti la giurisprudenza afferma che “Il legittimario totalmente pretermesso dall’eredità, che impugna per simulazione un atto compiuto dal “de cuius” a tutela del proprio diritto alla reintegrazione della quota di legittima, agisce in qualità di terzo e non in veste di erede, condizione che acquista solo in conseguenza del positivo esercizio dell’azione di riduzione, ai cui fini non è tenuto alla preventiva accettazione dell’eredità con beneficio di inventario[123].

E ancora “Il legittimario pretermesso non è chiamato alla successione per il solo fatto della morte del de cuius, potendo acquistare i suoi diritti solo dopo l’esperimento delle azioni di riduzione o di annullamento del testamento; ne consegue che, la condizione della preventiva accettazione dell’eredità con beneficio d’inventario, stabilita dal comma 1 dell’art. 564 c.c. per l’esercizio dell’azione di riduzione, vale soltanto per il legittimario che abbia in pari tempo la qualità di erede per disposizione testamentaria o per delazione ab intestato, e non anche per il legittimario totalmente pretermesso dal testatore”[124].

Dall’altro, si è affermata l’opposta tesi: l’azione di riduzione[125] è “apprestata al fine esclusivo di assicurare l’attribuzione del solo attivo della quota (impropriamente definita tale)” al legittimario e, perciò, l’azione “non fa recuperare la qualità di erede – per l’intero “all’erede leso” –, in quanto capace di assicurare solo l’attribuzione dell’attivo di quanto corrispondente all’attribuzione fatta dalla legge (erede preterito), o di integrare la minor attribuzione (erede leso), e non anche di attribuire la quota (o parte di essa), quale complesso di situazioni attive e passive”[126].

Si discute poi se il legittimario pretèrito debba accettare dopo la sentenza di riduzione o se l’accettazione sia già implicita nella domanda di riduzione.

Parte della dottrina[127] ha osservato in proposito che la fattispecie in esame segue un ordine cronologico inverso rispetto a quello normale: prima si ha l’atto di volontà del legittimario (con la domanda di riduzione) e poi si ha la delazione e l’acquisto (con la sentenza che accoglie il reclamo della quota riservata). Non si tratta certo di una delazione ope judicis ma di una delazione ope legis, perché a seguito della pronuncia di riduzione, i beni ereditari si considereranno, rispetto al legittimario vittorioso, come rientranti automaticamente nel patrimonio del defunto.

Una parte della dottrina[128], invece, ritiene che dal passaggio in giudicato della sentenza di riduzione derivi, in capo al legittimario, l’acquisto della qualità di semplice chiamato; da tale momento decorrerebbe quindi il termine per accettare l’eredità o rinunziarvi.

La riduzione in ogni caso può aver luogo anche a seguito di un atto di riconoscimento da parte dell’erede testamentario a favore del legittimario pretermesso o leso.

  1. La posizione del legittimario leso: le azioni a tutela del legittimario

Dispone l’art. 735, comma 1: “la divisione nella quale il testatore non abbia compreso qualcuno dei legittimari o degli eredi istituiti è nulla”[129]

È opinione unanime in dottrina che la nullità sancita dalla norma colpisce la divisione solo dal punto di vista distributivo, mentre i profili che riguardano la preterizione intesa in senso istitutivo, come riflesso della devoluzione dell’intera eredità in favore di altri, ricadono sotto l’ambito della riduzione.

Nel caso in cui il testatore abbia distribuito con la divisione tutto il suo

patrimonio, trascurando il legittimario, costui non è soltanto escluso dalla ripartizione dei beni, ma è privato della quota ereditaria, vale a dire preterito in senso tecnico. In quest’ipotesi il legittimario ha l’onere di reclamare pregiudizialmente la quota ereditaria di riserva, proponendo l’azione di riduzione contro gli eredi istituiti, e solo dopo avere conseguito per questa via la qualità di erede può far valere la nullità della divisione e chiedere una divisione giudiziale, nella quale egli concorre in ragione della quota di riserva conseguita con la riduzione[130]. Posto che la nullità incide solo sul riparto, la nuova divisione dovrà essere fatta assegnando al legittimario una porzione di valore pari alla quota legittima e mantenendo fra gli altri eredi la proporzione di valore voluta dal testatore[131].

Se il testatore ha trascurato il legittimario, tuttavia lasciando nella successione beni sufficienti a comporre la riserva, il legittimario consegue ab intestato le ceterae res della massa: la divisione testamentaria è salva, dovendosi considerare tale ipotesi espressione del potere del testatore di comporre le porzioni di legittima come meglio creda, senza essere vincolato da limiti qualitativi nella scelta dei beni[132].

Se i beni devoluti ex lege al legittimario non sono sufficienti a comporre la riserva, nel senso che la quota possa essere parzialmente composta con i beni residui, la divisione testamentarie non si sottrae alla sanzione della nullità sancita dalla norma per il caso di preterizione[133].

Se il testatore ha istituito erede il legittimario nella quota di riserva o in quota maggiore, ma poi l’ha dimenticato nella formazione delle porzioni in sede di divisione, questa è nulla e dovrà procedersi a nuova divisione, nella quale il legittimario vi parteciperà come erede testamentario, in base alla quota che il testatore gli ha attribuito.

Ancora, l’azione di nullità, concepita come il passaggio essenziale per pervenire a nuova divisione, costituisce la tutela del legittimario al quale sia stata assegnata una somma di denaro non compresa nel relictum, ma che deve essere corrisposta dall’assegnatario dei beni relitti. Essendo il legittimario contemplato nel testamento, non c’è preterizione[134] e nemmeno lesione quantitativa se la quota in denaro corrisponde a quanto gli spetta. Ciò che rende invalida la divisione è il fatto che il diritto del legittimario ad una quota di beni non si può trasformare in un diritto di credito, senza il concorso della sua volontà[135].

In tutte le altre ipotesi il legittimario è tutelato dall’azione di riduzione

prevista dall’art. 735, comma 2, c.c. da cui consegue, secondo la regola dell’art. 558 c.c., la proporzionale inefficacia delle attribuzioni nei limiti in cui ledano la legittima[136].

Sono applicabili i principi che governano la riduzione delle disposizioni aventi ad oggetto cose determinate.

Nel caso di patto di famiglia previsto dalla legge del 14 febbraio 2006, n. 55, il legittimario pretermesso, in ogni caso, potrà impugnare il patto facendone accertare l’inefficacia e/o nullità; è discutibile la possibilità di una ratifica ex post che, comunque, dovrebbe rivestire la forma solenne.

 4. La natura dell’azione di riduzione

La definizione della posizione giuridica del legittimario estromesso, come ho detto nel paragrafo 2 capitolo due della mia tesi, è pregiudiziale alla soluzione del problema della natura giuridica dell’azione di riduzione.

Gli autori favorevoli al riconoscimento della qualità di erede al legittimario preterito, in particolare, ritengono che tale qualità costituisca un presupposto per l’esperimento dell’azione di riduzione, dal quale dipende la legittimazione ad agire dell’attore[137].

Ne deriva che la pronunzia emessa nel giudizio di riduzione, secondo la dottrina in esame, non è finalizzata all’attribuzione del titolo di erede, che è preesistente. L’effetto tipico della riduzione si risolve, invece, nella caducazione degli effetti delle disposizioni lesive della legittima, fino alla completa reintegrazione della stessa[138].

Per contro, la dottrina che afferma l’esistenza di un diritto reale sui beni relitti, a favore del legittimario, qualifica l’azione in questione quale azione di accertamento, diretta a far valere l’inefficacia originaria delle disposizioni lesive[139].

Nell’ambito dell’orientamento dottrinale prevalente, d’altro canto, si registrano differenze di posizione, in ordine alla natura ed alle finalità del rimedio in esame. Si è sostenuto, a titolo di esempio, che l’azione di riduzione dovrebbe essere ascritta alla categoria delle impugnative negoziali. Ciò, con la precisazione che la disposizione oggetto della impugnativa non è nulla, né annullabile: l’effetto dell’azione in oggetto è, infatti, soltanto quello di rendere inoperanti gli effetti della disposizione impugnata nei confronti del legittimario leso[140].

Secondo una diversa opinione, l’azione in questione integrerebbe una particolare figura di azione di risoluzione, o, tutt’al più, una particolare specie ascrivibile alla categoria dell’azione di rescissione[141].
Contro tale ipotesi di inquadramento, si è obiettato che le azioni sopra indicate colpiscono direttamente il negozio impugnato, mentre l’azione di riduzione incide esclusivamente sugli effetti dell’atto[142].

Ed ancora vi è chi ha proposto, invece, di assimilare il rimedio in esame alla figura dell’azione revocatoria ordinaria. Identica, secondo questa tesi, sarebbe la funzione dei due istituti, poiché l’azione di riduzione è preordinata a rendere inopponibili al legittimario le disposizioni e gli atti lesivi dei diritti successorii riservati, così come l’azione revocatoria è finalizzata a rendere inefficaci, nei confronti del creditore, gli atti posti in essere in frode alle sue ragioni[143].

Tuttavia va detto che l’azione di riduzione si caratterizza, rispetto ai rimedii tradizionali, per la sua specialità. La dottrina prevalente è concorde, in primo luogo, sul fatto che l’azione in questione ha natura di azione di accertamento costitutivo: il rimedio in esame, infatti, è preordinato alla rimozione degli effetti degli atti di disposizione esorbitanti la quota disponibile.

Donde il profilo della modificazione della realtà giuridica, necessaria per realizzare la reintegrazione della legittima, nel quale si concreta l’efficacia costitutiva della pronunzia di riduzione[144].

Sotto questo profilo, il diritto del legittimario leso, che viene azionato attraverso l’esperimento dell’azione di riduzione, lungi dal configurarsi come diritto di credito, o come diritto reale sui beni relitti, assume le caratteristiche di un vero e proprio diritto potestativo, avente ad oggetto la reintegrazione della legittima[145].

Del pari, è controversa la questione relativa alla natura personale o reale dell’azione di riduzione.

Qualche autore ha sostenuto la natura reale dell’azione in questione[146].

Altri interpreti distinguono, invece, tra l’azione contro il beneficiario della disposizione lesiva, che avrebbe natura personale, e l’azione contro i terzi aventi causa, che avrebbe natura reale[147].

Un Autore, viceversa, ritiene che la prima azione abbia natura reale, e la seconda personale[148].

La dottrina maggioritaria è comunque orientata nel senso che si tratti di azione personale: ciò in quanto l’azione di riduzione è esperibile soltanto nei confronti del beneficiario della disposizione impugnata[149].
L’azione di riduzione, inoltre, secondo la dottrina e la giurisprudenza consolidate, è azione individuale: il rimedio in questione, infatti, è preordinato a far conseguire al singolo legittimario leso la reintegrazione dei suoi diritti successorii. Qualora gli altri legittimarii rimangano inerti, restano salve le disposizioni lesive dei diritti di questi ultimi; né il legittimario, il quale agisca in riduzione, può avvantaggiarsi dell’inerzia degli altri legittimarii, per accrescere la propria quota[150].

Da tale profilo, la giurisprudenza ha tratto alcune conclusioni rilevanti: si è deciso, a titolo di esempio, che non sussiste litisconsorzio necessario, rispetto agli altri legittimari, nel giudizio di riduzione promosso da uno di essi[151].

Si è ancora stabilito che l’interruzione della prescrizione, a seguito della proposizione dell’azione, giova soltanto all’attore[152].

  1. L’azione di riduzione in concreto

Venendo alle conseguenze della riduzione, è pressoché unanime la tesi secondo la quale la sentenza che accoglie la domanda di riduzione determina la caducazione, totale o parziale, degli effetti delle disposizioni lesive, nei confronti dell’attore[153].

Si tratta, più precisamente, di una ipotesi di inefficacia relativa successiva. Quanto al primo profilo, l’effetto tipico della riduzione consiste nel rendere inopponibili all’attore gli effetti degli atti di disposizione che risultino incompatibili con i diritti successorii riservati dalla legge. Ciò in relazione ad atti negoziali che sono, in sé, validi.
L’inefficacia è, inoltre, successiva, poiché l’atto impugnato è originariamente idoneo a produrre i propri effetti. L’eliminazione degli effetti, nei rapporti con l’attore, è una conseguenza diretta della sentenza di riduzione.

Del resto, le disposizioni lesive sono destinate a mantenere i propri effetti, qualora l’azione di riduzione non venga esperita.

La sentenza di riduzione ha efficacia retroattiva, poiché l’inopponibilità degli effetti si determina fin dal momento dell’apertura della successione: è in questo momento, infatti, che si verifica la lesione della legittima, presupposto dell’azione in questione[154].

In dottrina, si è peraltro sostenuto che gli effetti della riduzione si producono dal giorno della domanda[155].

L’opinione menzionata si poggia su un dato testuale, rappresentato dall’art. 561, ult. comma, c.c. che, stabilisce che i frutti debbano essere restituiti a decorrere dal giorno della domanda di riduzione.

Donde la conclusione che tutti gli effetti derivanti dalla riduzione si producono da tale momento.

Contro questa tesi, si può obiettare che la norma menzionata, lungi dall’avere portata generale, concerne esclusivamente il godimento dei frutti.
Sotto questo profilo, la disposizione in questione, costituisce applicazione di un principio generale, in base al quale le cause che determinano l’inefficacia successiva del titolo sul quale si fonda il godimento del bene, che non dipendano da vizi intrinseci del titolo negoziale in questione, non possono pregiudicare gli atti di godimento anteriori[156].

Ulteriori espressioni del medesimo principio, si possono ravvisare, a titolo di esempio, in materia di revocazione delle donazioni, ove è previsto che i frutti relativi ai beni da restituire sono dovuti dal giorno della domanda (art. 807 c.c.).

Analogamente, in materia di contratti, è previsto che i frutti da restituire, a seguito dell’avveramento della condizione risolutiva, sono dovuti dal giorno in cui si è verificata la condizione, in deroga al principio generale in base al quale gli effetti della condizione si producono dal momento della conclusione del contratto (art. 1361 c.c.).
Il beneficiario dell’atto di disposizione lesivo, quindi, fino al momento della proposizione della domanda di riduzione, gode della cosa a pieno titolo, a prescindere dalla sua buona o mala fede[157].

La retroattività degli effetti della riduzione è messa in luce, in particolare, dalla disciplina relativa alla impugnazione delle donazioni e delle disposizioni di legato aventi ad oggetto diritti reali immobiliari, che prevede l’inopponibilità al legittimario vittorioso dei pesi e delle ipoteche costituiti sui beni da restituire (art. 561, 1° comma, c.c.).
Qui, infatti, fatti salvi gli effetti della trascrizione nei registri immobiliari, di cui all’art. 2652, n. 8, c.c., il principio espresso dal ben noto brocardo resoluto iure dantis, resolvitur et ius accipientis, trova piena ed automatica applicazione[158].

La retroattività della riduzione è, poi, alla base della disciplina sopra esaminata, relativa all’azione di restituzione nei confronti dei terzi aventi causa, ai sensi dell’art. 563 c.c.

L’inopponibilità del titolo d’acquisto del terzo, nei confronti del legittimario che sia risultato vittorioso nel giudizio di riduzione, è una conseguenza della retrodatazione degli effetti della riduzione.

Quest’ultimo aspetto, non è posto in dubbio dalla facoltà riconosciuta al terzo di liberarsi dell’obbligo di restituire i beni, pagando il relativo valore.

La facoltà in questione, infatti, lungi dal contraddire la tesi della retroattività della risoluzione degli effetti dell’atto di disposizione lesivo, costituisce un mero contemperamento rispetto al sacrificio delle ragioni del terzo acquirente, tenuto a restituire il bene, nonostante la validità del proprio titolo d’acquisto, in nome dell’interesse prevalente alla tutela del legittimario[159].

La retrodatazione degli effetti della riduzione, del resto, è funzionale alla piena ed effettiva reintegrazione dei diritti dell’attore: quest’ultimo, a seguito del vittorioso esercizio dell’azione in questione, deve poter godere di tutti i diritti riservati. Donde l’eliminazione retroattiva degli effetti negoziali incompatibili con tali diritti.

Quest’ultimo aspetto della reintegrazione integrale della legittima è, inoltre, alla base della disciplina positiva che riconosce il diritto del legittimario di recuperare, in natura, i beni compresi nella sua quota riservata, ove possibile (art. 560, 1° e 2° comma, c.c.).

In relazione all’ipotesi che la restituzione in natura non possa avvenire, vengono previsti dei criteri sostitutivi, preordinati a garantire la reintegrazione per valore della legittima.

Per giurisprudenza consolidata, nei casi sopra esaminati, ed in ogni altro caso nel quale la reintegrazione della legittima debba avvenire mediante pagamento di una somma di denaro, il relativo diritto di credito costituisce credito di valore.

Ne deriva che il credito in questione è insensibile agli effetti pregiudizievoli della svalutazione monetaria.

Si ritiene, inoltre, che il valore del bene da corrispondere al legittimario deve essere determinato con riferimento al momento della pronunzia[160].

Neppure questi profili, in ogni caso, si pongono in contrasto con la tesi della retroattività della riduzione: il riferimento al momento della pronunzia, non attiene alla decorrenza degli effetti della riduzione. La rivalutazione del credito del legittimario è, invero, preordinata a garantire l’equivalenza tra il valore pecuniario da corrispondere ed il valore reale del bene sottratto alla legittima. La reintegrazione dei diritti successorii del legittimario estromesso si completa, poi, con l’acquisto della qualità di successore a titolo universale, da parte di quest’ultimo, quale effetto derivato dalla riduzione degli atti dispositivi lesivi. A seguito della riduzione, quindi, l’attore vittorioso viene a prendere parte alla comunione ereditaria[161].

  1. L’azione di riduzione contro i terzi acquirenti

Con la l. 80/2005 (in vigore dal 15 maggio 2005) sono state introdotte alcune novità di portata rilevante riguardanti proprio la tutela degli acquirenti di beni di provenienza donativa.

L’azione di restituzione (azione reale conseguente all’azione di riduzione) può essere esperita dal legittimario leso o escluso solo se non sono decorsi 20 anni dalla donazione. Qualora i 20 anni siano invece trascorsi, non vi è alcun rimedio per il legittimario vittorioso nell’azione di riduzione, se il patrimonio del donatario è incapiente per soddisfare i crediti del legittimario stesso.

Se l’azione di riduzione è domandata dopo 20 anni dalla trascrizione della donazione (e il bene viene recuperato), le ipoteche e i pesi (ad es. l’usufrutto) restano efficaci, fermo però restando “l’obbligo del donatario di compensare in denaro i legittimari in ragione del conseguente minor valore dei beni” (art. 561 c.c.), e sempre che la domanda di riduzione sia stata proposta entro 10 anni dall’apertura della successione.

Se, invece, l’azione di riduzione viene esperita entro 20 anni dalla donazione e risulta vittoriosa, il bene recuperato dal legittimario rimane libero da pesi e ipoteche (c.d. effetto purgativo dell’azione di riduzione);

Affinché il termine di 20 anni dalla donazione non pregiudichi i diritti degli stretti congiunti del donante e la sua decorrenza sia quindi sospesa, è consentita al coniuge e ai parenti in linea retta (art. 563 c.c., come modificato dalla l. 80/2005) la c.d. opposizione stragiudiziale alla donazione: essi possono infatti notificare al donatario e ai suoi aventi causa e trascrivere nei pubblici registri un atto stragiudiziale (cioè non proposto avanti al giudice) di opposizione alla donazione.

In tale modo è sospeso il termine ventennale previsto per la donazione; l’opposizione perde effetto se non viene rinnovata prima che siano trascorsi 20 anni.

Fermo restando quindi il limite di prescrizione decennale, la l. 80/2005 ha introdotto un nuovo ed ulteriore termine ventennale, decorrente dalla trascrizione della donazione, entro il quale il legittimario può esercitare l’azione di riduzione per ottenere la restituzione dei beni donati. Trascorsi 20 anni dalla donazione, infatti, il legittimario che non trovi nel donatario un patrimonio sufficiente a ripristinare la propria quota di legittima, non può avanzare più alcuna pretesa nei confronti di un eventuale terzo cui sia pervenuto il bene dal donatario.

La nuova disposizione agevola così la circolazione dei beni oggetto di donazione sui quali i legittimari lesi non possono più avanzare pretese nei confronti di terzi, se sono decorsi 20 anni dalla donazione e se non è intervenuta opposizione stragiudiziale alla donazione. L’opposizione alla donazione era un atto sconosciuto nel diritto vigente e rappresenta la soluzione offerta dal legislatore alla minore tutela riconosciuta al legittimario.

Se prima della riforma, infatti, il legittimario per poter esperire l’azione di riduzione verso atti donativi compiuti in vita dal de cuius e lesivi della sua quota di legittima era soggetto esclusivamente al termine di prescrizione decennale che scattava dalla data di apertura della successione, in seguito alle novità della l. 80/2005 il legittimario si ritrova a dover fare i conti con l’ulteriore termine di 20 anni decorrente dalla donazione, decorso il quale egli potrebbe sì risultare vittorioso nell’azione di riduzione, ma potrebbe non accedere alla successiva azione di restituzione.

Va sottolineato che l’eventuale rinuncia al diritto di opposizione, che permette il decorso del termine di 20 anni, non significa mai rinuncia all’azione di riduzione. Resta infatti fermo il divieto secondo cui i legittimari non possono rinunciare all’azione di riduzione finché vive il donante (art. 557 c.c.).

  1. La problematica concernente l’opponibilità dell’eccezione di usucapione

La possibilità di opporre l’eccezione di usucapione al legittimario che agisca in riduzione o in restituzione è un problema che, dibattuto già vigente il Codice civile del 1865, attualmente sembra non suscitare particolare interesse in dottrina[162]. La giurisprudenza di legittimità, nonostante qualche pronuncia di merito di segno opposto, è orientata decisamente su posizioni che escludono l’opponibilità dell’usucapione al legittimario o che addirittura negano l’ammissibilità dello stesso acquisto per usucapione[163].

Non sempre, però, l’iter logico seguito da dottrina e giurisprudenza sull’argomento è del tutto esente da incertezze, da imputarsi ad una non piena individuazione della reale incidenza del fenomeno dell’usucapione, oltre che al non ancora interamente sopito contrasto di opinioni circa la natura delle azioni di riduzione e di restituzione, concesse ai legittimari a tutela dei loro diritti successori[164].

Secondo le ormai quasi unanimi dottrina e giurisprudenza l’azione di riduzione in senso stretto ha natura di azione personale, in quanto diretta non a recuperare i beni ereditari erga omnes (come la petitio hereditatis o la rivendica della proprietà[165]), ma solo a far dichiarare inefficace, verso il legittimario attore, le disposizioni (testamentarie o a titolo donativo) lesive della quota di riserva; si tratterebbe, pertanto, di azione di mero accertamento, seppure costitutivo, e non di condanna[166].

Ben più discussa è, invece, la natura della consequenziale azione di restituzione, diretta contro il beneficiario della disposizione già dichiarata lesiva (e, quindi, ridotta) o contro gli eventuali terzi aventi causa dallo stesso.

Secondo alcuni l’azione di restituzione avrebbe natura di azione personale, perché legittimato passivo può essere solo il beneficiario della disposizione lesiva[167], secondo altri natura di azione reale, in quanto diretta a recuperare i beni del de cuius (mediante azione di condanna)[168], secondo altri ancora natura di azione personale ove si agisca in giudizio contro i donatari (e i beneficiari per testamento) e reale ove si agisca contro i terzi aventi causa[169].

Il discorso in esame sarebbe probabilmente diverso ove si accogliesse la tesi, sostenuta dalla meno recente dottrina, della natura reale dell’azione di riduzione, da cui deriva il riconoscimento della titolarità immediata, in capo al legittimario, dei beni costituenti la riserva[170]: in tal caso la riduzione avrebbe una funzione simile alla rivendica e potrebbe essere validamente contrastata dall’eccezione, da parte del convenuto, dell’intervenuta usucapione dei beni contestati.

La questione in esame ha un rilevante risvolto pratico, perché riguarda i complessi rapporti tra due categorie di soggetti e precisamente tra i legittimari lesi nella quota di riserva e i diretti beneficiari del de cuius, tanto in vita a titolo di donazione, quanto per successione testamentaria (o legittima, in alcuni casi), ai quali vanno aggiunti tutti i loro eventuali aventi causa[171].

Se è vero, infatti, che l’azione di riduzione è esperibile solo dopo l’apertura della successione e, di conseguenza, da tale momento[172] inizia a decorrere il termine ordinario di prescrizione, è altresì vero che con detta azione i legittimari agiscono nei confronti di aventi causa dal de cuius in base a titoli di acquisto che, specialmente in caso di acquisti inter vivos per donazione, possono essere molto risalenti nel tempo.

La questione da risolvere è, anzitutto, se sia o meno possibile l’usucapione dei beni oggetto di disposizioni lesive della quota di riserva dei legittimari e, successivamente, ove a tale quesito si desse risposta affermativa, se tale usucapione possa o meno essere validamente opposta al legittimario che agisce in riduzione o in restituzione.
La giurisprudenza di legittimità, nelle varie sentenze che si sono succedute su questo tema, ha costantemente negato l’usucapione dei beni oggetto di disposizioni lesive della quota di riserva, e quindi riducibili, giustificando tale affermazione con il principio che l’usucapione si possa compiere solo contro un proprietario, in grado di «difendersi» con il compimento di atti interruttivi della stessa.

La dottrina che si è occupata del fenomeno ha ammesso l’usucapione solo entro limiti ristretti, e precisamente solo a favore degli aventi causa dei donatari, e solo per il caso di usucapione abbreviata il cui termine sia iniziato a decorrere dopo l’apertura della successione. Sulla base dell’assunto che l’usucapione esplica i propri effetti contro il legittimario si sostiene, infatti, che è solo con la morte del donante che può aversi un valido ed efficace possesso ad usucapionem[173].

Secondo questa tesi l’usucapione è possibile in tali ipotesi in quanto il legittimario, dovendo preliminarmente esperire l’azione di riduzione contro i diretti beneficiari del donante (o del de cuius, per i beni pervenuti per successione), potrebbe non essere in grado di agire contro i successivi aventi causa prima che siano già decorsi i dieci anni ex art. 1159 c.c..

In tal caso l’acquisto a titolo originario potrebbe essersi già verificato, anche perché l’esperimento dell’azione di riduzione vale interruzione dell’usucapione solo nei confronti del donatario (o dei successori mortis causa), ma non nei confronti degli aventi causa, che non sono, né possono essere convenuti in tale giudizio[174].

Contro di essi vale, invece, interruzione dell’usucapione solo l’azione di restituzione che, dovendo necessariamente seguire un vittorioso giudizio di riduzione, può risultare temporalmente successiva al già maturato decennio utile per l’usucapione. L’avente causa, infatti, è in una posizione assimilabile a quella di un acquirente a non domino, in quanto il suo dante causa (il donatario, l’erede o il legatario) può essere considerato come non più proprietario, quale conseguenza della azione di riduzione e della declaratoria di inefficacia (seppure sopravvenuta), del suo titolo di acquisto[175].

Volendo accogliere i presupposti di una tale ricostruzione, la conclusione cui si giunge ha, però, una portata ben più ampia rispetto a quella prospettata e, soprattutto, non limitata ai soli aventi causa dai donatari.
Anzitutto, va sottolineato come, secondo la citata ricostruzione, il donatario (o il successore mortis causa), conclusosi in modo a lui sfavorevole il giudizio di riduzione, deve essere considerato come non più proprietario, dato che i suoi aventi causa vengono considerati dalla citata dottrina alla stregua di acquirenti a non domino in grado di usucapire a norma dell’art. 1159 c.c..

Così ragionando, prima di tutto si ammette che in tal caso[176] l’acquisto per usucapione avviene ai danni di un proprietario non identificato né identificabile, in quanto tale non è il donatario dante causa, ma tantomeno lo è il legittimario all’apertura della successione[177], perché casomai quest’ultimo può diventare proprietario dei beni contestati solo una volta esperita vittoriosamente l’azione di riduzione: l’esistenza di un proprietario ben identificato contro cui maturare l’usucapione è, invece, uno dei presupposti ritenuti necessari dalla Cassazione per ammettere, in tali casi, l’usucapione.

Inoltre la dottrina citata ritiene ammissibile, da parte del legittimario, un atto interruttivo dell’usucapione, consistente nell’esperimento dell’azione di restituzione.

Tuttavia così impostata la questione porta all’ovvio problema che il legittimario, in quanto tale, non ha, infatti, alcun titolo per interrompere l’usucapione, a maggior ragione se, come afferma la giurisprudenza di legittimità, la riduzione e la restituzione non sono dirette a contestare il giusto dominio del convenuto, ma, anzi, lo presuppongono[178].

L’usucapione prima della morte del donante/de cuius è costantemente negata sulla base della considerazione che, dovendo l’acquisto verificarsi contro il legittimario, ciò sarebbe impossibile fino a quando il legittimario stesso non sia diventato tale, e cioè con la morte del donante, in quanto solo da allora egli potrebbe “difendersi” interrompendo l’usucapione.

Il presupposto di questa tesi non è stato ritenuto però del tutto esatto, perché il legittimario non ha alcun titolo per interrompere l’usucapione, né prima dell’apertura della successione né dopo, in quanto egli comunque non diventa proprietario dei beni oggetto delle disposizioni lesive se non una volta che abbia efficacemente esercitato l’azione di riduzione[179]. Il legittimario, invece, ha il potere di interrompere l’usucapione ordinaria nel caso in cui la donazione sia nulla e il donatario (che non è più tale, in realtà, in quanto il suo titolo è invalido) possieda il bene donato.

In tale ipotesi il legittimario agisce contro di lui come erede (nel presupposto che lo sia) e non in qualità di legittimario: l’usucapione è certamente opponibile[180], ove già maturata, mentre non dovrebbe esservi spazio per la riduzione, che presuppone, invece, necessariamente una donazione valida oltre che lesiva (e può essere lesiva solo se valida)[181].

Conclusioni opposte sono state, invece, sostenute da una parte della dottrina e dalla stessa Suprema Corte in una non lontana pronuncia[182], in cui si è ammessa la riduzione di una donazione nulla.

Ove pure si ritenesse ammissibile l’usucapione dei beni oggetto di disposizioni lesive della quota di riserva, secondo la giurisprudenza di legittimità e parte della dottrina, in ogni caso non vi sarebbe modo di vanificare le pretese del legittimario, in quanto quest’ultimo, agendo in riduzione, non intende contestare la legittima proprietà del convenuto, il cui titolo è a tutti gli effetti valido (e rimane tale anche dopo il giudizio), e che è anzi il presupposto per l’efficace ed utile esercizio della riduzione.

Il legittimario non agisce sul bene, come in caso di rivendica, per recuperarlo, ma vuole, invece, solo il ripristino del patrimonio del de cuius con l’eliminazione dell’atto lesivo[183]. Questo assunto è stato dalla dottrina prevalente condiviso, ma non fino al punto di ritenere irrilevante la maturata usucapione e di considerarla, utile solo per confermare l’esistenza del diritto di proprietà del convenuto, e cioè di uno dei presupposti per poter agire in riduzione.

L’usucapione, infatti, come acquisto a titolo originario, è vero che non muta la posizione del possessore, ove questi abbia anche un titolo (valido ed efficace) di proprietà, ed in tal caso, è effettivamente inutile[184]; la situazione è ben diversa, però, ove il titolo risulti invalido per un qualsiasi motivo o sia inefficace o, come in caso di riduzione, venga dichiarato così nei soli confronti del legittimario.

In simili ipotesi non si può disconoscere che l’acquisto a titolo originario ha una portata assoluta e tale da vanificare le pretese di qualsiasi terzo, non escluso il legittimario che agisce in riduzione.

Questo assunto può essere efficacemente sostenuto solo se si accoglie il presupposto che non vi è alcun valido motivo per negare l’ammissibilità di un acquisto a titolo di usucapione non solo da parte di chi sia in possesso di un titolo che per qualche ragione non sia pienamente idoneo alla realizzazione degli effetti da esso potenzialmente derivanti, ma anche da parte di chi già abbia un titolo perfettamente valido ed efficace.

Le due ipotesi sono differenti, ma il risultato pratico che da esse deriva è sostanzialmente identico.

La dottrina italiana ha raramente affrontato il problema, che è, invece, di notevole rilevanza. Autorevole Autore ha in passato sostenuto essere logicamente impossibile che lo stesso diritto venga acquistato due volte, anche sulla base di titoli diversi, essendo inammissibile, in quanto inutile, una pluralità di fonti di un identico effetto giuridico[185].

La tesi citata, però, trae fondamento dalla pretesa mancanza di utilità, e quindi di causa, di un secondo acquisto dello stesso diritto, ma nel caso della riduzione la situazione è ben diversa.

Anzitutto va osservato come non può disconoscersi piena compatibilità tra la posizione del possessore in quanto proprietario, in base a un titolo valido ed efficace, e quella del possessore sine titulo o con titolo non pienamente idoneo a produrre i suoi effetti[186].

Questa compatibilità risulta coerente con la disciplina codicistica del possesso, in base alla quale viene data rilevanza alla mera situazione di fatto, ad esempio in ordine alle azioni possessorie, che spettano al possessore in quanto tale, a prescindere dall’esistenza di un titolo e dallo stato soggettivo, cioè dalla buona o mala fede[187].

In altri termini, per il nostro ordinamento, il possessore ha una posizione giuridicamente rilevante, che è sempre la stessa (a parte le differenze già citate), a prescindere dall’esistenza o meno di un titolo a fondamento del possesso. La tutela del possessore (anche sine titulo) è concessa finanche nei confronti del proprietario, sul quale grava l’onere di provare il suo titolo, mentre il possessore, anche di mala fede, può limitarsi al possideo quia possideo.

A conferma di quanto detto vi è la possibilità per lo stesso proprietario di agire con le azioni possessorie ove sia anche possessore, così beneficiando di una tutela più rapida e meno onerosa sotto il profilo probatorio, e questo trova la sua ratio proprio nella circostanza che l’ordinamento ritiene meritevole di tutela anche la mera situazione di fatto, così come appare ai terzi.

Sembra pertanto logico secondo la dottrina più attenta non limitare la rilevanza del possesso del proprietario alla sola tutela processuale, ma estenderla, invece, anche agli altri effetti del possesso[188], tra cui vi è certamente la possibilità di maturare l’usucapione.

Ciò è evidente nel caso in cui il titolo di acquisto sia invalido o inefficace, ma lo è anche nel caso in cui il titolo sia oggetto di riduzione: in entrambe le ipotesi ben può il possessore maturare l’usucapione, dovendo essere equiparato al possessore che sia fin dall’inizio sine titulo[189].

Non è escluso, però, che lo stesso fenomeno possa verificarsi anche allorché il titolo sia valido ed efficace.

Una conferma di quanto sostenuto si ha nell’ammissibilità, sul piano processuale, della prova dell’acquisto a titolo originario, in virtù del possesso (ultraventennale), proprio o del proprio dante causa.

La regola, sorta per ovviare alla insuperabilità della probatio diabolica, conferma la possibilità di porre a fondamento del proprio diritto alternativamente, ove ne ricorrano i presupposti, il titolo derivativo o quello originario.

Ciò non sarebbe possibile ove si desse per assodata la citata incompatibilità tra la posizione del possessore in quanto proprietario e quella del possessore sine titulo e, quindi, la inammissibilità della contemporanea esistenza di due titoli di proprietà di natura diversa (derivativo e originario).

L’argomento è stato analizzato dalla dottrina tedesca, che discorre in proposito di doppio effetto.

Secondo tale dottrina[190] la causalità giuridica, cioè la necessaria correlazione tra un evento e la sua conseguenza giuridica, non deve far aprioristicamente ritenere esclusa la coesistenza di più cause, ciascuna idonea da sola a produrre un effetto giuridico identico.

Come la proprietà può essere acquistata a titolo derivativo o a titolo originario, così può verificarsi il caso in cui le due diverse fattispecie coesistano e risulti pertanto indifferente ai fini del risultato concreto (cioè ai fini dell’acquisto della proprietà) quale delle due si voglia porre a fondamento del proprio acquisto.

Estremizzando tale posizione, si potrebbe ammettere, che l’acquirente a domino, in possesso di un titolo valido ed efficace, che si trovi nel possesso ultraventennale di un immobile, possa vendere a un terzo in qualità di proprietario per usucapione e non in forza del titolo comunque in suo possesso; questa potrebbe anzi essere una efficace soluzione per il caso in cui l’acquisto immobiliare non sia stato trascritto, ad esempio perché mancante della forma necessaria[191].
Una conferma della validità della teoria del doppio effetto si ritrova anche nella diversa ipotesi di un negozio invalido a causa di vizi differenti (ad esempio per vizi della volontà o per incapacità naturale e contemporaneamente per difetto di forma o per illiceità): in tal caso l’effetto giuridico, cioè l’eliminazione del negozio tramite una pronuncia giudiziale, può essere ottenuto alternativamente per uno dei motivi di invalidità, con risultati tendenzialmente identici[192].

La citata teoria del doppio effetto può trovare applicazione anche nel caso dell’azione di riduzione esperita contro chi possa vantare un possesso ultraventennale, ma in ordine a tale conclusione risultano opportune alcune precisazioni.

Anzitutto va osservato che se è vero che il legittimario che agisce in riduzione esercita un’azione personale, tesa solo a far accertare la lesione, è altresì vero che, a contrario, ove la successiva azione di restituzione fosse diretta a recuperare il bene erga omnes[193], a tale pretesa il convenuto potrebbe validamente opporre l’intervenuta usucapione.
Non sembra, inoltre, avere valore decisivo l’affermazione che l’eventuale usucapione non avrebbe altra conseguenza che quella di confermare la proprietà del donatario, così rafforzando, e non indebolendo, la posizione processuale e sostanziale del legittimario, in quanto l’esistenza di una donazione valida ed efficace (oltre che lesiva)[194] è uno dei presupposti per l’esperimento dell’azione di riduzione.

Il donatario, in realtà, aggiunge o, meglio, sovrappone un acquisto nuovo, a titolo originario, al suo titolo donativo, interrompendo, così, la catena di acquisti che lo legava al proprio dante causa: tale fenomeno non tollera nel nostro ordinamento alcuna eccezione, neanche in caso di rivendica o di nullità (azioni, tra l’altro, imprescrittibili).

Una volta che l’acquisto si è verificato, esso sarà definitivo ed opponibile erga omnes, anche perché svincolato da problemi di pubblicità, necessaria solo ai fini della continuità (artt. 2650 e 2651 c.c.).
Il donatario, se ha maturato l’usucapione, ha acquistato sul bene che ha posseduto (fino all’azione di riduzione anche in qualità di proprietario) un diritto nuovo, indipendente dal suo dante causa.

Il bene (o il diritto reale, ove di esso si tratti) deve ritenersi, pertanto, non più recuperabile al patrimonio del de cuius, in quanto uscito definitivamente dalla catena degli acquisti a titolo derivativo iniziata con la donazione[195].

A tale ipotesi sembrerebbe potersi applicare l’art. 562 c.c., che prevede, per il caso di beni donati periti o per i quali non sia stato possibile ottenere la restituzione, un meccanismo che impedisce di far ricadere il danno per intero sui precedenti donatari[196].

Ammettendo che l’usucapione sia opponibile al legittimario non si può, di conseguenza, non rilevare che quest’ultimo subirebbe un notevole pregiudizio, ma sembra di contro eccessivo, per ovviare al problema, negare il verificarsi stesso dell’usucapione o affermare che l’usucapione, ove realizzata, non incida sulla posizione del legittimario, con ciò disconoscendo all’usucapione la sua effettiva portata.

Né può riconoscersi al legittimario una posizione tale da potersi affermare, con dubbio fondamento, che l’usucapione non solo non danneggia il legittimario, ma ne rafforza sostanzialmente la posizione, avendo egli interesse a che il donatario sia proprietario del bene, per poter più agevolmente agire in riduzione.

Come può per il legittimario, che agisce in riduzione per togliere efficacia al titolo dal quale il donatario deriva il suo diritto, essere indifferente la circostanza che lo stesso donatario possa vantare un titolo di acquisto diverso e ben più “forte”, quale è un acquisto a titolo originario rispetto ad uno derivativo? E come può inoltre il donatario, divenuto in seguito alla usucapione non più proprietario in quanto donatario, ma in quanto acquirente a titolo originario, quindi senza che più il suo diritto derivi da alcun dante causa, essere chiamato a subire conseguenze in virtù di un titolo che non è più la fonte del suo diritto? Infine, se l’usucapione si è verificata, essa deve essere opponibile a tutti i terzi, ivi compreso il legittimario, dato che la proprietà e i suoi modi d’acquisto sono fenomeni assoluti e non relativi[197].

È vero che il codice espressamente riconosce la prevalenza dell’usucapione sulle azioni di nullità e di rivendica, e che l’art. 563 c.c. fa salvi, invece, solo gli effetti del possesso di buona fede di beni mobili, tacendo sugli immobili e sull’usucapione degli stessi, ma non vi è ragione per non riconoscere, anche in tale caso, l’ammissibilità dell’usucapione, che è un fenomeno di applicazione generale, solo per la preoccupazione, seppure meritevole, di tutelare i legittimari.

Questi ultimi godono, nel nostro ordinamento, di una tutela molto efficace, giustificata dalla esigenza di protezione della famiglia anche contro la stessa volontà del de cuius, ma è altrettanto meritevole di tutela la posizione del donatario e degli altri beneficiari a titolo gratuito[198], ove essi siano stati nel possesso dei beni ricevuti per un lasso di tempo a volte ben superiore al ventennio.

Sembra pertanto ingiustificato, a parere della dottrina maggioritaria oltre che privo di un valido fondamento giuridico, sostenere la prevalenza dei legittimari in ogni situazione di conflitto con i possessori dei beni oggetto di atti di disposizione lesivi della legittima.

  1. La cautela sociniana

Ai sensi dell’art. 550 c.c. quando il testatore dispone di un usufrutto o di una rendita vitalizia il cui reddito eccede quello della porzione disponibile, i legittimari, ai quali è stata assegnata la nuda proprietà della disponibile o parte di essa, hanno la scelta di eseguire tale disposizione o di abbandonare la nuda proprietà della porzione disponibile, nel secondo caso il legatario, conseguendo la disponibile abbandonata, non acquista la qualità di erede.

Si ritiene che tale rimedio possa trovare attuazione anche quando l’eccedenza della disponibile si è verificata in seguito ad una donazione di usufrutto in vita del donante-testatore[199].

Secondo la dottrina prevalente, la dichiarazione di abbandono deve essere effettuata in forma scritta, e trascritta, se ha ad oggetto beni immobili.

Tale istituto configura un diritto potestativo che si esercita mediante un negozio giuridico unilaterale recettizio.

Tale negozio produce il mutamento oggettivo del legato con sostituzione dell’oggetto originario con una quota di beni in piena proprietà.

Nell’istituto della cautela sociniana non possono rientrare i diritti di uso ed abitazione ex art. 540, 2° comma, c.c. spettanti al coniuge superstite.

La cautela sociniana si applica anche quando il legittimario sia istituito anche solo come legatario.

  1. La rinuncia del legittimario all’eredità

Il principio accolto nel nostro sistema successorio – così come avviene anche nell’ordinamento francese (art. 913 code civil) – è, con riferimento all’individuazione della quota che a ciascun legittimario viene riservata o – ed è lo stesso – della quota indisponibile, quello della variabilità della quota di riserva o indisponibile in base al numero e allo status dei “concorrenti” (v. gli artt. 537 e 544 c.c.), a differenza di quanto avveniva, viceversa, sotto la vigenza del codice civile del 1865 ove era prevista una riserva “fissa”[200].

Proprio l’introduzione di tale sistema fa sorgere il se il legittimario che abbia rinunziato alla legittima – ove non abbia luogo la rappresentazione debba essere considerato ai fini della determinazione della quota in concreto indisponibile e, di conseguenza, di quella disponibile[201].

Il quesito, a volte, è stato posto in termini diversi ossia nel senso della ammissibilità o no, in caso di successione necessaria, dell’accrescimento[202]: invero, non sembra corretto poter parlare di accrescimento se non in termini meramente descrittivi, in quanto, in questo settore delle successioni non opera un vero e proprio accrescimento, perché, deve piuttosto parlarsi, in modo più esatto, di diverso calcolo della quota indisponibile ove il concorso tra legittimari sussistente al momento dell’apertura della successione venga a modificarsi in conseguenza della rinunzia di uno degli eredi necessari.
In realtà, secondo un certo orientamento dottrinale[203] nonché giurisprudenziale[204], potrebbe parlarsi di accrescimento in senso tecnico, sia perché la quota indisponibile dovrebbe essere determinata con riferimento alla situazione esistente al momento della morte del de cuius e quindi non sulla scorta di coloro che vengono effettivamente alla successione, ma piuttosto sulla base dei chiamati; sia perché, essendo la vocazione necessaria e la vocazione legittima due figure da ricomprendere nello stesso genus vocazione legale, ciò consentirebbe l’applicazione, alla successione dei legittimari, dell’art. 522 c.c. dettato in tema di accrescimento nelle successioni legittime[205].

In virtù di tale modo di pensare, pertanto, se qualcuno dei legittimari venisse meno prima di aver conseguito la parte di beni riservatagli ovvero rinunziasse alla legittima[206], e non ricorressero i presupposti per l’operare della rappresentazione, si avrebbe un vero e proprio accrescimento[207].  Quindi, ad esempio, se i legittimari al momento dell’apertura della successione sono due discendenti (a cui spetterebbero quindi i due terzi del patrimonio) e uno di essi rinunzia ai propri diritti, colui che viene alla successione avrebbe diritto, per l’operare dell’accrescimento, ad una riserva pari ai due terzi del patrimonio ereditario e non alla metà dello stesso.

Questo orientamento, tuttavia, non va esente da critiche in quanto in primo luogo, non tiene conto della fondamentale regola contenuta nell’art. 521 c.c. (retroattività della rinunzia all’eredità) ai sensi della quale colui che rinunzia all’eredità è considerato come se non vi fosse mai stato chiamato[208].

In secondo luogo, deve essere sottolineato, come già affermato da autorevole dottrina[209], che dall’esegesi, anche letterale di non poche norme dettate in tema di successione necessaria (si vedano, ad esempio, gli artt. 538 e 542 c.c.), si ricava che il legislatore italiano ha preso in considerazione, ai fini del calcolo delle quote indisponibili, non i legittimari superstiti al momento dell’apertura della successione, bensì i legittimari che effettivamente vengono all’eredità[210].

Infatti, tale interpretazione si impone, ad esempio, per l’art. 538 c.c. (che regola la riserva spettante agli ascendenti), altrimenti detta norma dovrebbe ritenersi applicabile solo nel caso che il de cuius non abbia avuto figli o che questi siano tutti premorti o assenti; se, invece, sopravvivessero figli capaci di succedere e tutti rinunziassero, si dovrebbe concludere o nel senso che rimane ferma a beneficio degli ascendenti la quota riservata di due terzi stabilita dall’art. 537 c.c., oppure nel senso che non sorge alcun diritto di riserva in favore degli ascendenti, conclusioni, sia l’una che l’altra, evidentemente inammissibili.

E analogo discorso vale per l’art. 542 c.c., in quanto se il de cuius lascia il coniuge e un figlio, è certo che, rinunziando il figlio, la sua quota di riserva non si accresce al coniuge, bensì si applica l’art. 540 c.c. ovvero, se vi sono ascendenti, l’art. 544 c.c.

Infine, va rilevato che, quando si parla di quota di riserva, con tale termine si vuole indicare una porzione della massa dei beni relitti e donati che viene, appunto, riservata al legittimario, se e in quanto costui adisca l’eredità[211]: è una quota utile di beni (c.d. pars bonorum) che spetta al legittimario, anche se il de cuius abbia diversamente disposto, e non è, invece come comunemente si crede, una quota ereditaria già devoluta all’erede necessario al momento dell’apertura della successione[212].

Il legislatore, infatti, stabilisce che, al legittimario venga riservata una certa quota di beni, ma non dice in alcun modo che al legittimario sono già attribuiti, al momento dell’apertura della successione, determinati beni o una certa quota e che, quindi, egli sia, in ogni caso, anche chiamato all’eredità[213].

E, per di più, se si confronta il dettato normativo del codice in tema di successione legittima, può notarsi che il legislatore, in quella sede, ha affermato che “l’eredità si devolve”, nonché che “succedono” determinati soggetti in certe quote.

Viceversa, in tema di successione necessaria, ci si limita a stabilire che ai legittimari la legge “riserva” una quota di eredità”[214]: quindi, anche dal testo normativo, si desume che la quota di legittima sta ad indicare soltanto una quota di beni che la legge vuole che venga attribuita a determinati soggetti nel momento in cui costoro decidano di adire l’eredità.

E che al legittimario, al momento dell’apertura della successione, non venga, in concreto, già devoluta una quota ereditaria, ben lo si comprende se si ha presente che il legittimario che sia totalmente pretermesso dal de cuius, deve agire con l’azione di riduzione per ottenere quanto gli spetta e, solo dopo l’esperimento vittorioso di quell’azione, acquista la qualità di erede per cui può conseguentemente acquistare i diritti che gli spettano: e ciò vale anche, con le dovute differenze, per il legittimario leso nella sua quota.
Alla luce di tali rilievi si può, pertanto, ribadire che non può parlarsi di accrescimento nella successione necessaria[215] e che, quindi è più corretto affermare che il legittimario rinunziante non vada calcolato ai fini della determinazione della quota di patrimonio indisponibile: con la rinunzia alla quota di legittima costui perde la qualifica di legittimario e deve essere considerato come estraneo alla successione[216]. Quindi, non conta il numero dei legittimari lasciati dal defunto al momento dell’apertura della successione, ma vanno considerati i legittimari che effettivamente adiscono l’eredità e concorrono alla ripartizione del patrimonio relitto (tenuto conto del donato)[217].

Va, infine, segnalata, la posizione assunta da parte della dottrina[218] che, pur riconoscendo che, in caso di successione necessaria, non può operare il meccanismo dell’accrescimento, sostiene, invece, che la quota indisponibile del patrimonio del defunto, va, tuttavia, calcolata sempre con riferimento alla situazione esistente al momento dell’apertura della successione, per cui la rinunzia di uno dei legittimari, non dando luogo ad una vacanza di quota, non solleva il problema di collocazione della medesima: la rinunzia del legittimario incide solo sul contenuto economico della riserva complessivamente considerato, nel senso di determinarne una diminuzione nella misura corrispondente al valore della porzione di beni che a lui sarebbe stata, in concreto, attribuita qualora avesse accettato l’eredità[219], ma non comporta la necessità di effettuare un diverso calcolo delle quote indisponibili e della quota disponibile che, pertanto, restano entrambe temporalmente cristallizzate, nel quantum, al momento della morte del de cuius.

Occorre ora cercare di enucleare le varie ipotesi di “variazioni di concorso” dei legittimari che possono essere causate, in concreto, dalla rinunzia di un legittimario alla propria quota di legittima, o, più in generale, dal venir meno di uno dei legittimari nel periodo intercorrente tra l’apertura della successione e l’effettivo conseguimento delle suddette quote ereditarie, come, ad esempio, in occasione della divisione ereditaria o, ancora, in occasione dell’esercizio dell’azione di riduzione[220]: naturalmente la seguente elencazione prende in considerazione, per esigenze di esposizione, da un lato, la sola ipotesi della rinunzia, in quanto questa risulta essere la più frequente, ma essa è applicabile anche alle altre ipotesi nelle quali viene meno un legittimario e, dall’altro, presuppone, in ogni caso, che al legittimario rinunziante, non subentrino, per rappresentazione, i propri eredi.

Come si potrà rilevare, la variazione delle quote, il più delle volte, ha, quale effetto di maggior rilievo, quello di ampliare, rispetto al momento dell’apertura della successione, la quota disponibile da parte del de cuius, proprio perché il venir meno di un legittimario restringe, ovviamente, la quota indisponibile.

  1. I legittimari e i creditori

L’art. 524 c.c. consente ai creditori di colui che rinuncia ad un’eredità di farsi autorizzare ad accettarla “in nome e luogo del rinunziante, al solo scopo di soddisfarsi sui beni ereditari fino alla concorrenza dei loro crediti” (cfr. art. 949 del codice civile del 1865). La ratio della norma consiste, nella tutela dei creditori del chiamato[221], come è confermato dal fatto che il presupposto per l’impugnativa è la semplice sussistenza di un danno nei loro confronti, a prescindere dall’intento soggettivo del debitore.

Si è a lungo discusso, specie sotto il vigore del vecchio codice, sulla natura giuridica del rimedio in questione[222], da alcuni parificato all’azione di cui all’art. 2901 c.c., da altri a quella surrogatoria.

La dottrina e la giurisprudenza hanno ormai da tempo chiarito che si tratta di un tertium genus[223] con caratteristiche in parte simili alla prima[224], tanto che si parla di “una sorta di revocatoria di atto pregiudizievole ma non fraudolento”[225], poiché il suo vittorioso esperimento comporta l’inopponibilità della rinuncia nei confronti dei creditori procedenti[226].

Non bisogna tuttavia dimenticare che, se il rimedio in parola si esaurisse in tale effetto, rimarrebbe da spiegare come potrebbero i creditori sottoporre ad esecuzione beni che non sono mai entrati a far parte del patrimonio del debitore.

Deve pertanto essere precisato che all’effetto revocatorio si aggiunge un effetto che solo descrittivamente può dirsi surrogatorio[227]: i beni dell’eredità, nei limiti del credito ed a soli fini strumentali per il suo soddisfacimento, si considerano facenti parte del patrimonio del rinunciante[228], senza però che questi consegua contro la propria volontà la qualità di erede, attesa anche “la mancanza assoluta di universalità e definitività dell’acquisto”[229].

Resta in ogni caso ferma la delazione (e l’eventuale accettazione o, in caso di accrescimento, il conseguimento dell’eredità) in favore del chiamato in subordine (o in concorso)[230].

Infatti, a parte la considerazione che l’acquisto del chiamato rinunciante è provvisorio e strumentale (al soddisfacimento dei creditori), la conclusione che precede deriva dal fatto che un erede deve sempre esistere (al limite, in ultima istanza, lo Stato) e che tale qualifica, per quanto detto, non può essere rivestita dal rinunciante, né tanto meno dai suoi creditori[231].

Peraltro, fino a quando l’eredità non sia stata accettata dal chiamato ulteriore, il rinunciante può avvalersi del potere di revoca di cui all’art. 525 c.c.[232].

Nonostante il testo della norma parli di autorizzazione all’accettazione dell’eredità, non si dubita che si tratti di un vero e proprio giudizio contenzioso[233], e non di un procedimento di volontaria giurisdizione, come peraltro risulta dalla rubrica dell’art. 524 e come pure è confermato dall’art. 2652, n. 1, c.c.[234], che la include tra le domande soggette a trascrizione (naturalmente, quando la domanda si riferisce ad alcuno dei diritti menzionati nell’art. 2643 c.c.)[235].

La giurisprudenza, unanime, riteneva che unico legittimato passivo dell’azione in parola fosse il debitore rinunciante, ammettendo i chiamati che gli fossero subentrati nell’eredità a spiegare un mero intervento adesivo dipendente nel relativo giudizio[236].

Conseguiva implicitamente da tale impostazione che la trascrizione di cui all’art. 2652, n. 1, c.c. non potesse curarsi che a solo ed esclusivo carico del rinunciante[237].

Tuttavia, recentemente è stata sostenuta la soluzione opposta.

Si tratta in questo caso di risolvere il conflitto tra i creditori del rinunziante e gli aventi causa dell’erede che accetta l’eredità in luogo del rinunziante: conflitto questo che trova soluzione, non nell’applicazione diretta ed esclusiva dell’art. 524 c.c., ma in base al disposto dell’art. 2652, n. 1, c.c.. Preliminarmente, deve dirsi che detto conflitto nemmeno si porrebbe qualora si aderisse alla tesi di chi sostiene che l’azione di cui all’art. 524 c.c. è concessa ai creditori ogni volta in cui la rinuncia all’eredità non abbia assunto i caratteri della definitività[238]; in caso contrario, quando cioè opera l’accrescimento o il chiamato in subordine accetta l’eredità, il diritto dei creditori cesserebbe.

Detta tesi, tuttavia, non è condivisa dalla dottrina prevalente[239] e, sia pure implicitamente, dalla giurisprudenza.

Sul piano testuale, inoltre, essa non sembra condivisibile considerando che il diritto concesso ai creditori – e si tratta di un diritto diverso, dal contenuto più ampio, rispetto a quello di revocare la rinuncia – non è soggetto al limite sancito dall’art. 525 c.c. (in particolare, che l’eredità non sia stata accettata da altro dei chiamati).

L’art. 2652, n. 1, c.c., che costituisce una novità per la parte che ci interessa (tanto che, sotto il vigore del vecchio codice, si discuteva “se dovesse applicarsi l’ultimo capoverso dell’art. 1235, dettato in tema di revocatoria, per il quale erano salvi i diritti a qualunque titolo acquistati, dai terzi di buona fede, prima della trascrizione della domanda giudiziale, oppure dovesse farsi ricorso all’art. 933 in tema di acquisto dall’erede apparente, per cui erano salvi soltanto i diritti acquistati a titolo oneroso dai terzi di buona fede”)[240], dispone espressamente la trascrizione della domanda giudiziale di cui all’art. 524.

La sentenza che accoglie tale domanda non pregiudica i diritti acquistati dai terzi in base ad un atto trascritto o iscritto anteriormente alla trascrizione della domanda.

La particolarità della trascrizione in parola è dovuta al fatto che l’atto impugnato, e cioè la rinuncia all’eredità, non è soggetto a trascrizione, nemmeno quando nell’asse sono compresi beni immobili[241].

Il ragionamento sviluppato si incentra quindi sull’analisi degli artt. 2652 e 2653 c.c., che risolvono il conflitto tra l’attore e gli aventi causa dal convenuto mediante la trascrizione della domanda giudiziale nei confronti di quest’ultimo (la trascrizione dell’acquisto mortis causa dell’erede, anche se anteriore alla trascrizione dell’impugnazione, non potrebbe invece tutelarlo ai danni dei creditori)[242].

Dunque i terzi acquirenti, per garantirsi della bontà del titolo dell’erede alienante, non avrebbero l’onere di accertarsi dell’insussistenza di una domanda giudiziale pregiudizievole nei confronti del primo chiamato rinunciante, dal momento che quest’ultimo non è un loro dante causa.

 La domanda dei creditori, conclude infine la sentenza, deve essere annotata, ai sensi dell’art. 2654 c.c., in margine alla trascrizione dell’atto di acquisto dell’erede. In dottrina, è ampiamente sostenuta la tesi secondo cui il chiamato accettante è legittimato passivo della domanda di cui all’art. 524 c.c.[243]. La preoccupazione è principalmente quella di tutelare l’ulteriore chiamato che, a seguito dell’esercizio dell’azione in parola, trova i propri beni (ereditari, s’intende) “vincolati a garanzia di un debito altrui”[244].

Non manca tuttavia chi estende la legittimazione passiva al chiamato subentrante operando un parallelo con i destinatari dell’azione revocatoria[245].

L’opinione per cui la trascrizione della domanda deve essere curata, ai fini dell’opponibilità della futura sentenza nei confronti dei terzi acquirenti dall’erede, anche nei confronti di quest’ultimo[246], implicitamente presuppone una sua legittimazione passiva all’azione intentata dai creditori, e per questo motivo disattende il citato pregresso orientamento della unanime giurisprudenza[247].

Qualche perplessità in dottrina invece suscita l’affermazione sulla necessità che la domanda sia annotata, ai sensi dell’art. 2654 c.c., in margine all’atto di acquisto dell’erede in subordine.

A questo proposito, valgono le osservazioni di chi ha obiettato che “non è questo l’atto impugnato cui fa riferimento la norma in questione. Poiché l’atto impugnato (la rinunzia all’eredità) non va trascritto, non vi sarà annotazione”[248]. Altrimenti, bisognerebbe considerare oggetto di impugnazione l’accettazione dell’eredità, ma a questo punto la trascrizione della domanda avverrebbe non già ai sensi dell’art. 2652, n. 1, c.c., ma del successivo n. 7 (domande con le quali si contesta il fondamento di un acquisto a causa di morte).

La complessità del problema si deve alla formulazione, in questa parte “sibillina”, dell’art. 2652, n. 1, c.c., che, dopo aver genericamente disposto la trascrizione delle domande indicate dall’art. 524, aggiunge che “Le sentenze che accolgono tali domande non pregiudicano i diritti acquistati dai terzi in base a un atto trascritto o iscritto anteriormente alla trascrizione della domanda”.

La norma fissa indubbiamente una regola di soluzione del conflitto che si crea tra creditori del rinunciante e terzi[249] subacquirenti, ma non precisa chi sia il loro dante causa.

La dottrina e la giurisprudenza, danno per scontato che costoro siano gli aventi causa dall’erede. Il presupposto implicito è infatti che non si potrebbe trattare degli aventi causa dal rinunciante, dal momento che se costui, successivamente alla rinuncia, la revocasse, non vi sarebbe motivo, da parte dei creditori, di procedere con l’azione di cui all’art. 524 c.c. (e l’azione eventualmente proposta perderebbe rilevanza), proprio perché i beni dell’eredità confluirebbero nel patrimonio del debitore che, sia pur tardivamente, ha accettato[250]. Chiarito questo punto, rimane da stabilire a quali condizioni la domanda (o meglio, la sentenza, una volta pronunciata e favorevole all’attore) proposta dai creditori sia opponibile ai terzi subacquirenti.

Due sono le possibili alternative: o ritenere che la trascrizione curata nei soli confronti del debitore spieghi efficacia anche verso i terzi – che così avrebbero l’onere di verificare l’assenza di trascrizioni pregiudizievoli non solo a carico del proprio dante causa (l’erede), ma anche a carico del chiamato rinunciante -, oppure pretendere, che la trascrizione sia effettuata anche contro l’erede.

La prima soluzione non sembra percorribile. Anche se è vero che il legislatore ben può disporre che l’opponibilità di una certa vicenda consegua alla prioritaria trascrizione di un atto che si colloca al di fuori della catena d’acquisto dell’alienante[251], perché ciò accada sarebbe necessaria un’espressa previsione normativa.

Al riguardo, sembra fondamentale sottolineare che le norme in tema di trascrizione hanno natura eccezionale [252] e sono quindi soggette a stretta interpretazione (arg. art. 14 disp. prel. c.c.).

Pertanto, l’opponibilità di cui parla l’art. 2652, n. 1, c.c. deve essere correttamente riferita agli aventi causa dall’erede, il quale, analogamente a quanto accade nelle altre domande soggette a trascrizione previste dall’art. 2652 c.c., deve al contempo rivestire la qualifica di convenuto nel giudizio.

Questa soluzione, tuttavia, presenta l’inconveniente di tutelare i creditori solo quando intercorre un certo lasso temporale tra l’acquisto dell’eredità da parte del chiamato in subordine e l’atto di alienazione compiuto da quest’ultimo, poiché la domanda giudiziale verso l’erede – oltre ovviamente a non essere proponibile prima dell’acquisto, da parte sua, dell’eredità[253] -, richiede l’espletamento di alcune formalità (ad esempio, della notifica dell’atto di citazione)[254].

In altri termini, il chiamato in subordine potrebbe agevolmente contribuire a far salvo l’acquisto dei terzi, alienando in loro favore i beni del’’asse senza previamente accettare l’eredità (così compiendo un’accettazione tacita)[255].

Occorre però considerare che è la stessa trascrizione della domanda giudiziale in oggetto (se non addirittura della domanda di cui all’art. 524 c.c.) a costituire un’anomalia nel sistema, se da un lato si tiene a mente che la rinuncia all’eredità non è soggetta a pubblicità di tipo dichiarativo (si ricorda peraltro che, ai sensi dell’art. 2662 c.c., di essa si deve far menzione nella nota di trascrizione dell’acquisto a causa di morte che si colleghi alla rinunzia di uno dei chiamati) e dall’altro si considera il contesto in cui nacque l’azione in parola. Nel diritto consuetudinario francese (e successivamente nel codice napoleonico), infatti, l’eredità si acquistava di diritto, e dunque la rinuncia determinava la dismissione di un diritto già entrato nel patrimonio del debitore; da qui la somiglianza con l’azione revocatoria ordinaria, se si tralascia il requisito della frode.

D‘altra parte, la mancanza di questo requisito, senza una disposizione ad hoc, avrebbe reso difficile concepire la trascrizione di tale domanda in analogia alla norma che disponeva la trascrizione dell’azione revocatoria (come testimonia il dibattito, cui si è fatto cenno, apertosi sul punto nella dottrina dell’epoca): ecco spiegato il motivo della previsione di cui all’art. 2652, n. 1, c.c..

Tuttavia, si deve considerare che già nell’impianto del codice del 1865 poteva scorgersi la necessità di un atto di accettazione per l’acquisto della qualità di erede [256] (anche se la dottrina era sul punto divisa)[257], principio poi sancito a chiare lettere dal codice attuale (cfr. art. 459 c.c.).

Ciò significava che il rinunciante, nei cui confronti si verificava nient’altro che un’omissio acquirendi, in nessun momento poteva essere considerato come proprietario dei beni dell’asse (la rinuncia, in realtà, riguarderebbe la delazione, ma essa è ritenuta dalla dottrina priva di carattere patrimoniale).

Nel passaggio dell’istituto al codice del ’65, e di qui al codice attuale, è quindi mutato il contesto che aveva determinato la nascita dell’impugnazione in parola[258]. Sembra pertanto corretto privilegiare l’interpretazione che ne riduce il più possibile l’area di opponibilità ai terzi.

CAPITOLO III

Tutela della legittima e responsabilità del notaio

  1. La responsabilità del notaio nel ricevimento delle volontà testamentarie e successorie.

Il contratto d’opera intellettuale si può definire come un contratto nominato, di scambio, a prestazioni corrispettive, oneroso, ad esecuzione prolungata, avente per oggetto la prestazione di un’opera intellettuale che può consistere in un risultato obbiettivo (opus), in un comportamento tecnico, o in un servizio, dietro adeguato compenso, oggetto che viene realizzato mediante un’organizzazione di lavoro facente capo in via normale al debitore[259].

Il notaio, al quale venga richiesto di ricevere un atto, ha il dovere, prima di tutto, di indagare ed interpretare la volontà delle parti e, in secondo luogo, di verificare la possibilità concreta di realizzarla.

Egli dovrà valutare se, a tal fine, sia necessario impiegare uno schema negoziale tipico, scegliendo, fra gli archetipi predisposti dal legislatore, quello più idoneo a dar forma agli intendimenti espressi dalle parti, ovvero ricorrere a figure negoziali atipiche, che siano in grado di superare positivamente il vaglio di meritevolezza ex. Art. 1322 c.c.[260].

L’ambito della responsabilità civile del notaio, come noto, ha subito negli ultimi anni un cospicuo ampliamento[261].

Il fenomeno, determinato dalla progressiva valorizzazione della veste professionale nella quale il notaio esercita le sue competenze istituzionali, è coerente con il fatto che la sua funzione non è riducibile a quella di un recettore passivo delle dichiarazioni delle parti.

Al contrario, l’attività di certificazione appare sempre più strettamente connessa all’assolvimento della cosiddetta funzione di adeguamento[262]. L’intervento del notaio implica una partecipazione attiva e qualificata, volta ad assicurare che l’autonomia privata si esprima pienamente e in modo conforme all’ordinamento.

Per responsabilità civile del notaio[263] oggi si intende la responsabilità extracontrattuale insieme a quella contrattuale, risultando ormai definitivamente superata la tesi che, valorizzando la veste di pubblico ufficiale del professionista ed il suo ruolo di certificatore, negava potesse configurarsi un contratto d’opera con le parti degli atti e quindi escludeva a priori il ricorrere di una responsabilità per inadempimento[264].

La dottrina più attenta aveva peraltro ben presto preso a criticare quest’impostazione segnalando il contenuto comprensivo della funzione notarile, la quale non si esaurisce nella certificazione, ma si estende al controllo di legalità (c.d. adeguamento necessario della volontà delle parti alla legge) e poi alla consulenza finalizzata all’atto (c.d. adeguamento facoltativo)[265].  La giurisprudenza del resto da tempo prospetta una responsabilità di natura contrattuale del notaio nei confronti delle parti dei suoi atti, senza escludere[266] quella extracontrattuale nei confronti di terzi[267].

Tuttavia vi è chi al contrario sostiene che il fondamento dell’attività svolta dal notaio nei confronti del cliente, anche di quella più prettamente pubblicistica, si rinviene pur sempre in un contratto d’opera (art. 2222 c.c.)[268], in particolare, in un contratto d’opera intellettuale (art. 2230 c.c.) di natura professionale (art. 2229 c.c.)[269] , sia pure atipico o “sui generis”, in quanto integrato ex lege (art. 1374 c.c.) dagli obblighi attinenti alla funzione pubblica[270] .

Questo referente esclude il carattere extracontrattuale della responsabilità civile del notaio[271] e porta ad individuare il fondamento giuridico della responsabilità de qua nell’inadempimento o nell’inesatto adempimento delle obbligazioni scaturenti dal contratto d’opera professionale[272]: responsabilità di natura contrattuale, per violazione di una preesistente obbligazione, che, secondo l’interpretazione della formula dell’art. 1218 c.c., non deve necessariamente derivare da fonte negoziale[273] .

Peraltro occorre porre l’attenzione anche su un altro aspetto ovvero il dovere del notaio rogante di apprezzare la capacità naturale del testatore.

In primo luogo, secondo giurisprudenza consolidata[274], l’incapacità naturale del testatore postula l’esistenza non già di una semplice anomalia o alterazione delle facoltà psichiche ed intellettive del de cuius, bensì la prova che, a cagione di un’infermità transitoria o permanente, ovvero di altra causa perturbatrice, il soggetto sia stato privo in modo assoluto, al momento della redazione dell’atto di ultima volontà, della coscienza dei propri atti ovvero della capacità di autodeterminarsi. D’altro canto, come noto, la capacità costituisce la regola, mentre l’incapacità ha lo statuto proprio della situazione eccezionale, che in quanto tale deve essere rigorosamente provata.

Perché il notaio possa (e, sotto il profilo, eventuale, della sua responsabilità, “debba”) rifiutarsi di redigere il testamento, dunque, egli deve avere maturato l’intima convinzione della radicale impossibilità per il testatore di avere coscienza dei propri atti e della sua completa inattitudine a ogni determinazione cosciente e libera[275]. Non è sufficiente ad esimerlo dall’obbligo posto dall’art. 27, legge notarile, una pur grave condizione di sofferenza.

Non è allora irragionevole ritenere che, per lo più, questa gravissima condizione della persona sia apprezzabile da un soggetto sprovvisto delle necessarie conoscenze tecniche solo nei casi di manifestazioni eclatanti di assenza intellettuale e volitiva[276]: la stessa apparenza deve essere totalmente compromessa. Al pubblico ufficiale non può farsi carico di trascendere l’immediatezza della sua relazione con le facoltà intellettuali del testatore, e di farsi, per così dire, inquisitore implacabile della sua situazione clinica e della sua vicenda umana[277]. Tale diversa missione, tra l’altro scevra di profili inquisitori[278], compete all’autorità giudiziaria, e solo se essa sia investita della questione della validità del testamento da chi vi abbia interesse.

In secondo luogo, deve essere considerato che l’obbligo del notaio di prestare il suo ministero, in tema di rogazione mortis causa, soddisfa un diritto della persona di rilevanza costituzionale: la libera espressione dell’autonomia testamentaria. L’interesse pubblico sotteso all’obbligatorietà dell’intervento notarile ha poi una particolare pregnanza, perché la necessaria contingenza nella quale il notaio è chiamato a prestare la sua attività professionale assume non di rado il carattere dell’urgenza in relazione alle condizioni di salute di colui che richiede di fare testamento. L’interesse del disponente può essere soddisfatto (salva l’eventuale impugnazione del testamento) o per sempre disatteso. Ecco perché il momento è particolarmente delicato.

L’obbligo del pubblico ufficiale di rogare in materia testamentaria, in casi come quello deciso dal Tribunale di Voghera, si deve dunque misurare, oltre che con la sua ovvia incompetenza tecnica in materia di accertamenti clinici e psicologici, con la particolare urgenza della sua risposta. E si tratta di una risposta che egli soltanto può dare e della quale porta il peso, poiché il compito di indagare la volontà della parte e quindi, a monte, di valutarne la capacità naturale, spetta a lui solo.

Quanto più la situazione è connotata da elementi di urgenza, tanto più si fa emblematica la infungibilità assoluta della prestazione del notaio.

Nella fattispecie in questione, dalla sentenza emerge che il notaio era stato chiamato presso il de cuius, ricoverato in ospedale, perché questi ne raccogliesse le ultime volontà. Secondo quanto accertato dal Tribunale di Voghera, ritualmente interrogato, il testatore aveva risposto, sia pure in modo sintetico e sofferente, ed aveva indicato chiaramente la persona dell’erede prescelto. Il pubblico ufficiale aveva così maturato il convincimento che il testatore fosse ancora in possesso del discernimento necessario per poter validamente testare, e che pertanto egli avesse il dovere di procedere immediatamente alla rogazione dell’atto, anche alla luce delle gravi condizioni nelle quali versava il testatore.

Tenuto conto di quanto sopra osservato circa l’autonomia e la discrezionalità della valutazione notarile, in rapporto all’obbligo di prestare il ministero ed al peculiare atteggiarsi della capacità naturale ai fini delle disposizioni di ultima volontà, difficilmente il pubblico ufficiale avrebbe potuto rifiutare di rogare l’atto[279].

Infatti, secondo quanto si desume dalla lettura della sentenza, nella contingenza nella quale si trovava ad operare, non vi erano elementi suscettibili di consentire (e, quindi, di imporre) al notaio di concludere che il de cuius, pur affetto da un quadro clinico che lo avrebbe portato presumibilmente alla morte in tempi brevi, fosse assolutamente privo della facoltà di autodeterminarsi, poiché questi gli aveva offerto segni apprezzabili della sua presenza intellettuale.

Dunque nessun errore e nessuna negligenza in concreto potevano essere fondatamente imputati al professionista.

Ricostruendo correttamente il contenuto del dovere di diligenza in concreto ascrivibile al notaio, il Tribunale di Voghera ha osservato che la valutazione giudiziale di incapacità del testatore, nell’ambito del giudizio di impugnazione e secondo le finalità ad esso proprie, si era formata all’esito di accertamenti complessi ed approfonditi e, dunque, per il tramite di un’articolata fase istruttoria.

Nella situazione di urgenza dovuta alle condizioni critiche del de cuius, invece, non solo non sarebbe stato possibile attendere eventuali pareri di esperti[280], ma, a ben riflettere, ciò sarebbe stato addirittura precluso al pubblico ufficiale, tenuto a prestare il suo ministero.

Anzitutto, accertamenti approfonditi non sarebbero stati compatibili con il rischio di non poter raccogliere le ultime volontà del testatore per il sopraggiungere della morte, data la gravità delle sue condizioni.

D’altro canto, quand’anche, ad ulteriore conforto della sua percezione della presenza intellettuale e volitiva del testatore, e facendosi carico del rischio di tardare la rogazione, il notaio avesse avuto in concreto la possibilità di acquisire sommarie informazioni dai sanitari presenti nella struttura ospedaliera al momento del suo accesso, ed ipotizzando pure che il loro avviso fosse stato nel senso di una incapacità del paziente, ciò non avrebbe spostato, in termini gnoseologici e giuridici, i termini del dilemma notarile.

La valutazione ultima, infatti, sarebbe stata di esclusiva competenza e responsabilità del notaio[281]. A fronte di un soggetto capace secondo il suo apprezzamento “profano”, sarebbe bastato un avviso di segno contrario, pur proveniente da un tecnico, ma ugualmente contingente ed opinabile, per imporgli di non rogare l’atto? Oppure avrebbe forse dovuto protrarre l’attesa, sospendere le attività, tornare al nosocomio con un collegio di esperti di propria fiducia e provvedere solo dopo averne acquisto il parere favorevole? Ancora, se i pareri fossero stati due o più e di segno discordante, quale di essi avrebbe dovuto diligentemente[282] accreditare presso di sé? Al riguardo, non si può non tenere presente che il giudizio di impugnazione si era concluso con una valutazione di esito negativo, ma all’esito di accertamenti tecnici complessi e controversi, e a loro volta comunque naturalmente opinabili nelle loro conclusioni.

Se davvero tali fossero i possibili contenuti della diligentia quam in concreto esigibile in simili frangenti, il notaio finirebbe con il perdere l’autonomia della propria valutazione. Esposto al rischio di futuribili ed insondabili oneri risarcitori all’esito di accertamenti disposti in una vicenda processuale a lui estranea, egli non avrebbe la serenità di giudizio necessaria.

La sua funzione si troverebbe esposta ad una imponderabile responsabilità professionale, di assai dubbio fondamento secondo le stesse logiche che presiedono all’attribuzione della responsabilità civile e alla sua assicurazione[283].

Per tutte le ragioni esposte, l’affermazione secondo cui la posizione del notaio, perché questi possa soddisfare il preminente interesse pubblico di rogare ogni qualvolta ne sia richiesto, deve essere “indipendente e scevra da ogni ripercussione derivante dal giudizio di impugnazione del testamento”, appare pienamente condivisibile. Naturalmente, ciò non significa avallare una sorta di antistorica immunità notarile dal sindacato giurisdizionale, quanto piuttosto ricostruire in modo corretto i doveri che incombono al professionista in subiecta materia.

  1. La responsabilità del notaio nella redazione di progetti divisionali tra eredi

L’obiettivo che si prefigge il notaio è quello di giungere ad un regolamento di interessi che sia la sintesi perfetta delle opposte posizioni dei contraenti, in modo da evitare, quanto più possibile, eventuali asimmetrie contrattuali, frequenti, soprattutto, quando è differente la “forza” delle rispettive parti sostanziali del rapporto.

Uno degli aspetti interessanti in tema di responsabilità notarile attiene alla natura di tale responsabilità nei confronti di un soggetto che occupa una posizione intermedia tra la parte dell’atto che si stipula con l’intervento del notaio e la generalità dei terzi: il c.d. beneficiario figura dai contorni incerti, che raggruppa una pluralità di situazioni caratterizzate in punto di fatto dalla presenza di un interesse particolarmente qualificato al corretto svolgimento dell’opera notarile[284].

Nell’espressione beneficiario viene normalmente compresa una serie di soggetti che, pur se non parti del negozio formatosi presso il notaio, né parti del contratto di prestazione d’opera professionale[285], sono destinatari delle disposizioni in esso contenute: il terzo nel contratto a favore di terzo, l’erede ed il legatario istituiti per testamento pubblico, il proprietario a favore del quale il titolare di un diritto reale limitato abbia rinunciato al suo diritto[286] e, per alcuni autori[287], tutti coloro che abbiano un interesse meritevole e tutelato alla validità dell’atto.

Si deve però rilevare come la posizione di questi soggetti sia analoga, sotto il profilo in esame, a quella del donatario che accetti per atto di diverso notaio: questo soggetto, anche se parte del contratto di donazione, non può certamente essere ritenuto parte del contratto di prestazione d’opera professionale concluso con il primo professionista.

Volendo definire un criterio per individuare il richiamato concetto di beneficiario con maggiore precisione rispetto ai terzi in qualche modo titolari di un interesse strumentale alla corretta esecuzione della prestazione, sembra opportuno richiedere in negativo l’estraneità al contratto di prestazione d’opera professionale ed in positivo il fatto di essere il diretto ed immediato punto di incidenza degli effetti negoziali del negozio formatosi presso il notaio.

Il notaio che abbia, ad esempio, ricevuto un contratto di donazione, valido per forma e sostanza, il quale, dopo la morte del donante, venga impugnato dagli eredi legittimari di questo, a mezzo dell’azione di riduzione, non può ritenersi responsabile, ex art. 28 L.N., per aver stipulato un atto, a quel punto divenuto, inefficace.

Il vittorioso esperimento dell’azione di riduzione, infatti, comporta l’inefficacia ex tunc, nei confronti del legittimario istante, dell’atto dispositivo lesivo della quota di riserva, il quale si considera come se non fosse mai stato compiuto, con conseguente “ritorno” del bene, che ne ha formato oggetto, nella massa ereditaria.

Trattandosi di inefficacia sopravvenuta[288], non si può imputare al notaio il fatto di non aver preventivato tale avvenimento, visto che, il controllo che per legge gli compete, attiene esclusivamente alla compatibilità attuale dell’atto richiestogli con i dettami dell’ordinamento, non potendosi addossare al professionista anche il dovere di formulare un giudizio prognostico su quanto potrebbe accadere a seguito del rogito.

Tra l’altro, pur potendo il notaio avvertire il donante e il donatario che, qualora al tempo dell’apertura della successione del primo, il relictum non fosse capiente, essendo stata intaccata la porzione indisponibile del suo patrimonio, i legittimari potrebbero esperire l’azione di riduzione avverso la liberalità, non sarebbe, comunque, in grado di escludere o affermare con certezza o con un grado di probabilità elevato che tale circostanza possa effettivamente verificarsi.

Il calcolo della disponibile, infatti si effettua solo al momento della morte del donante ed è a quel punto che si dovrà verificare l’esistenza di legittimari e la rispondenza del quantum agli stessi devoluto con il quantum loro riservato dalla legge.

In tutti i casi evidenziati, è evidente che non si conclude un contratto tra i soggetti in questione ed il notaio: difetta il requisito essenziale dell’accordo, che non può intervenire[289]. È però opinione diffusa che anche nei confronti di questi soggetti il notaio risponda a titolo contrattuale e, d’altra parte, la posizione del beneficiario appare differente da quella di qualsiasi terzo che possa in qualche modo avere un interesse all’osservanza degli obblighi del notaio: l’interesse di questo soggetto all’esatto adempimento del contratto di prestazione d’opera professionale è particolarmente qualificato, perché coincide con l’interesse diretto ed immediato, proprio anche del cliente, a che l’attribuzione nei suoi confronti sia valida ed efficace[290].

Portato naturale dell’attività del pubblico ufficiale (il notaio) è quello di garantire, giusta la sua posizione di “terzietà” (art. 28, n. 3 L.N.), una sicurezza negoziale, in favore di ciascuna delle parti, adeguando, ove necessario, la volontà empirica espressa dalle stesse, alle prescrizioni dell’ordinamento.

Su questo tema si assiste in giurisprudenza ad una singolare divaricazione tra le numerose decisioni orientate ad affermare in via di principio, peraltro obiter, che la responsabilità notarile ha natura contrattuale anche nei confronti del beneficiario, ma per lo più restie a fornirne una giustificazione dogmatica[291], e le poche e non recenti sentenze che, dovendo effettivamente pronunciarsi su questo thema decidendum, sembrano preferire la tesi della responsabilità aquiliana[292].

In dottrina gran parte degli autori che si sono occupati del problema sostiene che la responsabilità notarile nei confronti del beneficiario abbia natura contrattuale[293], ma in prevalenza si limita a richiamare l’autorità di qualche giudicato della suprema Corte e non cerca di approfondirne l’inquadramento[294].

Considerando che con la qualificazione “contrattuale” si fa semplicemente riferimento ad un tipo di responsabilità che deriva dall’inadempimento di una preesistente obbligazione, si deve verificare se questa affermazione nelle fattispecie ipotizzate trovi fondamento in rapporto al sistema delle fonti delle obbligazioni.

Escludendo il fatto illecito, che porterebbe alla configurazione della responsabilità extracontrattuale, rimane in realtà da verificare se tale responsabilità possa trovare fondamento in un contratto od in un altro atto o fatto idoneo a produrla.

In riferimento a quest’ultima categoria di fonti, alcuni autori hanno individuato nella fattispecie in esame la presenza di un’obbligazione ex lege[295] ed hanno coerentemente attribuito natura contrattuale alla responsabilità discendente dalla relativa violazione.

Il fondamento di questa tesi viene individuato nella disposizione dell’art. 76 della legge notarile[296], secondo cui il notaio è tenuto al risarcimento “a norma di legge” dei danni derivanti dalla nullità dell’atto rogato.

La sanzione del risarcimento in favore del beneficiario sarebbe così “la conseguenza ordinaria della nullità imputabile al notaio, per cui il privato interesse, giuridicamente tutelato e pregiudicato dal colpevole comportamento del notaio, possa sempre trovare giusto ristoro”.

Si giunge così ad affermare che la norma dell’art. 76 abbia esteso il risarcimento ad ogni ipotesi in cui se ne possa ravvisare un fondamento legale.

Tale fondamento è individuato nella “congrua portata, e direzione dell’obbligo incombente al notaio che riceve il testamento”, la quale porta a ritenere l’obbligo stesso come sussistente anche nei confronti appunto del destinatario.

L’ordinamento, volendo tutelare tale soggetto, “intende che il notaio sia obbligato specificamente verso di lui” e questa posizione viene esplicitamente definita come obbligazione ex lege.

L’aspettativa del beneficiario è protetta nei confronti del notaio dall’imposizione allo stesso degli obblighi “sorgenti, in occasione del contratto, per diretta volontà della legge”[297].

In realtà il ricorso a questa categoria, peraltro criticata da autorevole dottrina[298], non sembra per taluni soddisfacente: in armonia con il sistema delle fonti delle obbligazioni delineato dal codice sembra preferibile un differente tentativo di ricostruire la fattispecie. Si può piuttosto verificare se l’attribuzione dei benefici derivanti dal contratto concluso mediante l’ufficio notarile ad un soggetto esterno al contratto di prestazione d’opera professionale, con correlativo sorgere di un interesse qualificato in capo a quest’ultimo, si combini con le specifiche disposizioni della legge notarile relative alla formazione dell’atto, comportando il sorgere di un’obbligazione che veda come debitore il notaio e come creditore il beneficiario.

Questa impostazione a prima vista potrebbe sembrare soddisfacente, in quanto attributiva al beneficiario di una diretta pretesa creditoria nei confronti del notaio, conseguentemente azionabile dallo stesso in nome proprio, ma in realtà presta il fianco ad un duplice ordine di critiche.

Dal punto di vista della giustificazione di diritto positivo resta da dimostrare che il meccanismo utilizzato possa operare nei termini suddetti: in questo caso si dovrebbe postulare l’estensione della qualità di parte del rapporto obbligatorio considerato anche in capo ad un ulteriore soggetto che non entra in diretta relazione con il presunto debitore, se non in via mediata e indiretta attraverso la designazione che ne faccia il cliente, ed al quale nessuna norma dell’ordinamento del notariato riserva una considerazione specifica che consenta di distinguere la sua posizione da quella di qualsiasi altro terzo.

L’estensione soggettiva della parte attiva del rapporto obbligatorio fino a comprendervi anche tale soggetto sembra nel caso in esame priva di fondamento normativo. Questa soluzione pecca inoltre per difetto, in quanto limiterebbe la tutela del beneficiario alle violazioni delle norme della legge notarile, mentre ne escluderebbe necessariamente l’operatività per tutte le ulteriori determinazioni che il rapporto cliente-notaio viene ad assumere se considerato nel suo contenuto complessivo.

In questa prospettiva il contratto di prestazione d’opera professionale resterebbe quindi nei confronti del beneficiario res inter alios acta, improduttivo in quanto tale di alcun effetto diretto nei suoi confronti[299], e la posizione di questo soggetto verrebbe ad avvicinarsi notevolmente a quella di qualunque terzo quanto alla concreta estensione che ne potrebbe dare[300]. Il vincolo notarile nei confronti del beneficiario resterebbe di natura obbligatoria ma si limiterebbe sotto il profilo oggettivo a quanto previsto dalla legge notarile, con conseguente esclusione di ogni pretesa relativa agli obblighi inerenti all’attività di adeguamento facoltativo e richiesti dalla portata che, specie nell’elaborazione giurisprudenziale, viene ad assumere la diligenza professionale imposta dall’art. 1176, c.p.v., c.c.

Sembra quindi opportuno verificare se sia individuabile un differente schema per riferire al titolo contrattuale la responsabilità del notaio nei confronti del beneficiario. Si deve così affrontare, limitandone necessariamente la trattazione alle esigenze della presente analisi, il problema della rilevanza esterna dell’atto di autonomia.

Si deve escludere, come accennato in precedenza, che un contratto si formi direttamente tra il notaio e il beneficiario: è evidente la mancanza di un accordo, sia pure implicito o per fatti concludenti[301].

Occorre invece valutare se il contratto di prestazione d’opera professionale esplichi effetti nei confronti del beneficiario in rapporto alle due ipotesi in cui un contratto può appunto produrre direttamente effetto nei confronti di soggetti diversi dalle parti: la fattispecie regolata dagli artt. 1411 ss. c.c. ed una categoria di contratti che dottrina e giurisprudenza hanno riconosciuto esistente nell’ordinamento italiano, cioè quella del contratto con effetti protettivi a favore del terzo[302].

Ebbene quando un soggetto si rivolge al notaio per compiere un’attribuzione patrimoniale nei confronti di un altro, vuole ovviamente che questa sia valida ed efficace.

Si può allora ritenere che questa volontà, ben nota al professionista e tale da aver indotto il cliente a richiedere la sua opera, si trasferisca nel contenuto di un’obbligazione che ha come soggetto attivo, oltre al cliente, il beneficiario. Questo effetto potrebbe essere prodotto da un contratto a favore di terzo, ma non sembra che questa figura sia in realtà suscettibile di essere utilizzata riguardo alla fattispecie in esame, quantomeno nella generalità dei casi. Essa appare difficilmente invocabile persino quando il beneficiario sia tale in forza di un autonomo contratto a favore di terzo stipulato con l’intervento del notaio.

In questo caso al diritto principale acquistato in forza del contratto stesso accederebbe un ulteriore diritto, oggetto di una corrispondente obbligazione che vede il professionista come promittente e lo stipulante del contratto principale mantenere tale veste, a che il notaio osservi tutte le regole che la diligenza professionale gli impone.

Si dovrebbe pertanto concludere per l’esistenza di una specifica ed autonoma stipulazione a favore di terzo accessoria al contratto di prestazione d’opera professionale.

Ad essa si dovrebbe però estendere l’intera normativa in tema di contratto a favore di terzo, non esclusa la revocabilità ad nutum da parte dello stipulante finché il terzo non abbia dichiarato, anche nei confronti del notaio-promittente, di volerne profittare.

Una simile revocabilità, non eliminabile ove si ritenesse di utilizzare questo schema, sembra ripugnare alla logica della volontà negoziale: si dovrebbe ipotizzare che il cliente compia un’attribuzione in favore del terzo, sapendo, e qui risiede la prima pecca di una simile ricostruzione, di attribuirgli altresì un’ulteriore diritto, autonomamente azionabile, al rispetto del contratto da lui concluso con il notaio, ma potendo in ogni momento revocare quest’ultima attribuzione e solo questa, lasciando in vita per il resto l’attribuzione principale.

Tale stipulazione accessoria dovrebbe infatti considerarsi in ogni caso assolutamente autonoma e distinta rispetto a quella relativa al contratto principale, attesa la diversità della prestazione dedotta e soprattutto della persona del promittente (che in questo caso sarebbe il notaio).

Inoltre, per poter ravvisare sussistenti tutti gli estremi costitutivi del contratto a favore di terzo, occorrerebbe che il notaio ed il cliente abbiano voluto attribuire ad un ulteriore soggetto il diritto a pretendere l’osservanza del contratto di prestazione d’opera professionale, il che nel caso appare quantomeno dubbio. Occorre allora verificare la possibilità di ricondurre la fattispecie all’altro schema indicato precedentemente. Si parla di “contratto con effetti protettivi a favore di terzi” nel caso in cui sia ravvisabile, come nascente dal contratto accanto al diritto alla prestazione principale, un ulteriore ed accessorio diritto a che non siano arrecati danni a determinati terzi, individuati nell’ambito di coloro la cui sfera giuridica è in qualche modo soggetta all’ingerenza dell’atto di autonomia altrui e che sono generalmente legati al creditore della prestazione principale da una relazione che li pone in stretto contatto con l’operazione contrattuale[303].

Ciò che ulteriormente caratterizza questa figura è il fatto che, in caso di inadempimento della prestazione accessoria, sarà legittimato ad agire anche il terzo così individuato.

Nella tipologia contrattuale in esame l’esigenza di protezione e la diretta azionabilità da parte del terzo delle pretese che ne derivano sembrano però presentare caratteri che le distinguono nettamente dalla posizione propria del beneficiario dell’atto.

Gli effetti protettivi che individuano la categoria si esplicano infatti nel caso in cui la sfera giuridica del terzo sia posta in pericolo dall’operazione contrattuale, sotto il profilo personale o patrimoniale, e d’altra parte ciò emerge chiaramente dalle caratteristiche delle fattispecie sotto tale aspetto considerate dalla dottrina e dalla giurisprudenza: si trattava in un caso della famiglia del portiere di uno stabile, che aveva risentito danni alla salute a causa delle condizioni malsane dell’alloggio che era stato assegnato al portiere stesso in esecuzione del contratto di portierato[304]; nell’altro caso dei danni riportati da un soggetto nato menomato a causa della negligente esecuzione del contratto di assistenza sanitaria al parto stipulato tra un ente ospedaliero e la di lui madre[305]. Qui, gli effetti protettivi derivano dal contratto in conseguenza dell’ingerenza che lo stesso potenzialmente esercita nei confronti di interessi meritevoli di tutela di soggetti che rimangono terzi sotto ogni altro profilo. Il comportamento dunque a cui il notaio è tenuto non consiste nell’astenersi dal danneggiare una preesistente situazione (la salute o il patrimonio), ma nell’operare diligentemente affinché si possa realizzare un incremento patrimoniale in favore del beneficiario.

Le considerazioni sin qui svolte inducono ad escludere che possa essere ravvisato un fondamento di diritto positivo per la ipotizzata responsabilità contrattuale del notaio nei confronti del beneficiario.

Non si deve dimenticare che il principio della relatività e del valore inter partes della regola contrattuale, codificato nell’art. 1372 c.c., impedisce che il contratto produca effetto nei confronti dei terzi in assenza di una disposizione normativa in tal senso.

Le recenti elaborazioni dottrinali sul punto attengono ad ipotesi di negozi incrementativi dell’altrui patrimonio, di cui si afferma la validità purché il beneficio sia rifiutabile[306]; ma neanche tali elaborazioni prevedono l’ammissibilità della costituzione in capo ad un terzo di un ulteriore diritto derivante da un atto di disposizione nei suoi confronti avente oggetto ed intercorrente tra soggetti diversi. Responsabilità contrattuale significa anche autonoma azionabilità delle relative pretese per ottenere l’adempimento, il che implicherebbe l’ingerenza del beneficiario in un rapporto costituito da altri soggetti senza che gli stessi l’abbiano prevista. Nemmeno sembra invocabile l’integrazione del contenuto del contratto ad opera di fonti eteronome: si tratterebbe nel caso in esame delle norme, contenute prevalentemente nella legge notarile, che impongono al notaio una precisa serie di obblighi attinenti al procedimento di formazione dell’atto, i quali costituiscono oggetto di altrettante obbligazioni, ma solo nei confronti del cliente.

In altre parole, la peculiarità della posizione del beneficiario rileva in punto di fatto, ma non si rinvengono indici normativi che consentano di attribuirvi una diretta e corrispondente rilevanza giuridica sotto il profilo di una ipotetica responsabilità contrattuale.

Tale conclusione non implica però un’automatica negazione della peculiarità nell’ipotesi considerata della posizione del beneficiario, né una diminuzione della relativa tutela.

Dunque che esista un interesse del beneficiario non sembra discutibile; occorre allora verificare se questo interesse, pur non direttamente contemplato, trovi comunque protezione nell’ordinamento giuridico, così da connotare il danno derivante dalla sua lesione come ingiusto e quindi fonte di responsabilità aquiliana. Il referente normativo in materia è offerto in primo luogo dalla l. 16 febbraio 1913, n. 89, che regola l’attività certificatrice del notaio, indicandone le modalità di svolgimento e fissando gli adempimenti necessari ad attribuire pubblica fede all’atto rogato ed in alcuni casi anche a garantirne di validità[307].

L’interesse del beneficiario trova qui riconoscimento e tutela: il danno derivante dalla perdita o dal mancato acquisto di un diritto, se causalmente collegati alla violazione di tali disposizioni, non può che ritenersi ingiusto, a pena di fraintendere la ratio e svuotare la portata precettiva di dette disposizioni proprio in relazione alle ipotesi in cui esse dovrebbero operare. È la considerazione che queste norme rivolgono all’operazione negoziale che si realizza con l’intervento notarile a rivestire di rilevanza giuridica, sotto il profilo della meritevolezza di tutela, l’interesse del beneficiario e conseguentemente ad aprire la via alla sanzione della sua lesione. Analoga rilevanza può essere attribuita alle disposizioni, contenute in altre leggi, che fissano determinati adempimenti formali a pena di nullità[308].

Le ipotesi sin qui considerate coprono l’area dell’attività certificatrice del notaio, quella direttamente disciplinata dall’ordinamento del notariato. Se ci si limitasse a questo profilo, verrebbe però esclusa la risarcibilità dei danni derivanti dall’inadempimento ricollegabile all’altra attività notarile, quella di “documentazione intrinseca”[309] (o di adeguamento facoltativo), imposta dall’art. 47 ult. cpv. della legge notarile.

L’ingiustizia del danno consiste allora nell’interruzione della sequenza che, se si fosse completata, avrebbe portato all’acquisto di un diritto[310].

Per questa via si conferma anche la derivazione della posizione del beneficiario da quella della parte: nessuna responsabilità potrà infatti essere invocata per gli adempimenti dalla cui esecuzione il cliente abbia voluto esonerare il notaio, non potendo il beneficiario ottenere una tutela maggiore di quella che spetterebbe al suo dante causa, dato che la protezione che l’ordinamento attribuisce al suo interesse si modella, quanto all’ampiezza, direttamente su quella accordata alla parte.

Utilizzare questo schema interpretativo consente dunque di stabilire con certezza i limiti della tutela invocabile in entrambi i casi, raggiungendo così risultati pressoché identici a quelli dell’impostazione criticata, anche sotto il profilo della quantificazione del danno e dell’imputabilità del professionista.

Per quanto riguarda il primo aspetto, il danno risarcibile sarà infatti comprensivo del danno emergente (consistente nel mancato acquisto del diritto) e del lucro cessante (comprensivo del profitto che se ne sarebbe potuto trarre), corrispondendo pertanto nel quantum all’interesse contrattuale positivo.

Quanto alla limitazione della responsabilità contrattuale ai soli casi di dolo o colpa grave, di cui gode il professionista chiamato ad affrontare problemi tecnici “di speciale difficoltà” (art. 2236 c.c.), il risultato pratico non cambia anche aderendo all’impostazione proposta.

Ciò non solo per la già richiamata derivazione della posizione del beneficiario da quella del cliente in materia di attività di adeguamento facoltativo (che è l’ambito di elezione delle questioni di elevata difficoltà), ma anche per l’ormai riconosciuta applicabilità dell’art. 2236 c.c. anche alla responsabilità extracontrattuale del professionista[311].

  1. La responsabilità del notaio nella redazione dei patti di famiglia

Il Notaio, come tutti i soggetti rientranti nella disciplina dell’ordinamento giuridico vivente, è soggetto a responsabilità civile per i danni di cui sia causa.

Ai sensi dell’art. 76 L.N.: “quando l’atto sia nullo per causa imputabile al notaro, o la spedizione della copia dell’estratto o del certificato non faccia fede per essere irregolare, non sarà dovuto alcun onorario, diritto o rimborso di spese. Negli accennati casi, oltre al risarcimento dei danni a norma di legge, il notaro deve rimborsare le parti delle somme che gli fossero state pagate”.

Si discute sulla natura giuridica della responsabilità civile del Notaio. “La maggior parte delle tesi prospettate dalla dottrina si possono raggruppare in due gruppi: al primo gruppo appartengono coloro che affermano sussistere a carico del notaio, oltre ad una responsabilità contrattuale, nei confronti delle parti, anche una responsabilità extracontrattuale o aquiliana o ex lege anche verso i terzi, mentre fanno capo al secondo coloro che propendono per la sola responsabilità contrattuale”[312].

Scriveva il notaio Zaraga che “altri ammettono, a lato della responsabilità contrattuale, anche una responsabilità ex lege da parte del notaio nei confronti di chi, non avendo avuto rapporti contrattuali con lui, è ugualmente destinatario degli effetti dell’atto, e ciò perché l’ufficio specifico del notaio comprende l’obbligo di curare che la volontà innanzi ad esso dichiarata possa essere produttiva di effetti giuridici verso tutti i soggetti che quella volontà direttamente concerne”[313].

È accaduto, per esempio, che il Tribunale di Roma, 6 febbraio 1993, condannasse un Notaio, riconoscendone la responsabilità contrattuale, per aver omesso di identificare la controparte in un contratto, ricorrendo per esempio a due fidefacienti, come pure è previsto dalla L.N., piuttosto che basarsi, come fece il Notaio, sulla mera esibizione di un documento d’identità[314].

Il nuovo contratto, introdotto nel codice civile dalla Legge 14 febbraio 2006, n. 55 inserendo dopo l’art. 768 sette nuovi articoli (dal bis all’octies), rappresenta innanzitutto un’eccezione al divieto di patti successori, stabilito dall’art. 458 c.c., al cui testo è stato premesso l’inciso “Fatto salvo quanto disposto dagli artt. 768-bis e seguenti.” Ci troviamo di fronte ad una normativa eccezionale e non speciale, in quanto deroga norme generali quali l’art. 458 citato e gli artt. 553 ss. (azione di riduzione) e 737 ss. (collazione), con tutte le relative conseguenze in tema di interpretazione analogica.

Il patto di famiglia viene definito dal legislatore, all’art. 768-bis, come il “contratto” con cui l’imprenditore trasferisce, in tutto o in parte, l’azienda ed il titolare di partecipazioni societarie trasferisce, in tutto o in parte, le proprie quote ad uno o più discendenti. Ne risulta quindi escluso il professionista, che intenda lasciare il proprio studio al figlio o al nipote ex filio che segue le sue orme.

I soggetti del contratto sono l’imprenditore ed uno o più discendenti, e bisogna leggere ancora due articoli, essendo l’art. 768-ter intitolato alla forma, per scoprire che al contratto “devono partecipare” anche il coniuge e tutti coloro che sarebbero legittimari ove in quel momento si aprisse la successione del patrimonio dell’imprenditore, vale a dire quei soggetti che vantino, al momento, un’aspettativa ereditaria come legittimari.

L’obbligo di partecipazione sembra perciò inderogabile, in quanto da esso discende la certezza del patto di famiglia, nel senso che la valutazione dell’azienda e la conseguente quantificazione della quota di legittima da liquidare ai non assegnatari devono essere approvate contestualmente, anche se la liquidazione può essere consensualmente differita.

Trattandosi di contratto, le norme sulla rappresentanza (art. 1387 ss.) dovrebbero essere applicabili, salvo il problema della forma della procura, che dovrà essere la medesima prevista per il patto di famiglia (atto pubblico). Se, invece, un legittimario non volesse presenziare all’atto, potrà il notaio rogante redigerlo senza incorrere nella sanzione di cui all’art. 28 della legge notarile, magari condizionandolo alla successiva accettazione, in analogia a quanto avviene per l’esercizio del diritto di opzione nei verbali assembleari[315]. Inoltre, sarà possibile, una volta identificato il valore da attribuire alla quota del legittimario ostile, effettuare il deposito della relativa somma ai sensi e per gli effetti della disciplina sull’offerta reale (art. 1209 ss.) con effetto liberatorio per il discendente che ha ricevuto l’azienda.

La considerazione rende ragione della necessità, sopra evidenziata, di un’expressio finis, sulla base di un giudizio che non può essere demandato se non (in prima istanza) al pubblico ufficiale che redige l’atto[316] e, in ultima analisi, in caso di contestazione, al giudice.

Con il patto di famiglia la quota di legittima pre-liquidata inter vivos non può essere computata al momento dell’apertura della successione, né se nel frattempo l’impresa ha avuto incrementi di valore anche notevoli, può essere chiesto un supplemento alla quota di legittima già percepita (liquidata dice il legislatore all’art. 788-quater, comma 2).

La quota cui avrà diritto il legittimario sarà infatti parziale, nel senso che riguarderà tutti gli altri beni facenti parte del patrimonio dell’imprenditore defunto ad eccezione dell’azienda, i cui conguagli sulla sua attribuzione sono già stati liquidati col patto di famiglia. Non è pertanto ipotizzabile una richiesta di supplemento di legittima, mentre è disciplinata una liquidazione retroattiva, con tanto di interessi legali, per quei legittimari che non hanno partecipato alla simulazione di successione.

L’art. 768-ter prescrive che il contratto debba essere concluso per atto pubblico a pena di nullità[317].

L’art. 12, comma 1, lett. c) della legge 28 novembre 2005, n. 246, ha sostituito l’art. 48 della legge notarile 18 febbraio 1913, n. 89, con il seguente: “Oltre che in altri casi previsti per legge è necessaria la presenza di due testimoni per gli atti di donazione, per le convenzioni matrimoniali e le loro modificazioni e per le dichiarazioni di scelta del regime di separazione dei beni nonché qualora anche una sola delle parti non sappia o non possa leggere e scrivere ovvero una parte o il notaio ne richieda la presenza. Il notaio deve fare espressa menzione della presenza dei testimoni in principio dell’atto”.

  1. Prospettive de iure condendo e orientamenti giurisprudenziali più recenti

Il peso di una tradizione quasi secolare investe di importanti riflessioni il tema di prestazione di attività intellettuale. L’origine “liberale” delle professioni, l’indipendenza e la discrezionalità che costituiscono un connotato costante dell’attività professionale, “l’autorità culturale” dell’uomo di scienza, in sintesi l’idealizzazione della figura del professionista rappresenta il filtro più o meno cosciente, ma quasi sempre costante che ha accompagnato nel corso del tempo, le scelte legislative, l’elaborazione dottrinale, le decisioni giurisprudenziali. Attraverso la retorica della “missione sociale”, dell’attività disinteressata del professionista si è venuto via via a consolidare una sorta di privilegio per l’intero ceto professionale, che trova ancora oggi i suoi riscontri nella normativa del codice civile e nella interpretazione ad essa data, ma che sembra non essere giustificato dall’attuale realtà[318].

Il notaio,  dunque come un qualunque altro professionista intellettuale (artt. 2229 ss. c.c.), è un “debitore di mezzi”, e in quanto tale non è obbligato a conseguire l’obiettivo economico che il cliente-creditore si è imposto, ma è obbligato soltanto ad una condotta diretta ed idonea a conseguirlo[319]. Il professionista, dunque, deve predisporre i mezzi di cui dispone, impegnando la diligenza ordinaria media rapportata alla natura della prestazione.

Per decretare se il notaio sia venuto meno alla sua obbligazione si utilizza sempre la disciplina del diritto comune.

Ai sensi dell’art. 28 L.N., al notaio è fatto divieto di ricevere atti che siano “espressamente proibiti dalla legge o manifestatamene contrari al buon costume o all’ordine pubblico”.

Questa espressione ha creato forti contrasti interpretativi, che sono stati oggetto di una bibliografia pressoché sterminata e di ampio materiale giurisprudenziale[320].

Lo studio delle varie posizioni si rileva un importante contributo per delineare non solo la funzione stessa del notaio, ma soprattutto i limiti della sua responsabilità. Ad esempio concludere per l’estensione o meno dell’articolo 28 n. 1 L.N. agli atti annullabili accanto agli atti nulli, significa diminuire o dilatare la responsabilità del notaio.

L’interpretazione della suddetta disposizione è tutt’altro che pacifica, sebbene la giurisprudenza di legittimità pare, negli ultimi tempi, attestata su una posizione ben precisa, contribuendo, in tal modo, a delineare la portata applicativa della relativa norma[321].

La discorde interpretazione della volontà del legislatore speciale del 1913 nasce da due modi differenti di leggere e spiegare gli avverbi “espressamente” e “manifestatamene”, utilizzati dalla citata disposizione.

Aderire all’una o all’altra lettura significa allargare o restringere l’ambito di responsabilità del notaio, ponendo l’accento, ora sulla sua qualità di “pubblico ufficiale” e la sua funzione di garante della certezza del diritto, ora sulla sua qualità di privato “professionista”.

La questione coinvolge, inevitabilmente, la norma di cui all’art. 27 L.N., poiché, dilatando la portata applicativa dell’art. 28, n. 1 L.N., aumentano le possibilità per il notaio, onde non incorrere nella relativa responsabilità, di negare la propria prestazione professionale, senza temere ripercussione alcuna, ma invocando, semplicemente, il predetto art. 28 L.N.

La responsabilità civile del notaio si inquadra, secondo la giurisprudenza della Suprema Corte[322], nella tipica responsabilità contrattuale per dolo e per colpa dei professionisti nei confronti delle parti clienti.

Alcuni autori[323], considerando il rapporto con il cliente come l’aspetto principale dell’attività notarile, affermano il carattere meramente ed esclusivamente contrattuale della responsabilità del notaio, la quale si esaurisce, secondo tale visione, nell’ambito dei rapporti con le parti richiedenti il ministero notarile. Nei confronti dei terzi non è configurabile, invece, alcun tipo di responsabilità. Solo con le parti, infatti, argomentano i sostenitori, il notaio instaura un rapporto contrattuale. In base a tale rapporto il professionista deve redigere un atto per far sorgere un altro rapporto giuridico nel quale lo stesso cliente assume la posizione di soggetto. Questi due rapporti sono strettamente collegati tra loro, l’uno è finalizzato all’altro. Pertanto possono essere parti del rapporto notaio-cliente, solo il notaio e i soggetti del rogito. Ne consegue che il notaio, nell’esercizio della sua funzione, deve risarcire solo il danno di colui con il quale ha un rapporto giuridico, ossia il cliente, mentre non risponde mai verso il terzo estraneo al rogito. Infatti, l’eventuale interesse del terzo all’esatto adempimento del notaio, non è un interesse giuridicamente tutelato, poiché pur in presenza di un nesso di causalità[324], mancherebbe l’ingiustizia del danno[325].

Siffatta soluzione viene considerata superata in quanto si basa su una vecchia concezione della responsabilità extracontrattuale, secondo la quale esiste un danno ex art. 2043 c.c. solo in presenza della lesione di un diritto soggettivo assoluto. La moderna nozione di “danno ingiusto”[326], invece, comprende anche il pregiudizio ad un interesse meritevole di protezione, anche se non assurga al rango di diritto soggettivo assoluto, e consente di risarcire, ex art. 2043, anche gli interessi dei terzi lesi da un atto notarile a cui essi non hanno partecipato.

Inoltre, rifiutando a questi ultimi il risarcimento ex art. 2043 c.c., si verificherebbe una disparità di trattamento, peraltro contraria al principio espresso dall’art. 3 Cost., tra i partecipi all’atto e i terzi danneggiati dall’inosservanza delle norme imposte al notaio.

Egli, infatti, nell’adempimento delle sue funzioni, deve predisporre ed impegnare tutti i mezzi necessari per assicurare il conseguimento del risultato voluto dalle parti usando la diligenza media del professionista sufficientemente preparato ed avveduto perché la sua opera non può ridursi a quella di un passivo registratore delle dichiarazioni altrui, ma deve estendersi ad una attività preparatoria adeguata[327].

La delicata indagine sulla eventuale colpa del notaio deve tener conto del fatto che il notaio non è soltanto un libero professionista che, quindi, risponde secondo le norme del Codice Civile che disciplinano i rapporti di prestazione di opera intellettuale, ma è anche e soprattutto investito di un pubblico ufficio e, di conseguenza, risponde principalmente in base alle norme speciali dell’ordinamento notarile[328].

Passando all’analisi dell’art. 28 Legge n. 89/1913, le interpretazioni proposte dalla dottrina e dalla giurisprudenza[329] portano, da un lato, ad estendere l’ambito del relativo divieto sino a ricomprendere tutti gli atti che, per qualsiasi motivo, non siano oggettivamente idonei a produrre gli effetti giuridici ad essi collegati, pertanto, non solo atti nulli ma, altresì, atti inefficaci e/o annullabili[330].

La Suprema Corte ha ripetuto infinite volte, con identiche parole, che la locuzione “atti espressamente proibiti dalla legge” ex art 28 n.1 L.N., deve essere riferita “non solo agli atti vietati singolarmente e specificamente dalla legge[331] ma altresì a tutti gli altri atti comunque contrari a disposizioni cogenti della legge, ossia non aderenti alla normativa legale, di ordine formale e sostanziale, per essi prevista a pena di inesistenza, nullità o annullabilità”[332]. Ha ritenuto, invece, (ed è questo un punto tuttora pacifico sia in giurisprudenza che in dottrina) non ricomprese nell’articolo 28 n. 1 L.N. le varie ipotesi di potenziale inefficacia dell’atto, come la revocabilità, la risolubilità, la rescindibilità[333].

Detto principio conduce a ritenere che, anche la violazione dell’art. 54 reg. not. (R.D. 10 settembre 1914, n. 1326), il quale vieta al notaio di rogare atti nei quali intervengano persone che non siano assistite o autorizzate nei modi di legge, pur non dando luogo ad un caso di nullità, sia sanzionabile ex. art. 138 L.N., in quanto urta contro il divieto di cui all’art. 28 L.N.

Ciò porta ad allargare il ventaglio delle ipotesi in cui il notaio può astenersi dal prestare il suo ministero, trovando il dovere di rogare, di cui all’art. 27 L.N., un limite ben preciso nel divieto di ricevere, previsto all’art. 28 L.N.[334].

Dall’altro lato, sposando l’orientamento opposto, che restringe il raggio di operatività della norma alle sole fattispecie di nullità e che, attualmente, risulta prevalente, il notaio non potrebbe rifiutarsi di ricevere un atto che non sia irrimediabilmente nullo, senza incorrere nella violazione di cui all’art. 27 L.N. e, conseguentemente, nella sanzione prevista ex art. 138 della medesima Legge[335].

In tal caso, tuttavia, è indiscusso l’obbligo professionale del notaio di rendere edotte le parti dei profili di annullabilità o di inefficacia dell’atto stipulando e, ove trascuri tale dovere, egli risulterà passibile delle sanzioni dell’avvertimento o della censura, di cui all’art. 136 L.N., cioè di quelle sanzioni che non sono irrogate per violazioni specifiche, ma, genericamente, per le mancanze ai propri doveri professionali.

Quando la vertenza non riguarda i rapporti con i clienti, nei confronti dei quali la responsabilità è, secondo l’opinione prevalente, di natura contrattuale, il notaio può essere chiamato a rispondere ex art. 2043 c.c.[336].

Vengono in rilievo così, sotto il profilo aquiliano, sia l’erroneo inserimento di una tratta nell’elenco dei protesti da rendere pubblici[337], sia le conseguenze dell’omesso accertamento circa l’identità del presentatore di un titolo di credito[338]. La responsabilità non sussiste quando il protesto erroneo sia stato elevato in base ai dati forniti dalla banca[339], o quando la formulazione del titolo era tale da far confondere il trattario non accettante con l’emittente[340] o, ancora, quando non sia stata raggiunta la prova intorno al danno concretamente derivante dal protesto[341]. L’azione viene, a volte, intentata dall’erede, il quale lamenta di aver subito un pregiudizio dalla mancata o erronea redazione di un testamento[342], oppure a causa della sua nullità[343] o, ancora, per il fatto di essere decaduto dal beneficio dell’inventario in seguito all’inadempimento dell’incarico da parte del notaio[344].

A ben vedere, occorre essere accorti nel circoscrivere i confini delle disposizioni, giacchè, a mente dell’art. 138 L.N. “è punito con la sospendine da sei mesi ad un anno il notaro che contravviene alle disposizioni degli articoli 27, 28, …”.

Le sanzioni per i notai che mancano ai propri doveri sono, in ordine crescente di gravità, le seguenti: l’avvertimento, la censura, l’ammenda, la sospensione e la destituzione.

A queste va aggiunta una misura interdittiva temporanea denominata inabilitazione che consiste nel divieto provvisorio di esercitare la professione notarile e che viene comminata nei casi più gravi, in via cautelare, in attesa della definizione del giudizio.

L’avvertimento consiste in un rimprovero al notaio per la mancanza commessa, mentre la censura è una dichiarazione formale di biasimo per la mancanza commessa.

Queste due sanzioni minori sono di competenza dei Consigli notarili e sono inflitte nei casi più lievi quando il notaio compromette la sua dignità ed il prestigio della classe notarile o quando faccia illecita concorrenza con comportamenti contrari al decoro professionale.

In queste ipotesi le legge attribuisce al Consiglio un ampio margine di discrezionalità da esercitarsi secondo le peculiarità dei singoli casi e secondo il richiamato codice deontologico.

Le altre sanzioni più gravi presuppongono la specifica violazione di espressi divieti, puntualmente indicati nelle varie disposizioni della legge notarile, e sono irrogate in prima istanza dal Tribunale civile competente per territorio.

Senza considerare, poi, il fatto che l’art. 76 L.N. prescrive che, ove l’atto risulti essere nullo per causa imputabile al notaio, non solo non è dovuto alcun onorario, diritto o rimborso, ma il notaio stesso è tenuto al risarcimento del danno, in base ai principi generali sulla responsabilità del professionista e dovrà rimborsare le parti delle somme che gli siano state, eventualmente, pagate.

Il notaio che rifiuti indebitamente la propria prestazione, in violazione dell’art. 27 L.N. o che riceva un atto “proibito”, in spregio del divieto di cui all’art. 28 L.N., compie un illecito, passibile della medesima sanzione della sospensione[345].

Egli, inoltre, sia negando il suo ministero senza giusta causa, che prestandolo ove gli era, invece, vietato, potrà incorrere in responsabilità civile e, nei casi più gravi, in responsabilità penale.

Notaio, infine, nell’esercizio della sua funzione documentale e certificativa a tutela della pubblica fede, è penalmente responsabile per i delitti di falso materiale ed ideologico in quanto commessi da un pubblico ufficiale, che costituiscono le tipiche ipotesi di responsabilità penale atteso che ne ricorrono i presupposti in relazione alla normali attività notarili della autenticazione delle firme e della redazione degli atti pubblici.

L’indagine interpretativa verte, pertanto, sull’individuazione dell’esatto “perimetro” di applicazione dell’art. 28 L.N. e coinvolge anche la fattispecie di cui all’art. 54 reg. not.

Dopo un graduale percorso, i risultati in detta indagine conducono, oggi, a preferire una lettura restrittiva della norma, fatta propria dalla Suprema Corte che ha, definitivamente, abbandonato le precedenti posizioni.

Ma il dibattito dottrinale e giurisprudenziale intorno all’art. 28 L.N. è ancora particolarmente acceso, poiché, se da un lato la dottrina pare aver accettato il presupposto per cui gli atti “proibiti” ex art. 28, sono gli atti nulli, dall’altro, non v’è concordia di opinioni sulla determinazione delle ipotesi di nullità rilevante per l’applicazione della disposizione in parola.

A fronte di coloro i quali ritengono che ogni fattispecie di nullità sia, di per sé, idonea ad integrare gli estremi di una responsabilità del notaio, vi è chi distingue tra i vizi che danno adito a nullità, ritenendo rilevante, ora, la sola ipotesi di illiceità del contratto[346], ora, i soli vizi di natura sostanziale, considerando dubbia la possibilità di applicare l’art. 28 L.N. anche alle ipotesi di nullità formale[347].

Si discute, inoltre, se la proibizione dell’atto, di cui all’art. 28, debba risultare da un’espressa e specifica disposizione di legge o possa desumersi in via interpretativa e, eventualmente, costituire il risultato di un’elaborazione dottrinale e/io giurisprudenziale consolidata.

È da escludere a priori, quant’anche si aderisse ad una lettura lata della disposizione di legge notarile, una responsabilità del notaio nell’ipotesi di inefficacia sopravvenuta dell’atto rogato.

Le pronunce più autorevoli della Cassazione[348] affermano costantemente l’estensione del divieto posto dall’art. 28 L.N. anche agli atti annullabili e addirittura a quelli inefficaci, sebbene non invalidi, ritenendo sanzionabile, a norma dell’art. 138 L.N., il notaio che avesse ricevuto atti affetti da tali forme di patologia negoziale.

L’inciso “atti espressamente proibiti dalla legge” viene interpretato, in questo ciclo di sentenze, in senso lato, ricomprendendo nel novero degli atti “ricusabili” che, vale a dire, il notaio avrebbe dovuto rifiutarsi di ricevere, tutti gli atti contrari a disposizioni cogenti, ossia non aderenti alla normativa legale, di ordine formale o sostanziale, per essi prevista a pena di inesistenza, nullità o annullabilità[349].

Tele tesi poggia, soprattutto, sull’esaltazione della funzione pubblica di cui è investito il notaio, il quale non è un semplice professionista, ma è un “ministro di legge”[350].

L’art. 1 L.N. riconosce al notaio il compito di attribuire agli atti, da lui ricevuti, “pubblica fede”.

I negozi da lui stipulati sono assistiti dalla presunzione di legalità ed efficacia e fanno piena prova fino a querela di falso (art. 2700 c.c.)[351].

Il notaio, nella sua qualità di pubblico ufficiale, ha l’obbligo di operare nel pieno rispetto delle legalità e in modo da garantire la certezza dei rapporti giuridici.

Il prodotto dell’attività notarile deve, pertanto, essere perfetto, immune da qualsiasi vizio e, in quanto tale, incensurabile.

D’altronde, sarebbe assurdo che proprio il notaio, il quale svolge una funzione “antiprocessuale”[352], desse adito, nell’espletamento della propria attività, a controversie fra le parti, rogando un atto affetto da vizi, tali da non garantire la stabilità del rapporto che dallo stesso trae origine.

Sulla scorta di tali considerazioni, la giurisprudenza ha ampliato il raggio di applicazione della norma di Legge Notarile, estendendo la portata del relativo divieto e, conseguentemente, la responsabilità del pubblico ufficiale, anche alle ipotesi di annullabilità ed inefficacia.

Gli “atti proibiti”, secondo questa lettura lata del precetto normativo, sono tutti gli atti che non risultino in grado, per un motivo o per l’latro, di produrre gli effetti cui sono preordinati, deludendo, così, le aspettative delle parti, rivoltesi al notaio affinché questi potesse trovare il compromesso migliore tra legalità e volontà privata[353].

Se è vero che il notaio ha il compito istituzionale di assistere le parti, onde consentire loro la piena realizzazione dei risultati auspicati, è altrettanto incontestabile che, la stipula di un atto invalido o di un atto inefficace non rientra fra gli obiettivi che esse si prefiggono di raggiungere.

Alla luce di tale convincimento, la giurisprudenza è giunta ad affermare la responsabilità, ex art. 28 L.N., del notaio rogante.

Il presupposto di un così severo atteggiamento nei confronti del notaio riposa nella convinzione che, nella qualità di garante della legalità, il notaio non può tradire le aspettative che l’ordinamento nutre nei suoi confronti.

Quest’ultimo, infatti, si auspica che l’atto rogato dal notaio sia impeccabile, poiché, il crisma di ufficialità che lo stesso imprime, per conto dello Stato, nell’esercizio della pubblica funzione delegatagli, investe l’atto medesimo di una legittimità presunta, che, tuttavia, deve trovare valido fondamento.

Persuasa di tale convincimento, la Suprema Corte è giunta ad asserire l’applicazione della sanzione di cui all’art. 138 L.N., per violazioni dell’art. 28, anche nel caso di accettazione da parte dei genitori di un’eredità devoluta al proprio figlio minore, senza l’autorizzazione del Giudice tutelare, poiché, in base al combinato disposto degli artt. 320 comma 3 e 322 c.c., il difetto di tale provvedimento abilitativi comporta l’annullabilità dell’atto di accettazione[354].

Secondo questa rigorosa impostazione la giurisprudenza, anche di merito, ha ritenuto sussistente un collegamento fra l’art. 54 reg. not. e l’art. 28 L.N., affermando che, il difetto di legittimazione di una delle parti, non regolarmente, rappresentata, assistita o autorizzata, comporta la responsabilità del notaio, cui era fatto divieto di ricevere l’atto[355].

Dunque stipulare un atto nel quale intervenga una persona che non sia stata abilitata nei modi di legge, significa commettere un illecito ai sensi del combinato disposto degli art. 54 reg. not. e 28 L.N.

Corollario di tale visione “allargata” dell’art. 28 L.N. è che il notaio, al quale venga richiesto di stipulare un atto che, da una valutazione preliminare risulti potenzialmente annullabile o non in grado di spiegare, nell’immediato, alcuna efficacia, ma che sia perfetto in tutti i suoi elementi costitutivi e non sia contrario a norme imperative, può, legittimamente, negare il proprio ministero, invocando il divieto della predetta disposizione di legge, che deroga eccezionalmente alla prescrizione generale di cui all’art. 27 L.N.

In tema di responsabilità civile del notaio si è lungamente dibattuto in merito alla natura di tale responsabilità e alla possibilità che essa insorga, non solo nei confronti delle parti del rogito, ma anche verso i terzi, non destinatari diretti dell’atto[356].

Altra parte della dottrina, contraria ad una lettura estensiva della norma, ha sottolineato che, se da una parte è vero che il notaio è “ministro della legge”, dall’altra è anche vero che egli svolge un’attività professionale volta ad adeguare gli intenti manifestati dalle parti ai paradigmi offerti dall’ordinamento[357].

L’opinione in base alla quale ogni violazione di legge da parte del notaio, attesa la sua qualità di pubblico ufficiale, debba essere sanzionata ex artt. 28 e 138 L.N., appare destituita di qualsiasi fondamento giuridico, oltre che contraria al dato positivo e, segnatamente alle stesse disposizioni delle Legge Notarile.

Quest’ultima, infatti, prevede una serie di norme con le quali sanziona comportamenti specifici che costituiscono fattispecie tipiche di illecito (artt. 137, 138, 139, 142 L.N.)[358] e una norma, per così dire, aperta, di carattere generale, alla quale vanno ascritte le violazioni di legge non puntualmente contemplate e tipizzate[359], con la quale sanziona ogni mancanza commessa dal notaio (art. 136).

La Suprema Corte, nella sentenza 11 novembre 1997, n. 11128[360], ha rivalutato i termini della questione sorta in merito all’interpretazione dell’art. 28 L.N., analizzando, con un approccio differente rispetto al passato, le argomentazioni che militano in favore della tesi restrittiva, dalla stessa avversata sino a qualche tempo prima, cercando di andare in fondo al problema e di capire e spiegare la ratio legis[361].

Le motivazioni che inducono a ritenere corretta una lettura in senso stretto della norma sono, innanzitutto, di ordine storico.

Nella versione definitiva della Legge 16 febbraio 1913, n. 89 non è stata recepita la proposta fatta dal Ministro Fani, il quale, durante i lavori preparatori, presentò un progetto di modifica dell’art. 28, n. 1 L.N., proponendosi l’obiettivo di circoscrivere, testualmente, i limiti del relativo divieto.

Il Ministro propose di sostituire la laconica espressione “atti espressamente vietati dalla legge” (intorno alla quale si è accesa la disputa ermeneutica), con una formulazione che rivelasse, chiaramente, il senso della previsione legislativa, cioè quella di imporre al notaio il dovere di ricusare la prestazione richiesta solo in presenza di una espressa contrarietà all’ordinamento, ossia solo dove l’opera di mediazione fra legalità e volontà privata risultasse del tutto vana.

L’obiettivo del Legislatore del 1913, invece, era quella di sacrificare l’esercizio della pubblica funzione notarile, obbligatoria ex art. 27 L.N., per la tutela di interessi, pure, di ordine pubblico, a garanzia dei quali è prevista la disciplina della sola nullità del negozio e non anche quella dell’annullabilità, come dimostrato dalle stesse norme che regolano tale forma di invalidità.

L’efficacia provvisoria dell’atto, il termine di prescrizione per l’esercizio della relativa azione, la possibilità di convalida, con conseguente consolidarsi degli effetti prodottisi, ma, soprattutto, la legittimazione relativa, evidenziano la volontà del Legislatore di lasciare alla discrezionalità della parte nel cui interesse è posto il rimedio dell’annullamento, la scelta di avvalersene o meno.

L’annullabilità è, dunque, posta a presidio di interessi individuali, i quali non possono essere elevati al rango di interessi della collettività, tali da giustificare una deroga all’obbligatorietà del ministero notarile.

A ciò si aggiunga, sempre sotto il profilo storico, che l’attuale dizione dell’art. 28 L.N. riproduce la formulazione dell’art. 24 del precedente T.U. 25 maggio 1879, n. 4900, il quale coincideva con l’art. 1122 del Codice del 1865, che, analogamente a quanto previsto dall’attuale art. 1343 c.c., sanciva l’illiceità dell’atto ove questo fosse “contrario alla legge, contrario al buon costume o all’ordine pubblico”[362].

Il riferimento era, pertanto, ai soli atti nulli e non anche a quelli comunque inidonei a produrre efficacia giuridica.

La menzione, accanto agli “atti espressamente proibiti”, di quelli “contrari al buon costume o all’ordine pubblico”, appare decisiva in tal senso, visto che, a mente dell’art. 1343 c.c., per tali, si intendono i soli atti nulli.

Tali considerazioni, che portano a ridimensionare i confini dell’art. 28 L.N., limitando il divieto per il notaio di ricevere atti solo nei casi di nullità, sono avallate da ulteriori riflessioni, sulla scorta delle quali la dottrina è giunta a preferire, ormai in modo dominante, l’interpretazione restrittiva[363].

Supponiamo che il notaio abbia, in un caso, omesso di riportare in un testamento pubblico l’ora di sottoscrizione e, in un altro abbia stipulato un contratto nel quale sia intervenuto un rappresentante, eccedendo i limiti della procura.

Se si opinasse per la tesi estensiva si dovrebbe riconoscere che il pubblico ufficiale, nel primo caso (di nullità), sarebbe passibile della sanzione dell’ammenda, nel secondo caso (di inefficacia), invece, incorrerebbe nella sanzione della sospensione[364].

Il notaio, infatti, nella sua duplice qualità di pubblico ufficiale e professionista diligente è tenuto a dare contezza alle parti del fatto che il negozio che si accingono a stipulare non è in grado, almeno nell’immediato, di innovare lo status quo ante, poiché affetto da un vizio che ne compromette l’efficacia.

La trascuratezza di tale dovere oltre a potersi validamente qualificare, ai fini disciplinari, come una “mancanza”, può dar adito a responsabilità civile, per violazione del canone di diligenza di cui all’art. 1176, comma 2, c.c.

Conclusioni

L’esigenza di tutelare alcuni membri della famiglia ha portato la legge a prevedere che alcune categorie di familiari devono ricevere una data quota di patrimonio fissata per legge. Si parla in tal caso di eredi legittimari e di successione necessaria perché questi soggetti devono ricevere una parte dei beni del defunto anche contro la volontà di quest’ultimo che non potrebbe disporre diversamente nel testamento pena l’inefficacia delle disposizioni che siano in contrasto con l’attribuzione di quote così come previsto dalla legge.

Se il de cuius fa testamento può disporre, ove esistano eredi legittimari, solo di una parte del patrimonio (quota disponibile) mentre una parte (quota di riserva) deve comunque andare ai legittimari (che sono coloro a cui la legge riserva una determinata quota di eredità e che non devono essere confusi con gli eredi legittimi, i quali, al contrario, sono coloro cui la legge devolve l’eredità in caso di mancanza di un testamento).

Il potere attribuito al legittimario, in favore del quale il testatore abbia disposto un legato tacitativo, di conseguire la parte dei beni ereditari spettantegli ex lege anzichè conservare il legato – potere configurabile non come diritto autonomo ma come facoltà compresa nel diritto di agire per ottenere la legittima attraverso l’azione di riduzione spettante al soggetto incluso nella categoria dei legittimari “ex” art. 536 cod. civ. – postula l’assolvimento di un onere, consistente nella rinuncia al legato, che si rende necessario in ragione del fatto che il legato si acquista ispo iure e che, nel legato di specie, l’effetto traslativo dal testatore al beneficiario si verifica al momento stesso della morte del primo, onde, essendo i due benefici ex lege alternativi ed essendo l’oggetto del legato già entrato nel patrimonio del beneficiario, questi, per conseguire la legittima, deve, previamente o quanto meno contestualmente alla domanda di riduzione, dismettere il legato (in forma scritta ad substantiam, in caso di legato di immobili; anche mediante dichiarazione informale o per facta concludentia, per tutti gli altri legati).

Nell’ipotesi di successione necessaria, vige la regola generale secondo la quale i legittimari sono tenuti ad imputare alla propria quota di legittima le donazioni e i legati ricevuti in vita dal defunto, salvo che ne siano stati espressamente dispensati (c.d. imputazione ex se). La dispensa dalla imputazione ex se nulla ha a che vedere con la dispensa da collazione e, pertanto la dispensa dalla imputazione non può desumersi dalla eventuale dispensa dalla collazione presente nell’atto di donazione: essa deve essere invece autonomamente espressa in modo chiaro ed inequivocabile. Tale non sarebbe la dichiarazione del donante che la donazione è fatta sulla disponibile.

Nel nostro sistema giuridico, la legge riserva necessariamente a determinati strettissimi congiunti del defunto (coniuge, discendenti e ascendenti, detti “legittimari” o “eredi necessari”) una rilevante quota dell’asse ereditario, anche contro la volontà espressa dal de cuius con testamento o con donazioni fatte in vita (esse anticipano, infatti, la successione): è questa la successione necessaria. Essa costituisce un limite alla libertà testamentaria ed alla stessa libertà di donare, essendo la donazione un anticipo della propria successione.

La successione necessaria non è un terzo genere di successione mortis causa, accanto alla successione testamentaria e alla successione legittima (l’articolo 457 del codice civile dispone infatti che l’eredità “si devolve per legge o per testamento”): nel caso di successione testamentaria, essa, dunque, è un limite alla facoltà di disporre del testatore, mentre, nel caso della successione legittima, essa rappresenta un limite alla applicazione delle regole di distribuzione dell’eredità intestata che ordinariamente si applicherebbero.

La reintegrazione dei diritti del legittimario si compie dapprima attraverso l’esperimento dell’azione di riduzione delle disposizioni testamentarie e delle donazioni che provocano la lesione della legittima, e poi con l’esperimento dell’azione di restituzione nei confronti dei beneficiari delle disposizioni ridotte e dell’azione di restituzione nei confronti dei loro aventi causa.

Nel fare testamento, dunque, l’interessato è pienamente libero solamente con riguardo a una quota del suo patrimonio (chiamata “quota disponibile”, in contrapposizione a quella destinata necessariamente ai suoi stretti congiunti, e perciò denominata “quota riservata”): insomma, la sua volontà di destinare beni a estranei è pur sempre esprimibile, se pur compressa.

Solo quando non ci siano questi stretti congiunti chi voglia pianificare mediante testamento la propria successione ha dunque la massima libertà.

Anche in questa ipotesi, comunque, se l’interessato non indica per testamento i propri successori, provvede la legge ad attribuire l’eredità ai parenti, con la regola che il parente più prossimo esclude quello di grado più remoto.

Appare evidente come il tentativo di rafforzare la tutela dell’avente causa è oggi soprattutto una questione di ars stipulatoria, della quale il notaio è il principale interprete; ma sarebbe una pia illusione ritenere che tale tentativo sia sufficiente ad evitare un intervento normativo sul codice civile, ed in particolare sull’abrogazione dei patti successori in primis rinunziativi, che appare ormai improcrastinabile.

In conclusione, ai fini del calcolo della quota di legittima spettante a ciascun legittimario, si deve tenere conto della situazione esistente al momento dell’apertura della successione, ossia alla morte del de cuius, e non a quella che si produce per effetto del mancato esperimento dell’azione di riduzione da parte di alcuno dei legittimari pretermessi.


[1] Si tratta di Cass. 30 marzo 1999, n. 3059, in Foro it., 2000, I, c. 1968. Nel caso deciso dalla Suprema Corte, si discuteva del rapporto di pregiudizialità tra la causa di opposizione a decreto ingiuntivo, avente ad oggetto un credito derivante da un contratto di appalto, e la causa promossa dal debitore ingiunto, concernente l’asserita nullità del contratto in questione, per violazione della normativa antitrust.

[2] In generale, sulla successione necessaria, v.: Santoro Passarelli F., Dei legittimari, in Commentario del codice civile diretto da D’Amelio M., Libro Delle successioni per causa di morte e delle donazioni, Firenze, 1941, p. 263; Azzariti F., Martinez M., Azzariti G., Successioni per causa di morte e donazioni, Padova, 1948, p. 187; Cicu A., Le successioni, Milano, 1947, p. 208; Ferri L., Successioni in generale, in Commentario del codice civile a cura di A. Scialoja e G. Branca, Bologna-Roma, 1980, p. 88; Id., Dei legittimari, in Commentario del codice civile a cura di A. Scialoja e G. Branca, cit., 1982; Grosso G. e Burdese A., Le successioni, Parte generale, in Trattato di diritto civile italiano diretto da F. Vassalli, XII, I, Torino, s.d., ma 1977, p. 85; Casulli V., Casulli G.V. ,Successione necessaria, in Noviss. Dig. it., Appendice, VII, Torino, 1987, p. 631; Tamburino G., voce Successione necessaria (dir. priv.), in Enc. dir., XLIII, Milano, 1990, p. 1377; Bianca C.M., Diritto civile, 2, La famiglia. Le successioni, 3ª ed., Milano, 2001, p. 587; Bonilini G., Manuale di diritto ereditario e delle donazioni, 2ª ed., Torino, 2003, p. 117; Cattaneo G., La vocazione necessaria e la vocazione legittima, in Trattato di diritto privato diretto da Rescigno P., 5, I, Le successioni, 2ª ed., Torino, s.d., ma 1997, p. 435; Mengoni L., Successioni per causa di morte. Parte Speciale. Successione necessaria, in Trattato di diritto civile e commerciale già diretto da A. Cicu e F. Messineo, continuato da L. Mengoni, 4ª ed., Milano, 2000.

[3] In generale, sulla riduzione delle donazioni, v. Basini G., La riduzione delle donazioni, in La donazione, Trattato diretto da G. Bonilini, Torino, 2001, p. 1149 e Carnevali U., Sull’azione di riduzione delle donazioni indirette che hanno leso la quota di legittima, in Scritti in onore di L. Mengoni, I, Diritto civile, Milano, 1995, p. 131.

[4] Sull’argomento si veda, soprattutto Bianca C.M., op.cit., p. 610. Si veda, inoltre, Cattaneo G., op-, cit., pp. 452-453, ove il rilievo per il quale il legittimario leso non sarebbe tenuto, in tale ipotesi, ad esperire l’azione di riduzione, poiché la disposizione vietata sarebbe di per sé priva di effetti.

[5] In generale, sul tema della autonomia testamentaria e delle relative limitazioni, v.: Bonilini G., Il testamento. Lineamenti, Padova, 1995, p. 5.

[6] Un parziale temperamento, rispetto al principio della inderogabilità delle norme poste a tutela dei legittimarii, è introdotto dalla disciplina dei legati in sostituzione di legittima (art. 551 c.c.). In questo caso, è lasciata al testatore la possibilità di legare uno o più beni determinati al legittimario, impedendogli di venire alla successione quale erede. Il temperamento è però soltanto parziale, in quanto è conservata, in ogni caso, al legittimario, la facoltà di scegliere tra il legato sostitutivo e la legittima. Quest’ultimo, infatti, può rinunciare al legato, e far valere il diritto alla quota riservata. Per tali profili: Bonilini G., op., cit., p. 146.

[7] Ravvisa la ratio dell’istituto della successione necessaria nella tutela della famiglia in senso stretto, vale a dire circoscritta al coniuge, i discendenti e gli ascendenti: Tamburino G., op. cit., p. 1352.

[8] Nel senso che, alla base della disciplina della successione necessaria, si pone l’esigenza di garantire l’attuazione della solidarietà familiare, nell’ambito dei rapporti tra gli stretti congiunti: Bianca C.M., op. cit., p. 591. Si è peraltro  osservato che tale interesse alla solidarietà familiare si manifesta anche durante la vita del de cuius, a titolo di esempio, attraverso la disciplina dell’obbligo degli alimenti (art. 433 c.c.): Bonilini G., op. cit., p. 119.

[9] Sui rapporti tra la disciplina delle successioni ed i principi costituzionali: Bianca C.M., op. cit., p. 392.

[10] Cantelmo V.,  Fondamento e natura dei diritti dei legittimari, Napoli, 1972, 29 s., 42 ss., 87 ss., 119, 125, 138.

[11] Cass. 24 giugno 1996, n. 5832, in Nuova giur. civ. comm., con nota di E. Calò, L’etica dell’ordine pubblico

internazionale e lo spirito della successione necessaria.

[12] Comporti M., Successione, comunità familiare, patrimonio (Principi generali europei ed istituzioni civili basche), in Rass. dir. civ., 1991, 743.

[13] Cass., 9 marzo 1987, n. 2434, in Giust. civ., 1987, I, p. 1046; Cass., 11 febbraio 1995, n. 1529, ibidem, 1995, I, p. 2117.

[14] La Suprema Corte, pur ribadendo che la disciplina posta a tutela dei diritti dei legittimari, rientra tra le limitazioni imposte all’autonomia negoziale del testatore, ai sensi dell’art. 42, ult. cpv., Cost., ha, tuttavia, escluso che il diritto alla quota riservata abbia fondamento costituzionale. Ha, inoltre, negato che la normativa interna relativa alla tutela dei legittimarii costituisca principio di ordine pubblico internazionale. Nella specie, la pronunzia, facendo applicazione di tali principi, ha cassato la decisione di merito impugnata, che aveva ritenuto che il limite dell’ordine pubblico internazionale ostasse all’applicazione, al caso di specie, della legge dello Stato del Québec, che non prevede alcuna tutela per i legittimarii (Cass. 24 giugno 1996, n. 5832, in Riv. not., 1997, p. 935).

[15] Osserva Forchielli A., Aspetti successori della riforma del diritto di famiglia, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1975, p. 1013, come la scelta del legislatore del ’75 di conservare il diritto di commutazione possa suscitare qualche perplessità alla luce dell’ampia libertà di riconoscimento dei figli naturali anche da parte di genitori coniugati e dunque della possibilità di un loro inserimento nella famiglia legittima; la convivenza con il nucleo legittimo rende difficile giustificare la conservazione della facoltà da parte dei figli legittimi di estrometterli dalla comunione ereditaria. Dubbioso anche Azzariti F., Successioni dei legittimari e successioni dei legittimi, in Giur. sist. Dir. civ. comm., fondata da Bigiavi A., III ed., Torino, 1997, p. 96, con riguardo alla possibilità che il figlio naturale, che coabiti con i figli legittimi, sia poi in sede di successione escluso da taluni beni di famiglia.

[16] In questo senso Cass. 27 luglio 1937, n. 2698, in Giur. it., 1938, I, 1, c. 48.

[17] Tale decisione, secondo Cattaneo G., La vocazione necessaria e la vocazione legittima, in Trattato di diritto privato diretto da Rescigno, I, 5, Torino, 1997, p. 440, ha funzione costitutiva in quanto dà efficacia ad un atto che altrimenti ne sarebbe privo.

[18] Da ultimo, si veda, Cass. 21 giugno 2002 n. 9079, in Contratti, 2002, p. 990.

[19] Così già Cass. 13 febbraio 1981 n. 891, in Foro it., 1981, p. 1614; in Giust. civ., 1981, p. 2295; in Giur. it., 1982, p. 1461; e in Vita not., 1980, p. 1252.

[20] Morello U., Accordi e intese preliminari (un classico problema rivisitato), in La casa di abitazione tra normativa vigente e prospettive, Milano, 1986, II, p. 77 ss.; Lener A., Contratto preliminare e riserva di nomina dell’acquirente, in Foro it., 1976, p. 1845 ss.

[21] Bianca C.M. ,Il Contratto, III, Diritto Civile, 2000, p. 130; Cass. 7 febbraio 1975 n. 463, in Giur. it., 1975, p. 967.

[22] Bianca C.M. , op. cit., p. 722.

[23] Da ultimo, Cass. 25 agosto 1998 n. 8410, in Contratti, 1999, p. 336 ss.

[24] Cattaneo G., op. cit., p. 438.

[25] Secondo, almeno, l’orientamento prevalente fra gli interpreti: v. Mengoni L, op. cit., p. 70.

[26]Visalli C., Contratto per persona da nominare e preliminare, in Riv. dir. civ., 1998, p. 393 ss.

[27] Bernardini A.,Il preliminare di vendita immobiliare e la sua circolazione, in Contr. e impr., 1991, p. 711.

[28] Bernardini A., op. cit., p. 714.

[29] Carresi A.,Funzione e struttura del contratto per persona da nominare, in Riv. dir. civ., 1958, p. 591.

[30] Scalone C., Spunti critici in tema di contratto per persona da nominare, in Riv. dir. comm., 1958, p. 359.

[31] Quanto alla donazione avente per oggetto più beni, la Suprema Corte ha ritenuto che, nell’ipotesi di trasferimento di beni singolarmente individuati, si è in presenza di più donazioni. Perché ricorra un’unica donazione è necessario che dall’atto risulti che le parti abbiano considerato tali beni come attribuzione unitaria. La dottrina ritiene, viceversa, che in presenza di più beni, costituiscano o no un’universalità, ci si trovi presuntivamente di fronte ad un’unica donazione. L’indagine sulla volontà delle parti si deve compiere solo se si vuole escludere tale unicità.

[32] Secondo la definizione elaborata dalla dottrina più recente, con il contratto di mantenimento una parte conferisce all’altra il diritto di esigere vita natural durante di essere mantenuta, quale corrispettivo della alienazione di un bene mobile o immobile o della cessione di un capitale. Cfr. Calo C., Contratto di mantenimento e proprietà temporanea, nota a Cass. 11 novembre 1988, n. 6083, in Foro it., 1989, I, 1, p. 1165 ss.;Troiani A., Contratto di mantenimento e vitalizio alimentare, in Vita notarile, 1992, p. 1436 ss.

[33] Marini A. ,La rendita perpetua e la rendita vitalizia, in Trattato di diritto privato diretto da Rescigno, 13, Torino, 1982, p. 34 ss.;Valsecchi A., La rendita perpetua e la rendita vitalizia, in Trattato di diritto civile e commerciale diretto da Cicu e Messineo, Milano, 1961, p. 193 ss.; Perfetti M.,Contratto innominato di mantenimento e divieto di risoluzione ex art. 1878 c.c., in Dir. giur., 1978, p. 514 ss., Cariota-Ferrara A.,In tema di contratto di mantenimento, in Giur. compl. Cass. civ., 1951, III, 1, p. 53 ss.; Pieri S., Sulla valutazione dell’alea nel contratto di vitalizio, in Riv. dir. civ. comm., 1952, II, p. 417 ss.; Messineo A., Manuale di diritto civile e commerciale, V, Milano, 1958, p. 213;Torrente A., Della rendita perpetua. Della rendita vitalizia, in Comm. c.c. diretto da Scialoja e Branca, sub artt. 1861, 1881, Bologna-Roma, 1966, p. 77 ss.; Auletta G., Alimenti e solidarietà familiare, Milano, 1984, p. 202; Dattilo S., Rendita (diritto privato), in Enc. dir., vol. XXXIX, Milano, 1988, p. 873; Macioce A., Rendita in diritto civile, in Enc. giur. Treccani, Torino, 1991, p. 10.

[34] Cass. 28 luglio 1975, n. 2924, in Giust. civ., 1976, I, p. 442; Cass. 5 gennaio 1980, n. 50, in Foro it., Rep., voce Rendita Vitalizia, n. 2; Cass. 30 ottobre 1980, n. 5855, in Foro it., Rep., 1980, voce Agricoltura, n. 83; Cass. 14 giugno 1982, n. 3625, in Foro it., Rep., 1982, voce Agricoltura, n. 153; Cass. 15 febbraio 1983, n. 1166, in Foro it., 1983, I, p. 933; Cass. 18 dicembre 1986, n. 7679, in Foro it., 1987, I, p. 1086; Cass. S.U., 18 agosto 1990, n. 8432, in Giur. it., 1991, I, 130.

[35] In tal senso la giurisprudenza prevalente prima del 1975: Cass. 23 giugno 1964, n. 1658, in Foro it., Rep., 1964, voce Vitalizio, n. 4; Cass. 18 maggio 1965, n. 968, in Foro it., Rep., 1965, voce Vitalizio, n. 3; Cass. 10 gennaio 1966, n. 186 in Foro it., Rep., 1966, voce Vitalizio, n. 6; Cass. 28 gennaio 1966, n. 330, in Foro it., 1966, I, p. 1787; Cass. 7 giugno 1971, n. 1694, in Foro it., Mass., 1971, p. 506; Cass. 5 agosto 1977, n. 3553, in Foro it., Rep., 1977, voce Rendita Vitalizia, n. 1; Cass. 16 giugno 1981, n. 3902, in Foro it., 1982, I, p. 477; Cass. 15 marzo 1982, n. 1683, in Foro it., Rep., 1982, voce Rendita vitalizia, n. 3.

[36] Così Studio CNN n. 1773, approvato dalla Commissione Studi del Consiglio Nazionale del Notariato il 18 novembre 1997.

[37] Occorre sottolineare che il testatore non potrebbe in ogni caso diseredare tutti gli eredi legittimi, compreso lo Stato: tale disposizione, infatti, sarebbe nulla perché in contrasto con l’interesse pubblico, sotteso alle norme sulla successione legittima, a che sia garantita in ogni caso l’esistenza di un erede che gestisca il patrimonio del de cuius, provvedendo al pagamento dei debiti e dei legati ed impedendo la dispersione dei beni relitti.

[38] Il legittimario potrà naturalmente essere escluso dalla disponibile con un’istituzione nella sola quota di riserva o col legato sostitutivo previsto dall’art. 551 c.c.

[39] Torrente A., voce Diseredazione (Diritto vigente), in Enc. dir., vol. XIII, 1964, p. 102.

[40] Contra, Mengoni L., Successioni per causa di morte, Parte speciale. Successione necessaria, in Tratt. di dir. civ. e comm., XLIII, t. 2, Milano, 1990, p. 94, secondo il quale la salvaguardia della posizione del legittimario diseredato è affidata al più intenso presidio dell’art. 549 c.c., quale norma diretta a sanzionare tutte le disposizioni accessorie od autonome che depauperino il legittimario della sua quota, senza costituire lascito o liberalità a favore di un terzo. In senso contrario pare, tuttavia, deporre il rilievo che la diseredazione, costituendo non una semplice limitazione ma una vera e propria privazione del diritto alla legittima, sia fenomeno quantitativamente più ampio dell’ipotesi contemplata dalla citata disposizione, tanto da risultare ontologicamente diverso.  Non risulta convincente neppure la tesi, formulata da Bigliazzi Geri L., A proposito di diseredazione, in Corr. giur., 1994, p. 1503,.

[41] E che potrebbero ancora essere destinatari della delazione intestata qualora uno o più dei chiamati testamentari non vogliano o non possano succedere e non operino gli istituti della sostituzione, della rappresentazione o dell’accrescimento: ciò comporta, evidentemente, che per la preterizione non si raggiunge quella certezza di realizzazione del risultato che si consegue, invece, con la diseredazione, una volta che se ne ammetta la legittimità.  Il testatore può comunque impedire che si apra una successione legittima, a cui parteciperebbe anche il preferito, mediante un complesso intreccio di sostituzioni ovvero rafforzando la preterizione con l’espressa esclusione del preterito: questa soluzione, di diffusa applicazione nella prassi, è proposta anche da Corona, La c.d. diseredazione: riflessioni sulla disposizione testamentaria di esclusione, in Giuri it, 1992, p. 506.

[42] Messineo A., Manuale di diritto civile e commerciale, III, 2, Milano, 1952, p. 47; Giampiccolo C., Il contenuto atipico del testamento. Contributo ad una teoria dell’atto di ultima volontà, Milano, 1954, p. 317; Cariota-Ferrara A., Successioni per causa di morte, I, 2, Napoli, 1956, p. 27: Cicu A., Diseredazione e rappresentazione, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1956, p. 385; Carresi C., Autonomia privata nei contratti e negli altri atti giuridici, in Riv. dir. civ., 1957, I, p. 265; Ferri A.L’esclusione testamentaria di eredi, in Riv. dir. civ., 1941, p. 228 ss.; Torrente A., op. loc. cit.; Capozzi G., Successioni e donazioni, t. 1, Milano, 2004, p. 134; Mengoni L., op. cit.

[43] A cominciare da Cass. 20 giugno 1967, n. 1458, in Foro it., 1968, I, c. 574, con cui per la prima volta il Supremo Collegio ha affrontato funditus l’argomento della diseredazione sotto il vigore del codice del 1942.

[44] L’affermazione del carattere necessariamente attributivo della scheda testamentaria ha indubbiamente dalla sua parte la tradizione: Polacco S., Delle successioni, Milano-Roma, 1937, p. 151; Degni A., Lezioni di diritto civile. La successione a causa di morte, II, La successione testamentaria, Padova, 1932, p. 20 ss.

[45] Cfr., in questo senso, Trib. di S. Maria C.V. 25 maggio 1960, in Foro pad., 1961, I, c. 369.

[46] Trabucchi A., Esclusione testamentaria di eredi e diritto di rappresentazione, in Giur. it., 1955, I, 2, c. 749, e L’autonomia testamentaria e le disposizioni negative, in Riv. dir. civ., 1970, p. 48 ss.; Azzariti F., op. cit., p. 1199; Bin R., La diseredazione – Contributo allo studio del testamento, Torino, 1966, p. 254; Liserre C., Formalismo negoziale e testamento, Milano, 1966, p. 168; Lipari, Autonomia privata e testamento, Milano, 1970, p. 240; Bigliazzi Geri A., Il testamento, Trattato Rescigno, VI, Torino, 1982, p. 119; Grosso e Burdese A., Le successioni, Parte generale, Trattato Vassalli, XII, Torino, 1977, p. 83; Bianca C.M., Diritto civile, II, La famiglia. Le successioni, Milano, 1985, p. 564; Bonilini G., Nozioni di diritto ereditario, Torino, 1986, p. 93, e Autonomia testamentaria e legato. I legati così detti atipici, Milano, 1990, p. 49, nt. 163; RescignoP., Manuale del diritto privato italiano, Napoli, 1988, p. 589; Galgano L., Il negozio giuridico, in Tratt. dir. civ. e comm. diretto da Cicu-Messineo, III, t. 1, Milano, 1988, p. 526; Corona A., La c.d. diseredazione: riflessioni sulla disposizione testamentaria di esclusione, in questa Giur. it., 1992, p. 505.

[47] App. Firenze 9 settembre 1954, cit., con nota di Trabucchi; App. Napoli 21 maggio 1961, in Foro pad., 1962, I, c. 939; App. Torino, 10 febbraio 1965; Trib. Nuoro, 15 settembre 1989, in Riv. giur. sarda, 1991, 389, con nota di Bandiera, Sulla validità della diseredazione.

[48] Si è tuttavia pronunciato nel senso dell’atipicità della clausola Bin R., op. cit., p. 203, richiamandosi alla possibilità offerta all’autonomia contrattuale di avvalersi anche di tipi non previsti dalla legge, a condizione che sia “apprezzabile l’interesse che è alla base dell’atto” (art. 1322, comma 2, c.c.).

[49] Questo rilievo consente di superare l’obiezione secondo cui, poiché la disposizione negativa è ispirata da odio, collera, rancore con essa si attuerebbe un testamento in funzione antifamiliare e antisociale, mentre esso dovrebbe essere sorretto dallo spirito di liberalità: sotto tale profilo, infatti, può non esserci alcuna differenza tra la disposizione negativa e l’istituzione di alcuni eredi ex lege, con preterizione degli altri o un legato minimo in sostituzione di legittima; inoltre, lo spirito di liberalità non è essenziale all’istituzione d’erede o di legatario, così come l’«odiosa intenzione» non è essenziale alla disposizione negativa, che potrebbe anche essere ispirata dal desiderio di evitare al destinatario le conseguenze negative della successione ereditaria.

[50] Che il testamento non sia in senso stretto un atto di disposizione può, in particolare, desumersi dal fatto che il trasferimento dei diritti è un fenomeno inevitabilmente connesso alla morte del titolare, per cui nell’atto mortis causa (diversamente da quanto accade nell’atto inter vivos) l’autonomia negoziale è estranea alla determinazione del fenomeno successorio ed influisce solo sul suo regolamento: cfr., in questo senso, Bigliazzi Geri A., Il testamento, in Tratt. dir. civ. diretto da Rescigno, vol. 6, Torino, 1982, p. 53. Per la tesi che giunge addirittura a negare carattere negoziale al testamento si vedano, sia pure con diverse impostazioni, Irti N., Disposizione testamentaria rimessa all’arbitrio altrui, Milano, 1967, p. 18; Lipari N., Autonomia privata e testamento, Milano, 1970; Criscuoli A., Il testamento. Norme e casi, Padova, 1991, p. 146.

[51] Concetto espresso dalla dottrina francese con la nota massima exclure c’est disposer.

[52] Nel senso che tale contenuto si ridurrebbe necessariamente alla sola alternativa “istituzione d’erede-legato”.

[53] Su tali disposizioni si veda Corona, op. cit., p. 505 ss.

[54] L’apposizione di una condizione alla disposizione di esclusione può portare allo stesso risultato di un’istituzione sottoposta alla condizione inversa: in entrambi i modi, infatti, il testatore può dettare una clausola penale testamentaria, mediante un’esclusione o un’istituzione condizionata all’inosservanza o all’osservanza di un precetto. Sulla clausola penale testamentaria vedi Cass. 9 maggio 1966, n. 1180, in Temi nap., 1967, I, p. 124, che ne ha riconosciuto la validità nei limiti della liceità.

[55] Per un’efficace confutazione della tesi (originariamente formulata da Ferri, Se debba riconoscersi efficacia ad una volontà testamentaria di diseredazione, cit., p. 54) che accomuna la diseredazione al fenomeno riabilitativo si veda Russo, Diritto civile, Livorno 1989.

[56] Sul punto si veda Resigno P., Trattato di diritto privato, Torino 1982, p. 405 ss.

[57] Per l’inefficacia relativa, v. Mengoni L., op cit., p. 103; Ferri L., op. cit., p. 102.

[58] Masi A., Dei legati : art. 649-673, Bologna 1979.

[59] Morello A., op. cit. p. 64.

[60] Per Cass. 26.1.1990 n. 459, in Giur It 1990 I, 1, 1252, l’esercizio dell’azione di riduzione postula l’assolvimento di un onere, la rinuncia al legato.

[61] Masi A., Dei legati : art. 649-673, Bologna 1979.

[62] L’atto di scelta compiuto dal legatario, è stato ritenuto impugnabile per dolo o per violenza, non per errore; v. Cass, 17 maggio 2968, n. 1554, in Foro It. 1968, I, 2558.

[63] Peraltro, non è possibile tale rinuncia, poiché il legittimario preterito non è chiamato a succedere come erede.

[64] Così, Ferri, op. cit., 125, il quale utilizza la distinzione tra rinuncia all’eredità e rinuncia alla legittima come una delle prove più evidenti del fatto che la legittima non è quota di eredità, ma integra un vero e proprio legato. Nel senso del testo, v. anche Mengoni L., op.. cit., 125 ss., il quale ritiene che il legittimario investito del legato in sostituzione di legittima subisce, piuttosto che una diseredazione, una preterizione, con la conseguenza che egli non è privato della qualità di successibile ab intestato e perciò non è escluso anche dalla successione legittima nel caso che l’erede istituito (o uno degli eredi istituiti) non possa o non voglia accettare l’eredità, e non vi sia luogo a sostituzione, accrescimento o rappresentazione.

[65] Sulla distinzione tra diseredazione e preterizione, v. anche Ferri L. , Esclusione testamentaria di eredi, in Riv. dir. civ., 1941, 231, e Se debba riconoscersi efficacia ad una volontà testamentaria di diseredazione, in Foro pad., 155, I, 47; Bianca C.M., op. cit. , 522; Palazzo A., Le successioni, tomo I, in Tratt. dir. priv., a cura di Iudica e Zatti, Milano, 1996, 537. Del caso di cui al testo si occupa anche il Tribunale di Monza, con la sentenza 13 giugno 1964, in Giur. it., 1964, I, 2, 698, affermando, come nel testo, la qualità di successibile legittimo del beneficiario del legato sostitutivo. Diversa è, invece, l’opinione della sentenza della Cassazione (del 22 gennaio 1999 n. 5918, cit.) dalla quale abbiamo tratto spunto per questa dissertazione, secondo la quale il legato in sostituzione di legittima contiene, sia pure implicitamente, la volontà di diseredare il legittimario. Tale ultima sentenza conferma una precedente pronuncia della S.C. (Cass. 1 agosto 1987 n. 6646, in Giur. it., 1987, Mass., 1071) secondo la quale per il caso di successione legittima, limitatamente a quella parte dell’asse ereditario di cui non sia stato disposto con testamento, il coniuge delde cuius, fuori dall’ipotesi del legato in sostituzione di legittima, al quale non abbia rinunciato ai sensi dell’art. 511 c.c., conserva la qualità di erede legittimo, nonostante sia beneficiario di una disposizione testamentaria legatizia. Sul punto si tornerà più diffusamente oltre; qui non si può non sottolineare che il legatario in sostituzione di legittima partecipa alla successione ab intestato anche nel caso che il testatore abbia disposto solo di una parte dell’asse.

[66] La dottrina prevalente si schiera per la tesi dell’operatività dell’art. 549 c.c.. In particolare, in tal senso sono Capozzi G., op. cit. 303; Di Mauro A., Legato in sostituzione di legittima e legato in conto di legittima, in Giust. civ., 1991, I, 2788; Ferri L., Dei legittimari, in Commentario c.c., a cura di Scialoja e Branca, artt. 536-564, Bologna-Roma, 1981, 126; Mengoni L., op. cit. p. 126; Palazzo A., Le successioni, in Tratt. diritto privato, a cura di Iudica e Zatti, Milano, 1996, 542; Pino C., La tutela del legittimario, Padova, 1954, 110; Santoro PASSATELLI F., Dei legittimari, in Commentario c.c., diretto da D’Amelio e Finzi, Libro delle successioni, Firenze, 1941, 302. Contra, v. Cantelmo A., I legittimari, Padova, 1991, 85; Id., I limiti alla libertà di disporre, in Successioni e donazioni (a cura di P. Rescigno), Padova, 1994, 515; Ieva A., Manuale di tecnica testamentaria, Padova, 1996, 24; TAMBURINO G., Successione necessaria (dir. priv.), in Enc. dir., XLIII, Milano, 1990. In giurisprudenza, è per l’operatività del divieto di pesi e condizioni Cass. 5 settembre 1952 n. 2840, in Foro it., 1952, I, 1352 e Cass. 2 settembre 1953 n. 2936, in Foro it., 1954, I, 465. Si discute sulle conseguenze derivanti dalla violazione del predetto divieto: secondo la dottrina dominante si tratterebbe di nullità, in quanto la lesione assurgerebbe a causa o ad oggetto della disposizione. Sul punto si è obiettato (Mengoni L., op. cit., 104) che, trattandosi di modalità non in sé illecite, ne deriva che la nullità non può, in queste ipotesi, essere rilevabile d’ufficio, risultando pertanto più corretto parlare di inefficacia relativa, la quale, diversamente dalle disposizioni lesive, opererebbe ipso iure.

[67] Per tutti, v. Mengoni L., op. cit., 126, il quale sottolinea come nel sistema riformato dal codice del 1942 dire che il legato sostitutivo è la stessa legittima, non è più un gioco di parole, ma è un concetto normativo, per quanto erratico in rapporto al principio che la legittima è quota di eredità. Nello stesso senso, v. Palazzo A., op. cit., 542.

[68] V. Cass. 11 febbraio 1995 n. 1529, in Giust. civ., 1995, I, 2119. Nello stesso senso, Cass. 11 maggio 1962 n. 949 e Cass. 9 marzo 1987, in Giust. civ., 1987, I, 1046.

[69] Pino A., Tutela del legittimario, Padova, 1954, 112

[70] Secondo Pino A., op. cit., 112, “diversamente dall’ipotesi del legato in conto di legittima l’imputazione alla legittima non sarebbe qui destinata a formare la quota riservata, bensì a ridurla a una frazione di valore pari a quello del supplemento: in ragione di frazione dell’asse, il legittimario diventerebbe erede[per vocazione necessaria], domandando il supplemento con l’azione di riduzione”.

[71] Cataldo C, Considerazioni sul legato in sostituzione di legittima – art. 551 c.c., in Vita not., 1982, 1174.

[72] Il legato con facoltà di vendita in caso di bisogno viene considerato dalla migliore dottrina una doppia attribuzione particolare, risultando dalla combinazione di un legato di usufrutto ed un legato di integrazione alimentare, sotto condizione sospensiva dell’insorgenza dello stato di bisogno. Così, Cassisa A., Sull’istituzione di erede mediante lascito di usufrutto con facoltà di vendere in caso di bisogno, in Giust. civ., 1970, I, 1031, e Marmocchi L., In tema di lascito di usufrutto con facoltà di alienazione, in Giur. it., 1970, I, 1, 1821. In tal senso è anche la più recente giurisprudenza di legittimità: Cass. 20 febbraio 1993 n. 2088, inVita not., 1994, 261, e Cass. 21 gennaio 1985 n. 207, in Riv. not., 1985, 487. Contra, Messineo A.,  op. cit., 522, secondo il quale la clausola relativa alla vendita è nulla, in quanto contrastante con le attribuzioni dell’usufruttuario e con le limitazioni concernenti la possibilità di rimettere all’arbitrio dell’onerato o del terzo la determinazione dei beni a favore dell’erede. Per la tesi, poi, per la quale trattasi in ogni caso di un’istituzione d’erede, si veda Cass. 26 luglio 1977 n. 3342, in Giust. civ., 1978, Rep., voce Successione, n. 20 e Cass. 26 gennaio 1976 n. 251, ivi, 1976, Rep., voce cit., n.

[73] Per il Cataldo a., op. cit., 1175 e 1176, rimane, poi, il problema se il legato relativo al supplemento debba esser soddisfatto con beni o con denaro, e, in quest’ultimo caso, se esistenti o meno nell’asse. Il problema non risulta affrontato in dottrina, in quanto, ritenendosi il legato con supplemento “in conto”, coerentemente non è oggetto di disamina la composizione del supplemento stesso. “È più agevole”, a giudizio dello studioso, “propendere per la soluzione in denaro, esistente o meno, in quanto si sarebbe in presenza di un legato obbligatorio non quantificabile a priori e, probabilmente, scegliendo una soluzione diversa, vi sarebbe il duplice ostacolo rappresentato dal fatto che lo stesso testatore non avrebbe la possibilità di indicare l’eventuale bene integrativo e dal fatto che, quindi, la scelta dovrebbe esser rimessa al mero arbitrio dell’onerato, rendendo nulla la disposizione ai sensi dell’art. 632 c.c.”.

[74] Secondo Mengoni L., op. cit., 138, due sono le incongruenze dell’opinione di chi ritiene, come Pino A., op. cit., 112, che il legato con supplemento sia in sostituzione con facoltà di agire in riduzione per il recupero della quota residua di riserva. “In primo luogo, il concetto di legato imputabile alla legittima, in qualunque senso si intende l’imputazione, è incompatibile col concetto di legato in sostituzione di legittima, il quale, per definizione, è ordinato per privare l’onorato della legittima, che è quota di eredità. Se il valore del legato con clausola suppletoria fosse pari o superiore a quello della legittima, secondo la tesi in esame, il legittimario che accettasse il legato, sarebbe escluso dall’eredità proprio per effetto dell’imputazione, mentre l’imputazione presuppone la titolarità di una quota. In secondo luogo, la valutazione della volontà del testatore di non escludere il legittimario dal supplemento come volontà di non escluderlo dall’azione di riduzione è incompatibile con la natura di questa, che è essenzialmente un’azione (di impugnativa) contro il testamento”.

[75] Cfr.  Cataldo A., op. cit., 1174 e 1175.

[76] Azzariti, ritiene che al legittimario debba riconoscersi la qualità di successore a titolo particolare, a titolo di legato, sul presupposto che egli ha diritto non ad una quota di eredità, ma ad una parte di utile netto. A tal fine valga per tutti l’argomento che si trae dall’art. 552, che esclude perentoriamente la facoltà del legittimario di rinunciare all’eredità, trattenendo la legittima. Al contrario vi è chi ritiene che il legittimario è erede differito se ed in quanto esperisce vittoriosamente l’azione di riduzione che gli compete (così, Capozzi G., op. cit., 280).

[77] Capozzi G., op. cit., 305, e Cicu A., op. cit., 243 ss.

[78] Così Cass. 15 novembre 1982 n. 6098, in Giust. civ., 1983, I, 49, con nota di commento di Azzariti-Martinez.

[79] Secondo questo orientamento, l’apporzionamento, qualificato come legato, con espressione tecnicamente imprecisa, costituisce una vera e propria istituzione ex re certa, nel senso che il bene o i beni “legati” vanno a comporre la quota ereditaria spettante al legittimario. La conseguenza fondamentale è che il legittimario non può rinunciare al legato e chiedere la legittima per intero, come accade nel legato in sostituzione, trattandosi di un’unica delazione a titolo di erede, per la quale non sarebbe ammissibile una rinuncia parziale, ai sensi dell’art. 520 c.c.

[80] Non bisogna dimenticare che Azzariti-Martinez, sostiene che il legato in sostituzione di legittima dà vita ad una doppia vocazione testamentaria avente ad oggetto, da un lato, il legato sostitutivo e, dall’altro, la quota ereditaria di riserva, per l’ipotesi in cui l’onorato rinunci al legato. Nel legato con diritto al supplemento, a maggior ragione, in considerazione del tenore della norma che accorda espressamente il diritto alla quota ereditaria che residua detratto il valore del legato, fondando tale facoltà nel testamento, la quota di legittima, formata, come detto, in parte da un bene già individuato dal testatore, è oggetto di vocazione testamentaria, con l’evidente conseguenza che non è necessaria l’azione di riduzione, ma è sufficiente la petitio hereditatis.

[81] Se per legato in sostituzione di legittima si considera quello con cui il testatore intende tacitare il legittimario dei suoi diritti, il legato nel quale espressamente si accordasse la facoltà di chiedere un’integrazione, non potrebbe entrare nella categoria. Ecco perché il legato con diritto al supplemento, nonostante l’inquadramento codicistico, non può farsi rientrare nell’ambito del genus del legato privativo di legittima.

[82] In senso contrario, si veda, però, Mengoni L., op. cit., 137 e 138, secondo il quale “La seconda parte dell’art. 551, comma 2 è formulata in termini tali da far ritenere che ‘la facoltà di chiedere il supplemento’ attribuita al testatore sia lo stesso ‘diritto di chiedere un supplemento’ di cui si parla nella prima parte, mentre si tratta di diritto avente fondamento e natura diversi. Il diritto di chiedere un supplemento, precluso al legittimario che consegue il legato tacitativo, è propriamente l’azione di riduzione diretta a conseguire la quota riservata. Invece, nell’ipotesi ora considerata [legato con supplemento] si tratta di un diritto al supplemento in senso tecnico, fondato sulla titolarità della quota alla quale è imputato il legato, sicché l’integrazione della quota con beni della massa è domandata dal legittimario non con l’azione di riduzione, ma in qualità di erede, con la petizione di eredità e l’azione di divisione”.

[83] Il legatario con supplemento, infatti, ben potrebbe scegliere di chiedere, per intero, la quota di eredità a lui riservata, rinunciando previamente al legato.

[84] Così, Cattaneo A., op. cit., 456; Ferri L, op. cit., 126 e Mengoni L., op. cit., 137. Per Bianca C.M., op. cit., 522, nel legato con diritto al supplemento, “questa facoltà il supplemento non converte senz’altro la disposizione in un legato in conto di legittima. La facoltà di chiedere un supplemento è qui infatti, un’attribuzione fatta dal testatore al legatario, col conseguente obbligo dell’erede di corrispondere quanto eventualmente necessario per integrare il valore della quota. Questa facoltà del legatario è allora compatibile con la nozione del legato in sostituzione di legittima inteso a precludere al legatario di agire per la riduzione delle altre disposizion”. L’Autore enfatizza l’espressione “facoltà” di cui all’art. 551, intendendo la figura come legato tacitativo, salvo diverso volere del legatario, il quale può, ma non deve chiedere l’integrazione. La conseguenza è che il legatario è in conto solo ove il legittimario eserciti, in concreto, la facoltà che gli è stata accordata. In realtà, il legato è in conto di legittima per il semplice fatto dell’integrazione così come disposta dal testatore: il legittimario ha diritto a tutta la sua legittima, che in parte può esser rappresentata dal legato che ad essa va imputato. Nessun rilievo sulla qualifica della fattispecie ha l’atteggiamento del legatario che trattenga il legato senza agire in riduzione per il residuo valore della legittima. In tal caso, infatti, ferma restendo la natura del legato che è e rimane in conto di legittima, si può dire al limite, che ricorra una rinuncia all’azione di riduzione da parte del legittimario leso, il quale vuole salvaguardare la volontà testamentaria del de cuius, anche contro i suoi interessi.

[85] Di Mauro A., Legato in sostituzione di legittima e legato in conto di legittima, in Giust. civ., 1991, I, 2790

[86] ”Il legato di un credito ha effetto per la sola parte del credito che sussiste al tempo della morte del testatore”.

[87] Di talchè la nozione postclassica di successio mortis causa in singulas res dimostra la sua inidoneità, non riscontrandosi alcun subingresso in situazioni giuridiche soggettive facenti precedentemente capo al testatore.

[88] Solo per citarne alcuni:Bianca C.M., op. cit. 564 ss; Giampiccolo G., Il contenuto atipico del testamento. Contributo ad una teoria dell’atto di ultima volontà, Milano 1954; Perego E., I legati, Torino 1970., 246; discorre di obbligazioni ex legato atipiche Criscuoli A., Le obbligazioni testamentarie, Milano 1980, p.154; altri, più cautamente, parlano di legati non espressamente disciplinati dalla legge: Ieva M., Manuale di tecnica testamentaria, Padova 1996, 81.

[89] Santoro-Passarelli F., op. cit., p. 235.

[90] Bigliazzi Geri L., op. cit., p. 42.

[91] L’art. 588 codice civile dunque non prevede dei tipi, ma individua astrattamente il contenuto del testamento, distinguendo tra disposizioni a titolo universale e disposizioni a titolo particolare; e, in effetti, la conferma è data dalla considerazione che una norma con funzione tipizzante mai avrebbe potuto offrire una nozione solo residuale del legato. Bisogna ammettere che la norma vigente è più precisa della corrispondente norma del codice civile del 1865 (art. 827), la quale statuiva che le

disposizioni testamentarie si potessero fare “a titolo” di istituzione di erede o di legato, evocando in maniera palmare il concetto di causalità.

[92] La definizione, più ampia di quella dettata dall’art.1321 codice civile, è di F.Santoro-Passarelli, op.cit., 125; definiscono il testamento quale negozio giuridico. Bigliazzi Geri L., op. cit.,p., 559.

[93] In tal senso Rescigno P., Introduzione alle successioni, in Tratt. dir. priv. diretto da P.Rescigno, 5, Successioni, t.I, Torino 1982, VIII.

[94] Così, e per tutti, Mengoni L., Successioni per causa di morte, Parte speciale. Successione necessaria, in Tratt. dir. civ. comm., già diretto da Cicu e Messineo e continuato da Mengoni, XLIII, t. 2, 4ª ed., Milano, 2000, p. 304.

[95] Mengoni L., op. cit La dottrina, nello sforzo di garantire l’acquisto dei terzi dalla dirompenza degli effetti predetti, aveva escogitato una serie di rimedi giuridici, non tutti per la verità esenti da critiche, quali ad esempio, la fideiussione del donatario, del donante, dei futuri legittimari stessi o bancaria ovvero ancora la risoluzione della donazione per mutuo consenso (sull’argomento, si rinvia a Ieva M., Retroattività reale dell’azione di riduzione e tutela dell’avente causa dal donatario tra presente e futuro, in Giuri it., 1998, p. 1129 ss.; Patti F., Circolazione di immobili provenienti da donazione, in Vita not., 1999, p. 1095 ss.).

[96] Ci riferiamo al legislatore perché le modifiche in commento costituiscono una novità introdotta per la prima volta dal provvedimento di conversione, che ha la forma della legge ordinaria.

[97] In realtà, testualmente la legge non attribuisce il diritto di opposizione ai legittimari, ma al coniuge ed ai parenti in linea retta del donante. Il motivo dell’utilizzo di una simile terminologia è probabilmente dovuto alla preoccupazione di evitare che si possa pensare ad un riconoscimento anticipato, in favore di questi soggetti, di diritti attuali di riserva sul patrimonio del loro congiunto (fuorché, naturalmente, il diritto di opposizione in parola).

[98] L’intralcio, per la verità, riguarda i beni ereditari in senso ampio, compresi dunque anche quelli oggetto di disposizioni testamentarie. Tuttavia, ai fini che ci interessano, si farà riferimento alle sole donazioni.

[99] Applicazione proposta da Ebner A., Azione di riduzione e opponibilità dell’usucapione: la teoria del “doppio effetto”, Giuri it, 2003, p. 1474 ss.. La teoria del doppio effetto (Doppelwirkungen), ascrivibile alla dottrina tedesca, è stata esaminata in particolare da Pugliatti A., nello studio Logica e dato positivo in rapporto ad alcuni fenomeni giuridici anomali, in Grammatica e diritto, Milano, 1978, p. 177 ss.. La teoria è richiamata anche da Gerbo A., Prelegato e funzioni del contenuto testamentario, Padova, 1996, p. 9, che ne sottolinea però l’estraneità rispetto al tema della duplicità o pluralità di effetti del prelegato.

[100] È questo sostanzialmente il pensiero di Mengoni L., op. cit., p. 281.

[101] Nell’ipotesi in cui la donazione risulti mascherata sotto l’apparenza di un contratto oneroso (simulazione relativa) il soggetto interessato all’opposizione dovrebbe preliminarmente far accertare l’effettiva situazione giuridica con l’azione di simulazione. Anche in tale caso egli, secondo un’impostazione assai condivisa, sarà considerato un terzo e come tale sarà esonerato dal rigoroso regime probatorio dettato per le parti.

[102] Nella genesi della norma, può essere utile ricordare come l’emendamento proposto dal Governo il 14 aprile 2005 (n. 2.265), nella seduta n. 660 della 5ª Commissione permanente del Senato (Programmazione economica, bilancio), non contenesse alcun cenno alla trascrizione della donazione, né rispetto all’art. 561, né rispetto all’art. 563. Il 21 detti, però, nella seduta n. 671, esso fu sostituito, a causa di imprecisioni tecniche che l’avrebbero reso poco efficace (come riferiva il Relatore Izzo), dal nuovo emendamento n. 2.1000, nel quale il dies a quo decorreva in entrambi i casi dalla data della trascrizione della donazione. Nel passaggio al testo definitivo, tuttavia, il riferimento alla formalità della trascrizione è scomparso nel solo art. 563, e di ciò, per quanto ci risulta, non si trova traccia nei lavori preparatori.

[103] Il riferimento a tale momento sembrerebbe in contrasto con quanto affermato da Cass., 15 giugno 1999, n. 5920, in Vita not., 1999, p. 1252 ss., con nota di Sammartano S. (la quale, trattando un caso di successione testamentaria, afferma che la prescrizione dell’azione di riduzione non può che decorrere dalla data di pubblicazione del testamento e non da quella di apertura della successione; tanto si desumerebbe dagli artt. 620 e 623 in relazione all’art. 2935), e, da ultimo, da Cass., sez. un., del 25 ottobre 2004, n. 20644, in Dir. giust., 2004, p. 20 (per la quale il termine di prescrizione decorre dalla data dell’accettazione da parte del chiamato istituito), dal momento che l’ultimo inciso dell’art. 561, comma 1, non distingue tra successione legittima e successione testamentaria, lasciando così aperta la possibilità che il principio affermato (decorrenza del termine di prescrizione dalla data di apertura della successione) valga in ogni caso.

[104] Analogamente, BUTANI A., Eredità, «legittima» a tempo determinato, in Il Sole-24 Ore – Obiettivo sviluppo, 14 maggio 2005, p. 2.

[105] Sembra possa applicarsi alla fattispecie quanto già affermato da Mengoni L., op. cit., p. 307, in tema di riduzione, secondo cui la aestimatio rei non è fatta con riferimento al momento dell’apertura della successione, ma al momento della sentenza che accoglie la domanda di riduzione.

[106] La dottrina (Ferri L., Dei legittimari (artt. 536-564), in Comm. c.c., a cura di Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1971, p. 207) interpreta tale norma nel senso che, ove vi siano più donatari, la domanda di restituzione dovrà essere proposta contro l’avente causa del donatario più recente, senza tener conto del momento in cui è avvenuta l’alienazione. Insomma gli aventi causa vanno colpiti nello stesso ordine in cui andrebbero colpiti i loro autori donatari, e ciò senza che abbia rilevanza alcuna l’onerosità o gratuità del loro titolo, o la data del medesimo. Quando invece si assista a più alienazioni da parte dell’unico donatario (es.: Tizio, donatario dei beni Alfa e Beta, aliena il primo a Caio e, successivamente, il secondo a Sempronio), vale il disposto dell’art. 563, comma 2, primo periodo («L’azione per ottenere la restituzione deve proporsi secondo l’ordine di data delle alienazioni, cominciando dall’ultima»).

[107] Cfr. Zattoni K., Successione e donazione: commentario giurisprudenziale, Forlì, 2008; Capozzi G., Successioni e donazioni, I, 2ª edizione, Milano, 2002; Cendon P., Commentario al Codice Civile, vol. II, Torino, 1999.

[108] Carraro L., La vocazione legittima alla successione, Padova, 1979; Cattaneo G., La vocazione necessaria e la vocazione legittima, in Trattato di diritto privato diretto da P. Rescigno, 5, I, Le successioni, 2ª ed., Torino,  1997, p. 435.

[109] Cass. civ., Sez. II, 11/03/2008, n. 6449, in Mass. Giur., numero fascicolo, 2008, pagina.

[110] Il concetto di “vocazione” è stato formulato dalla dottrina per distinguere tra le ipotesi in cui l’individuazione del chiamato all’eredità avvenga per testamento o per legge, mentre sono esclusi i negozi inter vivos.

[111] Nel sistema del diritto romano: “delata hereditas intelligitur quam qui possit adeundo consegui” ( D. 50.16.151).

[112] Quanto all’acquisto dell’eredità il diritto romano distingueva due categorie di eredi: i “ necessarii” e gli “extranei” o “voluntari”. Eredi “necessarii” erano il “filius familias” “in protestate” alla morte del “pater” (“heres suus et necessarius”) e lo schiavo istituito erede dal padrone “cum libertate” (“heres necessarius”). Costoro acquistavano l’eredità “ipso iure” all’atto della delazione, senza possibilità di rifiutarla. Tutti gli altri eredi erano “extranei” o “voluntarii”, nel senso che l’acquisto dell’eredità permaneva subordinato alla loro volontà di accettarla.

[113] Cfr., da ultimo, Cass. 6 maggio 2002, n. 6479, in Rep. Foro it., 2002, voce Successione ereditaria, n. 48.

[114] Il  negozio di adesione, secondo Ferri L., Disposizioni generali sulle successioni, 3ª ed., in Comm. cod. civ. Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1997, p. 237; Azzariti g., L’accettazione dell’eredità, in Tratt. dir. priv. diretto da Rescigno, vol. 5, Torino, 1982, p. 112; secondo Santoro Passarelli F., Dottrine generali del diritto civile, 9 ed., Napoli, 1976, p. 217, appartiene al genere dei negozi complementari

[115] In proposito, Azzariti G., op. cit., p. 38

[116] cfr. Trib. Cagliari, 23 dicembre 2000, in Riv. giur. sarda, 2001, p. 805, con nota di Tegas G., Appunti sull’azione interrogatoria.

[117] CICU A., Successione legittima e dei legittimari, Milano, 2ª ed., 1943.

[118] Si veda Azzariti G., op. cit., p. 38

[119] v. Natoli A., voce “Chiama­to alla successione”, in Enc.  dir., VI, Milano, 1960, p. 921 e ss.

[120] Chiaro è, peraltro, che la delazione rimane, in ogni caso, un fenomeno legale derogabile dalla volontà privata soltanto per la designazione del chiamato e la determina­zione del lascito: v. Ferri L., op. cit., p. 79.

[121] Trabucchi-Rasi Caldogno C., voce “Successioni (diritto civile): successione legittima”, in Noviss. Dig. it., XVIII, Torino, 1971, p. 765.

[122]Cfr.  Mengoni L., Sentenze d’un anno. Successioni, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1994, 182.

[123] (Sulla base di tali principi la S.C. ha ritenuto che correttamente il giudice di merito avesse ritenuto inopponibile ai legittimari la sentenza, intervenuta fra il “de cuius” e l’erede, con la quale era stata accertato in favore di quest’ultimo l’usucapione del bene. Peraltro la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza impugnata, in quanto, dopo aver escluso che nella fattispecie oggetto della sentenza di accertamento dell’usucapione riconnesso gli estremi formali di una donazione, non aveva verificato se ricorressero quella della donazione indiretta). (Cass. civ. Sez. II Sent., 29/05/2007, n. 12496, in Mass. Giur. It., 2007).

[124] App. Roma Sez. III, 17/07/2007. in senso conforme App. Bologna Sez. I Sent., 25/10/2007 per cui Il legittimario pretermesso non è chiamato alla successione e perciò non partecipa alla comunione per il solo fatto della morte del de cuius, potendo acquistare i suoi diritti solo dopo l’esperimento delle azioni di riduzione e di annullamento del testamento, ovvero dopo il riconoscimento dei suoi diritti da parte dell’istituito. Qualora l’azione dell’erede sia tendente al mero scioglimento della comunione, previa collazione delle donazioni, eventualmente anche dissimulate, la stessa viene esercitata mediante il subentrare nella posizione del de cuius, e, pertanto, non determina l’acquisto della qualità di terzo in capo all’attore.

[125] Barsacchi A., L’ azione di riduzione, Milano, 1994; Bova G., Elementi di diritto civile e di diritto notarile, Padova, 2008.

[126] Così App. Roma 12 luglio 2000, in Vita not., 2001, n. 1, 87 ss., con nota di R. Criscuoli, La posizione giuridica del legittimario.

[127] Così Mengoni L., Delle successioni legittime, in Commentario del codice civile Scialoja-Branca, Bologna- Roma, 1985, 87.

[128] Cfr. Pino A., La esclusione testamentaria dalla successione legittima, Roma Bari, 1955.

[129] Amadio C., La divisione del testatore senza predeterminazione di quota, in Riv. dir. civ., 1986, I, 253: la divisione testamentarie può essere attuata sia mediante predeterminazione di quote astratte, sia mediante una pluralità di istituzione ex re. Se il testatore ha fatto precedere la distribuzione del patrimonio dalla preventiva istituzione in quote astratte, il legittimario può trovarsi nella condizione di erede istituito, che il testatore ha omesso di prendere in considerazione nel riparto dei beni. Mentre la preterizione dell’erede istituito non è ravvisabile che in questa ipotesi, la preterizione del legittimario, può avere luogo anche nella divisione testamentaria attuata mediante istitutiones ex re certa.

[130] Cfr. Cass. 6 ottobre 1972 n. 2870.

[131] MENGONI L., op. cit., 73

[132] MENGONI L., op. cit., 108.

[133] MENGONI L., La divisione testamentaria, Milano 1950, 104-106; contra AMADIO C., op. cit.,

260, il quale rileva come sia contraddittorio ammettere la nozione di apporzionamento ex lege a favore del legittimario e poi considerare nulla la divisione sei beni non sono sufficienti, per la disparità di trattamento con la fattispecie prevista nell’art. 735, comma 2: si avrà nullità della divisione se l’apporzionamento insufficiente trova il titolo nella legge ed invece semplice riducibilità per lesione di legittima, nel caso che l’assegnazione inidonea a soddisfare la riserva sia disposta dal testatore.

[134] Mengoni L., Successioni per causa di morte. Successione necessaria, t. 2, Milano 2000, 112: non è incompatibile col concetto di quota che questa sia formata con un diritto di credito verso i coeredi, salvo il diritto del legittimario di rifiutare l’attribuzione.

[135] Cfr. Cass. 2 ottobre 1974 n. 2560, in Foro it. 1975, I, 82; Cass. 23 marzo 1992 n. 3599, in Nuova giur. civ. comm., 1994, 819; Cass. 12 marzo 2003 n. 3694.

[136] Cfr. Mengoni L., op. ult. cit., 235 n. 32: la riduzione opera sia nel caso di istitutiones ex re del legittimario in quantità insufficiente, sia nel caso di apporzionamento insufficiente preceduto da una istituzione del legittimario in quota astratta, non importa se minore o pari alla quota di riserva.

[137] Stolfi G, Sulla figura del legittimario, Padova 1967, pp. 89-90.

[138]Ferri L., op. cit., pp. 158-159.

[139] Mengoni, L. op. cit., p. 232. In giurisprudenza, per l’affermazione della natura di impugnativa negoziale, in relazione all’azione in esame, v.: Cass. 22 marzo 2001, n. 4130, in Riv. not., 2001, p. 1503, con nota di A. Zanni.

[140] Per tale opinione, si vedano: Santoro Passarelli F., op. cit., p. 307;  Barassi L., Le successioni per causa di morte, Milano, 1941, p. 280.

[141] Mengoni L., op. cit., p. 232.

[142] Santoro Passarelli F., Dottrine generali del diritto civile, 9ª ed., Napoli, 1966, pp. 263-264.

[143] Sulla natura costitutiva della pronunzia di riduzione, si vedano, in particolare: Messineo F., Manuale di diritto civile e commerciale, Milano 1972, pp. 362-363; Bonilini G., Manuale di diritto ereditario e delle donazioni, Torino 2006, p. 151. La giurisprudenza condivide la tesi della dottrina maggioritaria: Cass. 26 novembre 1987, n. 8780, in Giust. civ., 1988, I, p. 367, con nota di Giu. Azzariti.

[144] Bonilini G., op. cit., p. 151.

[145] Per la natura reale dell’azione:Ferri L. op. cit., p. 202.

[146] Mengoni Lop. cit., p. 314.

[147] È la tesi di Messineo F., op. cit., pp. 363-364.

[148] Sottolineano il carattere personale dell’azione: Azzariti F., Martinez G., Azzariti G., op.  cit., p. 237.

[149] Al riguardo è interessante una pronunzia della Suprema Corte che ha esteso la possibilità di agire per la restituzione dei beni relitti nei confronti dei terzi aventi causa, ai sensi dell’art. 563 c.c., anche nell’ipotesi di disposizioni testamentarie lesive, ancorché la norma menzionata faccia espresso riferimento al caso della donazione. Secondo il Supremo Collegio, ricorrerebbe, tra le varie ipotesi sopra indicate, perfetta identità di ratio, tale da consentire l’applicazione analogica della norma sopra indicata: Cass. 22 marzo 2001, n. 4130.

[150] Cass. 27 settembre 1996, n. 8529, in Mass. Giur. it., 1996.

[151] Cass. 5 dicembre 1966, n. 2845, in Mass. Giur. it., 1966.

[152] Per tale opinione: Messineo F., op. cit.,p. 363; Mengoni L., op. cit., pp. 231-232.

[153] Nel senso che la sentenza che accoglie la domanda di riduzione è dotata di efficacia retroattiva, v.: Bonilini G., op. cit., p. 151;  Mengoni L., op. cit., p. 301.

[154] Per questa tesi, si veda Messineo F., op. cit., p. 351.

[155] Cfr. Mengoni L., op. cit., p. 302. Del pari, ritiene che i frutti siano dovuti dal giorno della domanda, nel caso analogo dell’accoglimento dell’azione revocatoria ordinaria Bianca C.M., Diritto civile,5, La responsabilità, Milano, 1994, p. 456.

[156] Si veda, al riguardo, Bonilini G., op. cit., p. 156.

[157] Opinione pressoché unanime in dottrina. Si veda, per tutti, Mengoni L.,  op  cit., p. 304 e nota 215.

[158] Va richiamata, al riguardo, la nota tesi di Mengoni L., op. cit., p. 308, il quale ravvisa, nel caso in esame, un diritto potestativo di riscatto, a favore del terzo acquirente, subordinato alla condizione della corresponsione al legittimario del valore del bene da restituire.

[159] Si veda, al riguardo, Messineo F., op. cit., p. 351. Secondo Cass. 5 giugno 2000, n. 7478, in Mass. Giur. it., 2000, il valore del bene andrebbe determinato con riferimento al momento dell’apertura della successione. La somma così stabilita dovrebbe poi essere rivalutata, in relazione al lasso temporale intercorrente tra il momento dell’apertura della successione ed il momento della liquidazione. Secondo Cass. 23 ottobre 2001, n. 13003, in Giur. it., 2002, c. 1608, invece, il valore del bene deve essere determinato con riferimento al momento della pronunzia di riduzione.

[160] Sul punto, si rinvia a  Bonilini G., op. cit., p. 149.

[161] Cass. 3 dicembre 1996, n. 10775, cit.

[162] Mengoni L., Successioni per causa di morte, Parte speciale, Successione necessaria, in Trattato di diritto civile e commerciale, già diretto da A. Cicu e F. Messineo e continuato da L. Mengoni, Vol. XLIII, t. 2, 4° ed., Milano 2000, p. 323. Secondo l’A. la causa del disinteresse della dottrina sull’argomento sarebbe dovuta alla riduzione al decennio del termine di prescrizione dell’azione di riduzione e alla previsione di cui all’art. 2652, secondo comma, n. 8, c.c. In argomento cfr. anche Calapso C., Brevi cenni sulla possibilità di acquisto per usucapione di immobile pervenuto agli aventi causa del donatario, contro il quale il legittimario agisca in riduzione, in Giust civ., 1986, p. 1115 ss.

[163] Cfr. Cass. 18 ottobre 1991, n. 11024, in Giust. civ., 1992, p. 1293 ss.; Cass. 19 ottobre 1993, n. 10333, in Giust. civ., 1994, p. 1282 ss.; Cass. 27 ottobre 1995, n. 11203, in Giust. civ., 1996, p. 375 ss., con nota di Triola.

[164] Amendolagine V, L’accertamento dell’usucapione tra legittimazione ad agire e natura giuridica dell’actio promossa dall’avente diritto, in Il Corriere del merito, 2007, 4, p. 471.

[165] Cfr. Palazzo A., Le successioni, in Trattato di diritto privatoa cura di G. Iudica e P. Zatti, 2ª ed., Milano 2000, p. 595, e Cass. 22 giugno 1963, n. 1679, in Vita not., 1963, p. 478.

[166] Cfr. Mengoni L., op. cit., p. 230 ss.; Palazzo A., op. cit., p. 566 ss; Capozzi G., Successioni e donazioni, 2ª ed., Milano 2002, p. 304 ss.; in giurisprudenza, Cass. 26 novembre 1987, n. 8780, in questa Rivista, 1988, p. 1397 ss.; Cass. 12 maggio 1999, n. 4698, in Giust. civ. mass., 1999, p. 1063; Cass 22 marzo 2001, n. 4130, in questa Rivista, 2001, p. 1503 ss.; Cass. 12 aprile 2002, n. 5323, in Giust. civ. mass., 2002, p. 638.

[167] Azzariti F., Martinez G. e Azzariti G., Successioni per causa di morte e donazioni, Padova 1979, p. 284. La natura personale dell’azione di restituzione impedirebbe di poter ad essa opporre l’eccezione di usucapione.

[168] Per Pugliese A. (Opponibilità dell’usucapione al legittimario che agisce in riduzione, nota a Cass. 6 marzo 1952, n. 606, in Nuova giur. comm., 1952, p. 368 ss.), dalla natura reale dell’azione in esame deriverebbe l’opponibilità dell’usucapione al legittimario (come avviene per il terzo che la oppone all’erede che agisce con la petitio hereditatiso al proprietario che agisce in rivendica).

[169] Palazzo, op. cit., p. 587 ss.; Capozzi G., op. cit., p. 316 ss.; Mengoni L., op. cit., p. 315 ss.; Cass. 22 marzo 2001, n. 4130, cit.

[170] Cicu A., Successioni per causa di morte, Milano 1947, p. 246 ss.

[171] L’art. 563 c.c. fa riferimento solo agli aventi causa dai donatari, ma parte della dottrina ritiene applicabile la stessa regola anche per gli acquirenti da eredi o legatari (v. Mengoni L., op. cit., p. 324).

[172] Salva l’ipotesi di testamento olografo, nel qual caso il termine inizia a decorrere dalla pubblicazione del testamento (cfr. Cass 15 giugno 1999, n. 5920, in Giust. civ., 2000, p. 3293).

[173] Cfr. Mengoni L., op. cit., p. 282. Il discorso va esteso agli aventi causa di successori mortis causa, per i quali, ovviamente, non si pone il problema di una usucapione prima dell’apertura della successione. Ammette l’usucapione Pugliese A. (op. cit., p. 368 ss.), ma quale conseguenza della natura reale dell’azione di riduzione. Sembra ammettere l’usucapione anche Cattaneo C., in Trattato di dir. priv. diretto da P. Rescigno, vol. 5, t. 1, 2ª ed., Torino 1997, p. 468 ss., mentre Ferri L., op. cit., p. 233 ss., la esclude sia per i donatari, in quanto acquirenti a domino (p. 267), sia per i loro aventi causa (p. 232), giustificando l’esclusione anche alla luce della previsione di cui all’art. 2652, numero 8, c.c. Secondo parte della dottrina l’usucapione abbreviata potrebbe verificarsi anche a favore del legatario di cosa che successivamente risulti essere di un terzo (Palazzo A., op. cit., p. 652), ma la espressa sanzione della nullità (art. 651 c.c.) fa propendere per la tesi opposta.

[174] Mengoni L., op. cit., p. 323 ss. A ben vedere, però, l’interruzione dell’usucapione dovrebbe verificarsi, anche per il diretto avente causa del donante/de cuius, solo con un’azione reale e recuperatoria (come è considerata dalla dottrina prevalente l’azione di restituzione verso il beneficiario o il suo avente causa), e non con una mera azione personale, come è generalmente considerata l’azione di riduzione.

[175] Mengoni L., op. cit., p. 324, il quale, inoltre, equipara la posizione degli acquirenti di beni immobili a quella degli acquirenti di beni mobili, per i quali ultimi il legislatore fa salvi gli effetti del possesso di buona fede (art. 563, comma 2, c.c.).

[176] Come del resto in ogni ipotesi di acquisto per usucapione abbreviata in base a un titolo, originariamente efficace, che perda poi tale qualità, ad esempio perché annullato. Cfr. Regine A., in nota a Cass. 18 ottobre 1991, n. 11024, in Nuova giur. civ. comm., 1992, p. 432 ss. (con richiami di dottrina a p. 437).

[177] Salvo, ovviamente, che si aderisca alla tesi, attualmente minoritaria, del Cicu.

[178] Si vedano in particolare, Cass. 19 ottobre 1993, n. 10333, e Cass. 27 ottobre 1995, n. 11203.

[179] Dal quale momento potrà agire contro i terzi con l’azione restitutoria.

[180] Mengoni L., op. cit., p. 281 ss.

[181] Capozzi G., op. cit., p. 305.

[182] Cass. 27 ottobre 1995, n. 11203, cit., con nota contraria di Triola e, in dottrina, Gazzoni, È forse ammessa la diseredazione occulta dei legittimari?, nota a Corte App. Roma 25 ottobre 1993, in Giust. civ., 1993, p. 2522 ss.

[183] Mengoni L., op. cit., p. 281.

[184] Va però rilevato che ove egli venga convenuto in rivendica da un terzo, solo apparentemente non muta la sua situazione sostanziale, essendo egli sempre proprietario; in realtà, diverso essendo il suo titolo di acquisto, la sua posizione sostanziale e processuale non è identica. Vi è, inoltre, il superamento della onerosa probatio diabolica, per cui l’utilità dell’acquisto a titolo originario è evidente.

[185] Irti N., Titolo non trascritto e possesso «ad usucapionem» di servitù prediale, in Rass. giur. Enel, 1973, p. 3 ss, in riferimento a Cass. 2 ottobre 1972, n. 2809, nella stessa rivista, p. 22 ss; l’Autore riconosce, però, l’utilità dell’acquisto per usucapione ove il precedente titolo non sia stato trascritto. V. anche Bianca C.M., Diritto civile, vol. 6, La proprietà, Milano 1999, p. 814 ss. In ordine al diverso ma altrettanto dibattuto problema della ripetizione del negozio, soprattutto in ordine alla sua causa, v. lo stesso Irti N., La ripetizione del negozio giuridico, Milano 1970, p. 187 ss.; Gazzoni F., La trascrizione immobiliare, in Il codice civile Commentario, dir. da P. Schlesinger, tomo primo, 2ª ed., Milano 1998, p. 428 ss.; Casella A., voce Ripetizione del negozio, in Enc. giur. Treccani, vol. XXVII, Roma, 1991.

[186] Salvi C., In tema di usucapione «a domino», in Riv. trim. di dir. e proc. civ., 1955, p. 117 ss.; Segrè-Montel T., Il possesso, in Trattato di diritto civile italianodir. da F. Vassalli, vol. V, tomo quarto, Torino 1956, p 260 ss.

[187] La situazione psicologica del possessore rileva, invece, in ordine ad altri effetti, quali gli obblighi inerenti la restituzione dei frutti e i termini per maturare l’usucapione.

[188] Come previsti nel Capo III, Titolo VIII del Libro Terzo del codice civile.

[189] Si veda, in proposito, Cass. 27 ottobre 1995, n. 11203, che limita l’acquisto per usucapione al solo caso di titolo invalido o a non domino, ma che successivamente riconosce l’ammissibilità dell’usucapione per superare la probatio diabolica.

[190] V. tra gli altri, Engisch C., Introduzione al pensiero giuridico, a cura di A. Baratta, Milano 1970.

[191] Il problema si manifesta qualora vi sia un nuovo atto di disposizione da parte di colui che, in realtà, non è più proprietario, in quanto ha già disposto del suo bene. V. in proposito Cass. 2 ottobre 1972, n. 2809 e, in generale, sulla efficacia della trascrizione da parte del secondo acquirente, Gazzoni F., op. cit., p. 513 ss. Sul dibattito circa l’ammissibilità della vendita di un bene usucapito prima della sentenza dichiarativa della maturata usucapione, questione dibattuta, ma non rilevante ai fini del presente discorso vedasi, da ultimo, Cass. 12 novembre 1996, n. 9884, in Riv. Not., 1998, p. 995 ss.

[192] Dall’invalidità del negozio può derivare in ogni caso l’eliminazione del negozio, ma questa si ottiene con modalità e conseguenze parzialmente diverse a seconda che si agisca per annullabilità o per nullità.

[193] Capozzi G., op. cit., p. 316 ss.; Mengoni L., op. cit., p. 306 ss.

[194] Il discorso è identico, si ripete, per i successori mortis causa e per i loro aventi causa, ma con la rilevante differenza che per essi il decorso del ventennio è di difficile realizzazione.

[195] Ovvero, in caso di testamento, con l’atto dispositivo da parte del legatario o dell’erede.

[196] Cfr. Palazzo  A., op. cit., p. 586 ss.

[197] Salvi gli effetti della trascrizione immobiliare; nel caso in esame si tratta, come detto, di acquisti a titolo originario, per i quali non vi è spazio per l’applicazione dell’art. 2644 c.c.

[198] Nonché dei loro eventuali aventi causa, soprattutto se a titolo oneroso, a meno di non volerli ritenere «colpevoli» solo per aver acquistato il bene con la consapevolezza della sua provenienza e del rischio dell’eventuale azione di riduzione nei loro confronti. Tale consapevolezza non può comunque portare ad escludere la buona fede per gli effetti di cui all’art. 563, comma 2, c.c., anche perché non si può imporre agli acquirenti di beni donati (o pervenuti per successione) l’onere di valutare la riducibilità del titolo del proprio dante causa (Mengoni L., op. cit., p. 322).

[199] La c.d. cautela sociniana, diversamente dall’azione di riduzione, appresta la tutela del legittimario, assicurandogli la piena proprietà della quota di legittima, salvo il caso in cui il riservatario preferisca la nuda proprietà, quantitativamente superiore alla spettanza per legge, ma con l’aggravio di usufrutto, assimilabile ai pesi e condizioni, vietati sulla legittima. Trib. Napoli, 17/04/1997.

[200] Mengoni L., op. cit. 159 ss., e ivi ulteriori riferimenti bibliografici e giurisprudenziali.

[201] Ceolin M., La determinazione della quota di riserva e alcune considerazioni in tema di rinuncia all’azione di riduzione, rinuncia all’eredità e accrescimento in Rivista del Notariato, 2008, 1, p. 201 ss.; Gabrielli E., Dei legittimari, in Commentario al diritto italiano della famiglia a cura di Cian, Oppo e Trabucchi, V, Padova, 1992, p. 40 ss.; Lipari N.,  Autonomia privata e testamento, Milano, 1970.

[202] Baldissara F., Accrescimento nella successione legittima e nella successione dei legittimari in Vita notarile, 2007, fasc. 2, pagg. 931-946.

[203] Cfr. Barbero D., Sistema istituzionale del diritto privato italiano, Torino 1965, II, 1038 ss.

[204] Si vedano in tal senso Cass., 24 gennaio 1957 n. 221, Giust. civ. Rep. 1957, v. Successioni, 64, e Cass., 26 ottobre 1976 n. 3888, Giust. civ. Mass. 1976 secondo cui nella successione necessaria la quota spettante al legittimario rinunciante si accresce in favore degli altri legittimari accettanti: conseguentemente, nel caso di accettazione dell’eredità da parte di uno solo dei figli del de cuius, la quota di riserva spettante all’accettante va determinata, ai fini della riduzione delle donazioni lesive della legittima, nell’intera porzione legittima riservata complessivamente ai figli del de cuius e non già sulla parte individuale che sarebbe toccata all’accettante se egli avesse diviso con i fratelli la porzione suddetta. Per la giurisprudenza di legittimità in tal senso si vedano App. Torino 4 febbraio 1983 e Trib. Torino 6 luglio 1985.

[205] Così Cariota Ferrara L., Le successioni per causa di morte, Parte generale, Napoli, 1988., 237 ss.; Piras S., Successioni per causa di morte, Parte generale, Successione necessaria, in Trattato di diritto civile a cura di Grosso e Santoro Passarelli, II, 3, Milano 1965, 204 ss.

[206] Sulla differenza tra rinunzia all’eredità e rinunzia alla legittima, nel senso che la prima non comporta anche la seconda si veda  Ferri L., op. cit. 16.

[207] Masi A., Del diritto di accrescimento: art. 674-678, Bologna, 2005.

[208] Così in dottrina, Mengoni L. op. cit., 163; Ferri, op. cit., 31; da ultimo sembra aderire a tale posizione anche Palazzo A., Accrescimento, in Digesto disc. priv., sez. civ., I, Torino 1987, 52. In giurisprudenza si veda: Cass., 11 maggio 1962 n. 949, Foro it., 1963, I, 194; Cass. 9 marzo 1987 n. 2424, in Giust. civ. 1987, I, 1046, con nota di G. Azzariti, Criteri per il calcolo della riserva nel caso di rinunzia da parte di alcuno degli aventi diritto. Questa sentenza ha cassato App. Torino 4 febbraio 1983. A sua volta l’App. Torino citato aveva confermato la sentenza del Trib. Torino 6 luglio 1981.

[209] Mengoni L., loc. cit.

[210] Nanna C., Successioni future e rinunzia all’azione di riduzione : tra divieto attuale e prospettive di riforma,  Bari 2000, Spinelli I., La successione dei legittimari, Milano 1989; Toti B., Successioni a causa di morte e donazioni, Padova 2005.

[211] Ciò accade quando il legittimario, chiamato anche ex testamento o ex lege, accetti l’eredità ovvero allorquando il legittimario totalmente pretermesso o, soltanto leso dalla successione testamentaria, agisca con l’azione di riduzione, ovvero, ancora, quando si proceda alle operazioni di scioglimento della comunione ereditaria.

[212] Cfr. in tal senso Ferri L., op. cit., 7 ss., secondo cui, appunto, la quota di legittima è pars bonorum e non pars hereditatis. In senso contrario Cicu A., Successione legittima e dei legittimari, Milano 1947, 214 ss., spec., 225 secondo cui va distinta la quota di riserva dalla quota di legittima per cui la prima si acquista, da parte del legittimario, in via diretta al momento dell’apertura della successione.

[213] Cfr. Ferri L., op. cit., 9.

[214] Sull’esatta interpretazione del termine “quota di eredità” si veda Ferri L., op. cit., 7 ss.

[215] Un’ipotesi di accrescimento, in realtà, potrebbe aversi solo nel caso in cui, istituiti per testamento due figli nei due terzi del relictum (ossia una quota eguale alla riserva), se uno dei figli rinunzia all’eredità, la sua quota si accresce all’altro figlio che diventa erede per i due terzi, ma ciò accade solo per l’operatività, in questo caso, dell’art. 674 comma 2 c.c., versandosi, come è ovvio, in un’ipotesi di successione testamentaria (così Mengoni L., op. cit., 163, nota 14).

[216] Così Mengoni L., op. cit., 163.

[217] Così in dottrina Messineo F., op. cit, 303 ss.; Ferri L., op. cit., 31; Capozzi G., op. cit.  533; Perrone-Capano T., Sulla quota spettante al legittimario che solo accetta l’eredità in caso di rinuncia degli altri legittimari, in Riv. dir. priv. 1944, II, 1 ss.  In giurisprudenza si vedano, oltre alla sentenza in epigrafe, Cass. 9 marzo 1987 n. 2434, cit.; Cass. 11 maggio 1962 n. 949.

[218] Cfr. Ferrari S., L’accrescimento, in Trattato di diritto privato diretto da P. Rescigno, 6, II, Torino 1982, 260 ss.

[219] Così, Ferrari S., op. cit., 264.

[220] È questa l’ipotesi concreta oggetto della sentenza della S.C. 26 ottobre 1976 n. 3888.

[221] Ferri L, op. cit.  p. 109.

[222] Per i termini del relativo dibattito, si vedano, per tutti, Cicu A., op. cit., p. 219 ss.; Grosso e Burdese A.,  op. cit. p. 343 ss.

[223] Ferri L., op. cit., p. 117; Grosso e Burdese A., op. cit., p. 347 ed a p. 344.

[224] Da un punto di vista storico, la teoria che assimilava l’azione in parola a quella revocatoria sembra essere coerente (se si eccettua il requisito dell’eventus damni) con i princìpi del sistema nel quale l’impugnazione della rinuncia da parte dei creditori fu concepita (esalta invece la somiglianza con l’azione surrogatoria, anche dal punto di vista storico, Pardini C., Impugnazione della rinuncia e autorizzazione ad accettare l’eredità in nome e luogo del rinunciante, in Giust. Civ., 1992, p. 747). Infatti, come riferisce Coviello L. (jr.), Diritto successorio, Bari, 1962, p. 369 (nota 98), l’art. 949 c.c. del 1865 (cui oggi corrisponde l’art. 524 c.c.) costituiva l’omologo dell’art. 788 del codice napoleonico, ed è noto come nel diritto francese l’eredità si acquistava ipso iure (salvo rinuncia). Conseguentemente, la rinuncia all’eredità non comportava una mera omissio acquirendi, ma la dismissione di diritti che già si trovavano (sebbene non in via definitiva) nel patrimonio del rinunciante.

[225] Gazzoni F., Manuale di diritto privato, Napoli, 2007, p. 457.

[226] Pontrelli M., La reintegrazione dei diritti del legittimario : azione di riduzione ed interesse dei creditori, Bari 2001.

[227] La dottrina infatti esclude che si possa agire ex art. 2900 c.c. al fine di rendere erede il rinunciante (per tutti, Grosso e Burdese A., op. cit., p. 343; Mengoni L., op. cit. pp. 244-245; Messineo F., op. cit. p. . 453). Ritiene invece trattarsi di una «peculiare figura di azione surrogatoria» Bianca C.M., Diritto civile. II. La famiglia – Le successioni, Milano, 1989, p. 477.

[228] Coviello L. (jr.), Diritto successorio, Bari, 1962, p. 381.

[229] Gazzoni, La trascrizione immobiliare, in Comm. c.c., diretto da Schlesinger, t. II, Milano, 1993, p. 120. Della stessa opinione Bonilini G., Manuale di diritto ereditario e delle donazioni, Torino, 2000, p. 117; Mengoni L., op. cit., p. 244. In senso contrario, Bianca C.M., op. cit., p. 478 («Erede deve piuttosto considerarsi il rinunziante sia pure nella stretta misura in cui l’acquisto dei beni ereditari vale a soddisfare le pretese dei suoi creditori»).

[230] Così Coviello L. (jr.), op. cit., p. 380.

[231] Azzariti G., L’impugnativa della rinunzia all’eredità da parte dei creditori e l’azione di riduzione in surrogatoria del debitore, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1976, p. 783.

[232] Ferri L., op. cit., p. 109. Nello stesso senso, implicitamente,  Coviello L. (jr.), op. cit., p. 372.

[233] Per tutti, Ferri L., op. cit., p. 114.

[234] Bianca C.M. op. cit. p. 256.

[235] Sul punto si rinvia a Gentile A., La trascrizione immobiliare, Napoli, 1959, p. 459 ss.

[236] Così Cass., 12 giugno 1964, n. 1470, in Mass. Foro it., 1964, 379; Id., 18 gennaio 1982, n. 310, in Riv. Not, 1982, p. 308; Id., sez. II, 25 marzo 1995, n. 3548, in Corr. giur., 1995, p. 1086 (ed in Giur. it., 1996, I, 1, p. 654); Id., sez. I, 25 marzo 1995, n. 3584 (in motivazione), in Corr. giur., 1995, p. 1085 (ed in Giur. it., 1996, I, 1, p. 650, con nota di Cimei) e, da ultimo, Id., 24 novembre 2003, n. 17866, in CED della Corte di Cassazione. Nella giurisprudenza di merito, affermano la legittimazione passiva del solo debitore rinunciante, Trib. Mantova, 28 aprile 1998, in Giur. it., 2000, I, p. 525 (con nota di Maruffi) e, in motivazione, Trib. Reggio Emilia, 3 maggio 2000, in Nuova giur. civ. comm., 2001, I, p. 746 (punto 7). In dottrina, Mengoni L., op. cit., p. 243.

[237] Individua nel chiamato rinunziante il soggetto contro cui trascrivere la domanda, senza tuttavia analizzare diffusamente il tema in esame, Gazzoni F., op. cit., p. 121.

[238] La tesi fu sostenuta da RIVEDA A., Riflessioni intorno alla cosidetta impugnazione della rinuncia all’eredità e la perdita del diritto di accettare, Roma 2003, p. 933.

[239] Ferri L., op. cit., p. 108 e, implicitamente, Coviello L. (jr.), op. cit., p. 380.

[240]  Coviello L. (jr.), op. cit., p. 385.

[241] Sull’impossibilità di trascrivere la rinuncia all’eredità, si vedano, da ultimo, Gazzoni F., op. ult. cit., p. 127; Triola A., La trascrizione, in Tratt. dir. priv., diretto da Bessone, IX, Torino, 2000, p. 188; e già Gentile A., op. cit., p. 180; Mascheroni R., La rinunzia all’eredità, in Riv. not. , 1959, p. 255; Ferri L., La trascrizione degli acquisti “mortis causa” e problemi connessi, Milano, 1951, p. 121.

[242]  Ferri L.,  op. cit., p. 115; Grosso e Burdese A., op. cit., p. 350.

[243] Capozzi G., op. cit, p. 215; Cicu A., op. cit., p. 223;, Ricca a., voce Trascrizione delle domande giudiziali, in Enc. giur. Treccani, p. 6 e Triola A., op. cit., p. 187, i quali affermano che la trascrizione deve essere curata anche nei confronti dell’erede.

[244] Ferri L., op. ult. cit., p. 112, ripreso da Grosso e Burdese A., op. cit., p. 350.

[245] Cicu A., “Come in quella è,  necessario chiamare in giudizio il debitore ed il terzo acquirente, così in questa l’azione dovrà proporsi contro il rinunziante e contro l’erede accettante”. In senso contrario è stato obiettato che l’azione revocatoria mira a recuperare nel patrimonio del debitore un diritto che vi si trovava prima dell’atto dispositivo (nel nostro caso, la rinuncia), mentre l’art. 524 c.c. presuppone una rinuncia all’eredità, ciò che ha proprio impedito l’ingresso dei beni nella sfera del debitore.

[246] Si ricorda che la funzione della trascrizione delle domande giudiziali è del tipo “prenotativi” in favore dell’attore; mira cioè a consentire la retroattività degli effetti della sentenza eventualmente a lui favorevole al momento in cui fu curata la trascrizione della domanda. Così, tra gli altri, Gazzoni F.,  op. cit., p. 82.

[247] Peraltro confermato, successivamente dalla decisione Cass., 24 novembre 2003, n. 17866.

[248] Così testualmente Triola A., op. cit., p. 188; nello stesso senso già Gentile, op. cit., p. 472.

[249] Dove con l’espressione “terzi” non si intende certamente l’erede subentrato al rinunciante (al quale, come già visto, l’impugnazione dei creditori sarebbe opponibile).

[250] In senso contrario, non varrebbe chiamare in causa l’art. 525 c.c., che fa salve, in caso di revoca della rinuncia, le ragioni acquistate dai terzi sopra i beni dell’eredità per effetto della rinuncia (ritiene invece che tra i terzi rientrino i creditori del rinunciante RIVEDA A., op. cit., p. 931). È quindi ancora attuale la conclusione di Cicu A., op. cit., p. 219, che non vede “quale applicazione pratica possa avere la norma: dovrebbe trattarsi di diritti che i terzi acquistano in conseguenza della rinunzia; ma ciò non può riferirsi a diritti derivati dal rinunziante, e neppure a diritti derivati da ulteriori chiamati, in quanto è presupposto che non abbiano ancora acquistato l’eredità”.

[251] Si prenda, ad esempio, l’ipotesi prevista dall’art. 534, comma 3, c.c.: qui la tempestiva trascrizione dell’acquisto dell’erede vero (quando ad esempio colui che sia stato nominato erede universale per testamento tema un atto di disposizione da parte di un successibile ab intestato del de cuius) mette al riparo il medesimo da eventuali atti di disposizione posti in essere dall’erede apparente, senza che gli aventi causa da quest’ultimo possano obiettare che il primo non si inserisce nella catena del loro acquisto e possano quindi ritenersi esonerati dall’effettuare la relativa indagine nei registri immobiliari.

[252] Triola A., op. cit., p. 188.

[253] Ciò che ha indotto parte della dottrina a ritenere necessaria in questo caso la nomina di un curatore dell’eredità giacente (così, Bullo e Visetti C., sub art. 2652, in Comm. breve c.c., fondato da Cian e Trabucchi, Milano, 2002, p. 2719). È appena il caso di notare che non sarebbe ammissibile una trascrizione contro l’eredità giacente, in quanto priva di soggettività giuridica (Gazzoni F., op. cit., t. I, p. 391). Una trascrizione contro il curatore, quand’anche la si ritenesse possibile, non svolgerebbe poi la funzione di rendere opponibile la domanda ai terzi, dal momento che «il decreto di nomina ex art. 528 è soggetto ad una pubblicità con funzione di mera notizia (art. 52 disp. att.) e dunque l’eventuale ignoranza non rileva in alcun modo» (Gazzoni F., op. ult. cit., p. 392).

[254] Cfr. Gentile A., op. cit., p. 457.

[255] L’inconveniente citato non è peraltro ignoto al nostro sistema, dal momento che esso può ben riguardare anche gli acquisti dei terzi dall’erede apparente. Naturalmente, i terzi dovrebbero curare tempestivamente sia la trascrizione del proprio acquisto che la trascrizione dell’acquisto dell’erede.

[256] Si veda sul punto, in sintesi, Mengoni L., op. cit., p. 50.

[257] Lo riferisce Capozzi G., op. cit., p. 155.

[258] Per Pardini, op. cit., pp. 758-759, l’istituto in questione addirittura non sarebbe coerente con i princìpi generali del nostro ordinamento (in particolare, contrasterebbe con la scelta di ordine generale secondo cui non sarebbe possibile surrogarsi nell’esercizio dei «diritti che sono esclusivamente inerenti alla persona del debitore»), e quindi l’art. 524 c.c. dovrebbe considerarsi implicitamente abrogato (ciò che non ritengo condivisibile). In senso contrario, implicitamente, Mengoni, op. cit., pp. 244 e 245 (anche in nota), che anzi ammette un’applicazione analogica della norma. Ritengo invece, per quanto detto nel testo, che l’art. 524 c.c. sia una norma eccezionale.

[259] Lega U., Le libere professioni intellettuali, Milano, 1984, p. 521

[260] Zingaropoli A., La responsabilità del notaio. Alla luce della Legge si semplificazione, Matelica, 2006.

[261] Sul tema, senza alcuna pretesa di esaustività, si vedano Angeloni F., La responsabilità civile del notaio, Padova, 1990; Fusaro A., Le tre o troppe? responsabilità del notaio, in Riv. not., 2004, I, 2004, 1313; La Porta U., La responsabilità professionale del notaio, Torino, 2003; Triola R., La responsabilità del notaio, Milano, 1999; Morelli S., La responsabilità civile del notaio: le posizioni di dottrina e giurisprudenza, nota a Cass. civ., 22 giugno 2006, n. 14450; Cass. civ., 31 maggio 2006, n. 13015; Cass. civ., 16 marzo 2006, n. 5868; Cass. civ., 11 gennaio 2006, n. 264, in Corr. giur., 2007, 378 ss.; Facci G., Questioni controverse in tema di responsabilità del notaio per omessa verifica della libertà dell’immobile, in Riv. Not., 2006, 806 ss.; Amendolagine V., L’accertamento della colpa professionale del notaio nei confronti dell’acquirente di bene immobile per violazione degli obblighi di informazione, nota a Trib. Bari, 11 luglio 2005; Trib. Pescara, 27 giugno 2005; Trib. Verona, 20 gennaio 2005, in Giur. merito, 2005, 2572 ss.; Facci G., La responsabilità del notaio, gli arretrati della conservatoria ed il risarcimento in forma specifica, nota a Cass. civ., 26 gennaio 2004, n. 1330, in Riv. Not., 2004, 479 ss.; Franciosi L., La responsabilità professionale del notaio, nota a Cass. civ., 13 gennaio 2003, n. 309, in Riv. Not., 2003, 728 ss.; Coppola C., La figura professionale del notaio e la responsabilità civile per omesso accertamento dei registri immobiliari e catastali, nota a Cass. civ., 4 giugno 1999, n. 5443, in Riv. Not., 2001, 400 ss.; Artioli Bonati P., Responsabilità civile del notaio, in Riv. Not., 1999, 42 ss.; Guarneri A., Assenza di colpa professionale del notaio per omessa concessione di agevolazione fiscale al cliente?, nota a Cass. civ., 18 marzo 1997, n. 2396, in Riv. Not., 1997, 1131 ss.; Ruta S., La diligenza del notaio tra obblighi “antichi” e diritti “moderni”, nota a Cass. civ., 26 maggio 1993, n. 5926, in Riv. Not., 1994, 259 ss.; Candian A.D., La responsabilità civile del notaio per l’attestazione non veridica di identità, in Riv. Not., 1987, 778 ss.

[262] Sulla quale, oltre all’ormai classico scritto di D’Orazi Flavoni M., La responsabilità civile nell’esercizio del notariato, in Riv. not., 1958, 405 ss., si veda, in particolare, Petrelli G., L’indagine della volontà delle parti e la “sostanza” dell’atto pubblico notarile, in Riv. not., 2006, I, 29 ss.

[263] Sul tema è reperibile una bibliografia vastissima. Tra i contributi di maggiori dimensioni: Angeloni F., La responsabilità civile del notaio, Padova, 1990; Paolucci E., Atti vietati e responsabilità notarile nella giurisprudenza, Milano, 1990; Petrelli G., Visure ipotecarie. Responsabilità civile del notaio. Limiti del danno risarcibile, Milano, 1994; Angeloni F., Responsabilità del notaio e clausole abusive, Milano, 1999; Triola R., La responsabilità del notaio, Milano, 1999; La Porta U., La responsabilità professionale del notaio. Profili di responsabilità civile e penale del pubblico ufficiale, Torino, 2003. Nell’ambito delle rassegne di giurisprudenza si segnala Lepri A., La responsabilità civile del notaio, in Alpa G. e Bessone M. (cur.), La responsabilità civile, in Giur. sist. Bigiavi, Tomo IV, Torino, 1988.

[264] Scarpello G., Su di un caso di responsabilità per danni cagionati nell’esercizio di funzioni notarili, in Foro pad., 1955, I, c. 83 ss. A questa tesi consta aver aderito soltanto Cass., 11 maggio 1957, n. 1659, in Foro it., 1958, I, c. 595.

[265] Cattaneo G., La responsabilità civile del notaio, in Riv. Not., 1956, p. 630; D’Orazio Flavoni M., La responsabilità civile nell’esercizio del notariato, in Riv. Not., 1958, p. 375 ss.

[266] Fatta eccezione per l’isolato precedente di App. Catanzaro, 17 ottobre 1953, in Foro pad., 1955, I, c. 83, che escluse la responsabilità verso i terzi, nella specie respingendo la domanda di risarcimento avanzata dal secondo donatario nei confronti del notaio che aveva rogato la prima donazione, nulla per violazione di norme della legge notarile. La soluzione fu condivisa da De Cupis A., La responsabilità civile del notaio, in Riv. Not., 1957, p. 6 ss.

[267] Cass., 16 febbraio 1957, n. 553, in Giust. civ., 1957, I, p. 81. Invero sono reperibili sentenze anteriori in tema di responsabilità contrattuale del notaio, elencate da Angeloni F., La responsabilità civile del notaio, cit., p. 110 ss.

[268] Petrelli G., Visure ipotecarie. Responsabilità civile del notaio. Limiti del danno risarcibile, Milano, 1994, p. 7 ss.

[269] Sulle prestazioni d’opera intellettuale, v. Santoro Passarelli F., Professioni intellettuali, in Noviss. dig. it., Torino, 1967, XIV, pp. 23-28; Riva Sanseverino L., Del lavoro autonomo, in Comm. cod. civ., a cura di SCIALOJA e BRANCA, Bologna-Roma, 1963, p. 192; Giacobbe G. e D., Lavoro autonomo, in Enc. dir., Milano, 1973, XXIII, p. 418 ss.; Giacobbe G., Professioni intellettuali, in Enc. dir., Milano, 1987, XXVI, pp. 1065-1089.

[270] Cfr. Petrelli G., Visure ipotecarie, cit., p. 9; Dies R., Un caso anomalo di responsabilità civile del notaio, in Assicurazioni, 1992, II, p. 33 ss.; Girino G., La figura giuridica del notaio, in Riv. Not., 1985, p. 596 ss.

[271] Riconoscono la responsabilità extracontrattuale Cass., 31 luglio 1948, n. 1313, id., Rep. 1948, voce cit., n. 23; 16 febbraio 1957, n. 553, id., 1957, l, 774; 24 maggio 1960 n. 1327; 25 ottobre 1972, n. 3255, id., Rep. 1972, voce cit., n. 47. Trib di Roma 18 febbraio 1982, FI, 1983, I, 1114; Trib. Roma, 28 luglio 1951 in FI, 1952, I, 1143; App. Roma, 4 febbraio 1957, in FP, 1957, I, 1386.

[272] Cfr. Petrelli G., Visure ipotecarie, cit., p. 10.

[273] Cfr. Cattaneo G., La responsabilità del professionista, Milano, 1958, p. 115; Petrelli G., Visure ipotecarie, cit., p. 10; Boero P., La legge notarile commentata, Torino, 1993, p. 474 ss.; Stanizzi A., La responsabilità civile del notaio, in Rass. dir. civ., 1980, p. 1141.

[274] Cass. civ. 24 ottobre 1998, n. 10571; Cass. civ. 6 dicembre 2001 n. 15480 in Riv. Not. 2002, 1531; Cass. civ. 30 gennaio 2003, n. 1444 in Rep. Foro It., 2003, voce Successione ereditaria n. 80; Cass. civ. 18 aprile 2005, n. 8079 in Riv. Not. 2006, n. 559.

[275] Se il pubblico ufficiale procede alla rogazione nella consapevolezza dell’incapacità del testatore o dopo aver attestato falsamente il possesso della capacità di testare ed il previo espletamento di accertamenti in realtà deliberatamente omessi, la sua condotta assume profili di rilevanza penale, potendo ricorrere il delitto di falso ideologico o, addirittura nei casi più gravi di circonvenzione di incapace.

[276] Tale appare la condizione del testatore nel caso deciso da Trib. Milano 10 ottobre 1963 in Temi 1964, 270 ss.; nella specie il notaio si era rifiutato di ultimare la redazione del testamento di un soggetto ricoverato in ospedale che, colpito da edema polmonare un’ora prima dell’intervento notarile è rimasto completamente inerte alle esortazioni scritte ed orali rivoltegli dal pubblico ufficiale, era deceduto poche ore dopo. Ritenendo la condotta del notaio conforme ai suoi doveri istituzionali e professionali, il giudice adito respinse la domanda risarcitoria formulata a suo carico dai mancati beneficiari dell’atto.

[277] D’altro canto nei giudizi di annullamento per incapacità naturale possono assumere rilievo anche le abitudini di vita, le relazioni, gli affetti del testatore, tutti elementi di giudizio, dei quali non dispone il notaio.

[278] Cosa diversa, naturalmente, è la facoltà del giudice di disporre consulenze tecniche d’ufficio.

[279] In mancanza di una giustificazione obiettiva ed inconfutabile, il pubblico ufficiale si sarebbe esposto al rischio di rispondere del rifiuto proprio del beneficiario mancato, interessato alla rogazione del testamento. Tale rischio è immanente all’esercizio della professione notarile in ragione dell’obbligo legale di prestare il ministero.

[280] Evidentemente poi acquisiti sub specie di consulenza tecnica di ufficio in sede giudiziale.

[281] In giurisprudenza si veda Trib Milano 10 ottobre 1963 “il notaio ha non solo il potere ma addirittura il dovere di accertare a suo prudente ma insindacabile giudizio” se il testatore sia grado di prestare l’attività necessaria per manifestare la sua ultima volontà per mezzo del testamento pubblico.

[282] Cioè, ancora una volta, alla stregua del suo punto di vista profano.

[283] Si vedano, nella prospettiva dell’analisi economica del diritto, le osservazioni di Fusaro A., Le tre o troppe? responsabilità, cit., 1326. Sull’assicurazione della responsabilità civile notarile, si veda Partisani R., L’obbligo assicurativo della responsabilità professionale del notaio, in Riv. Not., 2006, 1978 ss.

[284] Posizione particolare è quella di D’orazi Flavoni M., La responsabilità civile nell’esercizio del notariato, in RN, 1958, 375, il quale distingue fra funzione notarile di certificazione e di adeguamento, diversamente atteggiando la responsabilità: essa avrebbe natura contrattuale in caso di inadempimento della funzione di adeguamento facoltativo e natura extracontrattuale qualora derivasse da inadempienza della funzione di adeguamento obbligatorio o della funzione di certificazione.

[285] Secondo alcune decisioni (Cass. n. 3100/1959; Cass. n. 2396/1997) tra cliente e notaio, sussisterebbe non un contratto d’opera professionale, ma un mandato. In senso contrario si è osservato che nell’attività notarile il pubblico ufficiale non compie alcun atto giuridico per conto dei clienti; l’atto è, viceversa, compiuto dai soggetti dal negozio.

[286] L’ipotesi è considerata in questi termini da Cattaneo G., op. cit., p. 635.

[287] Alpa G., Aspetti attuali della responsabilità del notaio, in Riv. not., 1984, p. 989 ss. L’a. comprende così nella categoria dei “beneficiari diretti” anche gli aventi causa di chi abbia acquistato direttamente, sostenendo, senza però ulteriormente giustificare l’affermazione, che tra notaio, clienti e beneficiari diretti si istituisca un rapporto di natura contrattuale.

[288] Mengoni L., Successioni per causa di morte. Parte speciale. Successione necessaria, in Tratt. Dir. Civ. comm., diretto da Cicu e Messineo, Milano, 2000.

[289] Nel caso di donazione o legato con scelta del beneficiario rimessa al terzo o all’onerato tale soggetto non è nemmeno individuato, se non attraverso la generica indicazione dei soggetti o delle categorie nel cui ambito la scelta dovrà essere effettuata, ciò che rende ancora più evidente come non si possa ravvisare un collegamento volontario tra notaio e beneficiario.

[290] Per l’assimilazione delle parti-clienti a “coloro che sono titolari di un interesse strumentale all’adempimento da parte del notaio”, categoria che comprende i destinatari diretti dell’atto senza esaurirsi in essi, v. Mazzantini S., op. cit., p. 169.

[291] Cass., 16 febbraio 1957, n. 553, cit., dopo aver reso conto delle differenti soluzioni proposte in materia di titolo della responsabilità notarile, si limita ad affermare che la responsabilità nei confronti del beneficiario dell’atto ha natura contrattuale, in quanto “l’erede ed il terzo (in caso di nullità del testamento pubblico o del contratto a favore di terzo), sono i destinatari diretti delle disposizioni, e, come tali, in definitiva protetti, nei confronti del notaio, da un vero e proprio vincolo di natura obbligatoria”. Esaminando la motivazione in relazione ai fatti di causa si deve però rilevare come questa affermazione costituisca un obiter, poiché il thema decidendum era circoscritto all’esistenza ed estensione della responsabilità extracontrattuale del professionista nei confronti dei terzi. Anche Cass., 25 ottobre 1972, n. 3255, cit., pur contenendo analoghe affermazioni di principio, deve in realtà pronunciarsi sull’estensione della responsabilità contrattuale nei confronti dell’acquirente di un immobile pignorato e quindi di un cliente del notaio. Considerazioni sostanzialmente analoghe possono farsi in relazione alle altre decisioni, nelle quali affermazioni di questo tenore si rivelano ultronee rispetto alla ragione del decidere, che verte sempre intorno ad ipotesi di responsabilità nei confronti dei clienti o dei terzi. Così Trib. Roma, 3 aprile 1958, in Foro it., 1959, I, c. 504; App. Roma, 4 maggio 1976, in Arch. resp. civ., 1977, p. 460 (qui si discuteva circa la responsabilità del notaio verso i terzi per il fatto del coadiutore, affermata in forza dell’art. 2049 c.c.); App. Napoli, 12 marzo 1970, in Dir. e giur., 1971, p. 267.

[292] In relazione alla responsabilità del notaio nei confronti dei beneficiari di un testamento nullo, Cass., 31 luglio 1948, n. 1313, in Foro it., 1948, I, 1, c. 310 s., appare nettamente orientata ad affermarne la natura extracontrattuale. Pronunce risalenti alla vigenza del codice civile del 1865 e relative al tema della responsabilità notarile nei confronti del beneficiario di un testamento nullo condividono la medesima impostazione: Cass. Torino, 12 febbraio 1886; App. Venezia, 30 luglio 1929; Cass. Regno, 30 aprile 1941, in Angeloni F., op. cit., p. 429 ss.

[293] V. Angeloni F., La responsabilità civile del notaio, Padova, 1990; Paolucci E., Atti vietati e responsabilità notarile nella giurisprudenza, Milano, 1990; Petrelli G., Visure ipotecarie. Responsabilità civile del notaio. Limiti del danno risarcibile, Milano, 1994; Angeloni F., Responsabilità del notaio e clausole abusive, Milano, 1999; Triola R., La responsabilità del notaio, Milano, 1999; La Porta U., La responsabilità professionale del notaio. Profili di responsabilità civile e penale del pubblico ufficiale, Torino, 2003. Nell’ambito delle rassegne di giurisprudenza si segnala Lepri A., La responsabilità civile del notaio, in Alpa G. e Bessone M. (cur.), La responsabilità civile, in Giur. sist. Bigiavi, Tomo IV, Torino, 1988.

[294] Alpa G., op. cit., p. 992, richiama Cass., 16 febbraio 1957, n. 553, cit., per affermare che il problema non è costituito dalla natura della responsabilità, che considera pacificamente contrattuale, ma dall’individuazione dei beneficiari, che sarebbero “non solo gli aventi causa, ma tutti coloro che hanno un interesse meritevole e tutelato”, compresi gli aventi causa dei diretti beneficiari; Mazzantini S., op. cit., p. 173, propende per considerare alla stregua delle parti non solo i destinatari diretti dell’atto, ma tutti coloro che risultino essere titolari di un interesse strumentale all’adempimento da parte del notaio, negandone su questo presupposto la qualità di terzi; Albamonte U., op. cit., p. 462, afferma che l’obbligo di prestare la propria collaborazione per tradurre la volontà dei contraenti nello strumento negoziale idoneo a raggiungere il risultato voluto viene assunto dal notaio nei confronti di “tutte le parti contraenti e dei beneficiari diretti dell’atto”, in relazione alla funzione di pubblico ufficiale a lui attribuita nel rogare l’atto; Angeloni f. rileva la presenza di impostazioni dottrinali (op. cit., p. 79) e giurisprudenziali (op. cit., pp. 419 ss. e 429 ss.) in questo senso ma non prende esplicita posizione sul problema.

[295] De Cupis A., op. cit., c. 13. In precedenza già Donà (op. cit., p. 1102) aveva sostenuto la ricorrenza di un “rapporto giuridico notarile” che vedeva come soggetti attivi, oltre alle parti, i terzi relativamente all’attività disciplinata dalla legge notarile, che si svolge nell’interesse di “tutto il mondo”, il che portava l’a. ad affermare che nell’attività di pubblico ufficiale del notaio ricorressero obbligazioni di fonte legale e che pertanto la colpa in materia di responsabilità notarile appartenesse sempre al “genere contrattuale”. Contra, Cattaneo G., op. cit., p. 634, nega la ricorrenza di obbligazioni legali nella fattispecie in esame, ritenendo non dimostrato che gli obblighi incombenti al notaio costituiscano obbligazioni determinate a favore di soggetti che non sono parti dell’atto rogato. Anche D’Orazi Flavoni M., op. cit., c. 599, ritiene questa impostazione sfornita di giustificazione nel diritto positivo.

[296] De Cupis A., op. cit., c. 13.

[297] De Cupis A., op. loc. ultt. citt

[298] Per una critica della categoria delle obbligazioni ex lege come non più rispondente all’attuale sistema delle fonti delineato dall’art. 1173 c.c., v. Galgano F., Diritto civile e commerciale, Padova, 2004, II, 1, p. 30 ss., che evidenzia come la legge, fonte di obbligazioni nel codice previgente, sia stata sostituita dagli atti o fatti idonei di cui all’art. 1173 c.c.

[299] L’unico effetto del contratto sarebbe quello indiretto dell’individuazione della persona del debitore attraverso la scelta operata dal cliente.

[300] L’avvicinamento delle due forme di responsabilità risulta ancora più evidente se, dismessa l’ottica puramente dogmatica, si verifichi in concreto come soprattutto nell’interpretazione giurisprudenziale i due istituti pervengano ad un notevole accostamento soprattutto in tema di responsabilità professionale.

[301] Né appare possibile utilizzare in proposito lo schema previsto dall’art. 1333 c.c., essendo le supposte obbligazioni a carico del solo proponente. Tale meccanismo semplificato di conclusione del contratto, pur ritenendo, come appare preferibile, che effettivamente prescinda da un consenso sia pure tacito o presunto dell’oblato per il perfezionamento della fattispecie, richiede infatti quantomeno una proposta (che in questo caso dovrebbe essere rivolta dal notaio al beneficiario), elemento del quale non è dato di ravvisare alcuna traccia.

[302] La categoria, frutto dell’elaborazione dottrinale tedesca, è riconosciuta come espressione di principi vigenti anche nell’ordinamento italiano da autorevole dottrina: Castronovo C., Obblighi di protezione e tutela del terzo, in Jus, 1976, p. 123 ss.; Carusi D., Responsabilità contrattuale ed illecito anteriore alla nascita del danneggiato, in Foro it., 1994, I, 1, c. 549 ss.; Gazzoni F., Manuale di diritto privato, Napoli, 1996, p. 896. In giurisprudenza, Cass., 22 novembre 1993, n. 11503, in Giur. it., 1994, I, 1, c. 550 ss.

[303] Cfr., per tutti, Gazzoni F., op. cit., pp. 752 e 896.

[304] App. Roma, 30 marzo 1971, in Foro pad., 1972, I, c. 552.

[305] Cass., 22 novembre 1993, n. 11503, cit.

[306] V., per tutti, Sacco R., De Nova G., Il contratto, in Trattato di dir. civ., Torino, 1993, p. 53 ss. Le ipotesi considerate in proposito sono però caratterizzate dalla diretta previsione dell’incremento patrimoniale nei confronti di un soggetto determinato, e non dall’estensione a terzi dei diritti derivanti da un contratto concluso tra altri soggetti, in assenza di previsioni degli stessi sul punto.

[307] Si consideri ad esempio il caso del testamento pubblico, in cui, non potendo operare il meccanismo previsto dall’art. 2701 c.c., la nullità dell’atto notarile (art. 58 l. 16 febbraio 1913, n. 89) si riflette nell’invalidità definitiva ed insanabile di quanto disposto dal testatore, con irreparabile pregiudizio delle ragioni degli istituiti.

[308] Si considerino ad esempio la l. 28 febbraio 1985, n. 47 artt. 17, 18 e 40 e la l. 26 giugno 1990, n. 165, art. 3, comma 13°- ter, che prescrivono, a pena di nullità, determinate menzioni negli atti comportanti un trasferimento immobiliare.

[309] Protettì E., Di Zenzo C., La legge notarile. Commento con dottrina e giurisprudenza delle leggi notarili, Milano, 2002, p. 5.

[310] Uno spunto in proposito è dato da una sentenza di merito che equipara il precludere un credito che sarebbe certamente sorto al far venire meno lo stesso in via definitiva, per affermare la responsabilità extracontrattuale del terzo a titolo appunto di lesione del credito, intesa come estinzione dell’obbligazione: App. Roma, 23 dicembre 1982, in Foro it., 1983, I, c. 2005.

[311] Cass., 6 maggio 1971, n. 1282, in Foro it., 1971, I, c. 1476; Cass., 26 marzo 1990, n. 2428, in Giust. civ., I, 1, p. 599 ss., in materia di responsabilità professionale in ambito medico, che esprimono però principi di portata generale.

[312] Gallo Orsi F., Girino M., voce “Notariato”, Noviss. Dig. It, 1962, p. 359.

[313] Zaraga F., La responsabilità professionale del notaio, in Riv. Not., 1957, p. 559 e ss.

[314] In Vita Not., 1994, I, 114.

[315] Andrini M.C., Invalidità, simulazione e frode alla legge (con particolare attenzione alle conseguenze in tema di responsabilità ex art. 28 della legge notarile), in Bessone M., Casi e questioni di diritto privato per la pratica notarile, Parte II, Milano, 1998, p. 271 ss.; Andrini M.C., Responsabilità del notaio e atto annullabile. Aspetti notarili e nuovo orientamento della Cassazione sull’art. 28 L. N., in Vita not., 1998, I, p. 701; Lipari N., Il ruolo del notaio nella nuova realtà delle nullità contrattuali, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2002, p. 361; Donisi C., L’art. 28: baricentro della funzione notarile, in Atti del XXXIX Congresso Nazionale del Notariato, Milano, 10-13 novembre 2002, pubblicato a cura del Consiglio Nazionale del Notariato, Milano, 2003.

[316] Cioè al notaio e talora anche al cancelliere, sotto la direzione del giudice. Nel senso che compete al notaio, come pubblico ufficiale rogante l’atto, la valutazione sulla meritevolezza di tutela, v. Petrelli G., La trascrizione degli atti destinazione, dattiloscritto agli atti del Convegno organizzato a Firenze dalla Associazione Italiana Giovani Notai il 24 giugno 2006 sul tema “Gli atti di destinazione e la trascrizione dopo la novella” (l’articolo è pubblicato anche in Riv. dir. civ., 2006, II, p. 161 ss.; le citazioni di questo lavoro nel presente scritto si riferiscono al dattiloscritto), p. 16 (secondo cui “la necessaria valutazione di meritevolezza degli interessi valorizza il ruolo del notaio. In assenza di meritevolezza l’atto non sarà ricevibile”). Anche secondo Franco M., Il nuovo art. 2645-ter cod. civ., in Notariato, 2006, p. 323, il notaio è “il soggetto deputato naturalmente alla valutazione in ordine alla meritevolezza degli interessi che si intendono realizzare”; per Nuzzo F., Atto di destinazione, interessi meritevoli di tutela e responsabilità del notaio, dattiloscritto agli atti del Convegno sul tema “Atti notarili di destinazione dei beni: Articolo 2645 ter c.c.”, p. 6 “spetta al notaio valutare la meritevolezza dell’interesse alla destinazione, salvo il successivo controllo del giudice al quale i creditori si rivolgano contestando la liceità dell’atto o l’esistenza dell’interesse meritevole di tutela o esercitando le azioni revocatorie”.

[317] È patto di famiglia il contratto con cui, compatibilmente con le disposizioni in materia di impresa familiare e nel rispetto delle differenti tipologie societarie, l’imprenditore trasferisce, in tutto o in parte, l’azienda, e il titolare di partecipazioni societarie trasferisce, in tutto o in parte, le proprie quote, ad uno o più discendenti. Al contratto (lato sensu di destinazione), che deroga al divieto dei patti successori (art. 458), devono partecipare, oltre al coniuge, tutti coloro che sarebbero legittimari ove in quel momento si aprisse la successione nel patrimonio dell’imprenditore. I discendenti assegnatari dell’azienda o delle partecipazioni societarie dovranno liquidare gli altri partecipanti al contratto, ove questi non vi rinunzino, in tutto o in parte, con il pagamento di una somma corrispondente al valore delle quote riservate ai legittimari artt. 536 e ss.

[318] Fortino C., La responsabilità civile del professionista, Milano, 1984, p. 35 s.

[319] Galgano F., La responsabilità contrattuale: i contrasti giurisprudenziali, in Contratto e impresa, 1989, I, p. 39

[320] Per un quadro d’insieme vedi Angeloni F., La responsabilità civile del notaio, Padova, 1990 e Pacifico F., La invalidità degli atti notarili, Milano, 1992.

[321] Zingaropoli A., La responsabilità del notaio. Alla luce della Legge si semplificazione, Matelica, 2006.

[322] In tema di responsabilità professionale del notaio, la S.C., con sentenza n. 7707/07, ha affermato che poiché detto professionista non è un destinatario passivo delle dichiarazioni delle parti, contenuto essenziale della sua prestazione professionale è il c.d. dovere di consiglio, che peraltro ha ad oggetto questioni tecniche, cioè problematiche, che una persona non dotata di competenza specifica non sarebbe in grado di percepire, collegate al possibile rischio, ad esempio, che una vendita immobiliare possa risultare inefficace a causa della condizione giuridica dell’immobile trasferito. Parimenti con la sentenza n. 2485/07 è stato ritenuto che non incorre in responsabilità per negligenza professionale il notaio il quale, nell’ipotesi di vendita di terreni dei quali l’alienante assumeva di avere acquistato la proprietà per usucapione senza il relativo accertamento giudiziale, non abbia avvertito l’acquirente che l’acquisto poteva essere a rischio, ove nell’atto venga espressamente inserita una clausola dalla quale possa desumersi che l’acquirente era comunque consapevole di tale rischio.

[323] Azzolina U., La scelta dei testimoni e la responsabilità del notaio verso i terzi per la nullità dell’atto, in Riv. dir. priv., 1944, II, 18; Bonasi-Benucci E., Sulla responsabilità civile del notaio, in Resp. civ. prev., 1956, pp. 481 ss.; De Cupis A., Responsabilità civile del notaio, in RN, 1957, 6; De Cupis A., Sulla responsabilità del notaio per la nullità dell’atto da lui rogato, in FI, 1955, IV, c. 7 ss. dello stesso autore v. anche La responsabilità civile del notaio, in RN, 1957, pp. 6 ss.

[324] Molto efficaci, per comprendere il problema del nesso di causalità in tema di responsabilità civile del notaio, i casi esposti nelle seguenti sentenze: Cass. 18 marzo 1997 n. 2396, in RN 1997,1218; Cass. 18 maggio 1993 n. 5630, in NGCC 1994, I, 88; Cass. 9 febbraio 1963 n. 243 in FI 1963, I, 1196.

[325] Cfr. Angeloni F., La responsabilità civile del notaio, Padova, 1990, p. 80.

[326] Per tutti si veda Jannarelli A., Il danno ingiusto, in Istituzioni di diritto privato a cura di Bessone, Torino, 2001; Galgano F., Le mobili frontiere del danno ingiusto, in Contratto e impresa, 1985, pp. 1 ss.; Visintini G., Itinerario dottrinale sulla ingiustizia del danno, in Contratto e impresa, 1987, pp. 73 ss.; Briganti E., Tradizione e novità nella responsabilità civile, in Lucarelli F., Diritti civili ed istituti privatistici, Padova, 1984, pp. 307 ss.

[327] Zingaropoli A., La responsabilità del notaio. Alla luce della Legge si semplificazione, Matelica, 2006.

[328] Di Zenzo C.C., La legge notarile in Italia. Dottrina e Giurisprudenza, in Memoria del encuentro nacional para la consolidaciòn del registro nacional de avisos de testamento, Piso, 2005, p. 45.

[329] Puccini F., La legge sul notariato, Civitavecchia, 1880, p. 63; Falcioni C., Manuale teorico – pratico del notariato, Torino, 1899, I, p. 167; Conti M., L’art. 24 della legge notarile e l’art. 43 del regolamento, in Il Giornale de’ notai, 1876, p. 248; Moscatello P., Intorno agli atti che la legge vieta al notaio di ricevere, in Notariato italiano, 1879, p. 402; Degni A., Commento alla legge 16 febbraio 1913, n. 89 sull’ordinamento del notariato, Roma, 1913, p. 75; Patroni R., Osservazioni sulla prima parte del n. 1 dell’art. 28 T.U. del notariato, in Rolandino, 1949, p. 81; Sciello B., L ‘art. 28 della Legge Notarile e gli acquisti immobiliari degli enti ecclesiastici, in Notaro, 1947, p. 66; Manzo S., Sull’art. 28 n. 1 della legge notarile, in Rivista not., 1947, p. 442; Manzo S., Rappresentanza senza potere e responsabilità del notaio , in Rolandino, 1957, p. 3; Rossi G., Degli atti espressamente vietati dalla legge o manifestamente contrari al buon costume od all’ordine pubblico dal quale il notaio deve astenersi, in Notariato italiano, 1910, p. 67; Solimena G., Commento alla legislazione notarile italiana, Milano, 1918, p. 87; ID., Della compartecipazione volontaria del notaio negli atti simulati e fraudolenti revocabili ed in quelli simulati e fraudolenti punibili, in Notaro, 1933, p. 6; Andò D., Premesse storiche per l’interpretazione dell’art. 54 del Regolamento Notarile, in Notariato italiano, 1938, p. 194; Stella Richter G., Sui limiti delle attribuzioni notarili, in Giur. compl. Cass. civ., 1945, p. 99; Dona C., Elementi di diritto notarile, Milano, 1933, p. 152; Dona C., voce Notariato ed archivi notarili, in N.D.I., Torino, 1939, p. 1077; Azzolina L., Non esageriamo!, in Notaro, 1947, p. 79. Per la giurisprudenza: App. Napoli 23 novembre 1938, in Massime, 1939, p. 61; App. Milano 14 aprile 1944, in Notaro, 1946, p. 70; Trib. Milano 18 settembre 1959, in Rivista not. 1960, p. 673; Trib. Milano 9 ottobre 1955, in Rivista not., 1960, p. 673; Trib. Catanzaro 28 marzo 1958, ivi, 1958, p. 255; Trib. Milano 9 ottobre 1959, ivi, 1960, p. 682; Trib. Milano 6 novembre 1959, ivi, 1960, p. 673; Trib. Milano 22 aprile 1960, ivi, 1960, p. 673; Trib. Milano 10 giugno 1961, ivi, 1961, p. 505; App. Firenze 20 luglio 1962, ivi, 1962, p. 865; App. Firenze 24 settembre 1965, ivi, 1966, p. 509.

[330] Cass. 1 agosto 1959, n. 2444, in Foro it., 1960, I, 1, p. 100; Cass. 11 marzo 1964, in Foro it., 1964, I, p. 960; Cass. 22 ottobre 1990, n. 10256, in Vita not., 1991, p. 697; Cass. 10 novembre 1992, n. 12081, in Vita not., 1991, p. 697; Cass. 19 dicembre 1993, n. 11404, in Vita not., 1994, p. 404.

[331] Come per il caso ad es. dei patti successori.

[332] V. ad es. : Cass. I° agosto 1959, n. 2444, in Foro it., 1960, I, p. 100; Cass. 26 ottobre 1962, n. 3063, in Rivista not., 1963, p. 167; Cass. 11 marzo 1964, n. 525, in Rivista not., 1964, p. 702; Cass. n. 562/62; Cass. 11 giugno 1969, n. 2067 con nota di Triola, in GC, 1969, 2079; Cass., 3 luglio 1969, n. 2433; Cass. n. 3255/72; Cass. n. 3893/77; Cass. 21.4.83, n. 2744 in VN, 1983, 1739; Cass. 21.4.1983, n. 2745, in Gco, 1984, II, 380, con nota di Angiello; Cass n. 10256/90 in Vita not., 1991, p. 597; Cass n. 12081/92, in Vita not., 1993, p. 951; Cass., 19 novembre 1993, n. 11404, in Vita not., 1994, p. 405. Nello stesso senso si rintracciano anche sentenze molto vecchie: Cass. Roma 3 dicembre 1937, in Massime, 1938, p. 138; Cass. 18 aprile 1941; Cass. Roma 22 giugno 1942, in Massime, 1942, p. 215.

[333] Ad. es. Cass. n. 3255/72.

[334] Cass. 11 novembre 1997, n. 11128, in Notariato, 1998, p. 7; Cass. 19 febbraio 1998, n. 1766, in Riv. Not., 1998, p. 704; Cass. 4 maggio 1998, n. 4441, in Riv. Not., 1998, p. 717.

[335] Ad es. Trib. Milano 22.4.60, RN, 1960, 673; Trib. Reggio Emilia n. 623/81; Cass. n. 2067/69, a cui appartengono i seguenti passi: “… l’art. 54 regolamento notarile (…) impone implicitamente agli stessi notai l’onere di accertarsi che la procura dei rappresentanti sia conforme alle norme imperative di legge, sotto il profilo sostanziale e formale. (…) Quanto poi alla successiva domanda se tale violazione costituisca altresì violazione del generale precetto dettato dall’art. 28 n. 1, legge notarile (…) la risposta è parimenti affermativa. In aderenza alla conforme interpretazione della dottrina e della propria precedente giurisprudenza sia pur non recente questa Corte Suprema ritiene che con l’espressione “atti espressamente proibiti dalla legge” la precitata norma dell’art. 28 ha inteso riferirsi non solo agli atti vietati singolarmente e specificamente dalla legge (…), ma altresì a tutti gli altri atti comunque contrari a disposizioni cogenti della legge stessa, ossia non aderenti alla normativa legale, di ordine formale o sostanziale, per essi prevista a pena di inesistenza, nullità o annullabilità. Correlativamente, è da affermarsi che gli atti vietati dall’art. 54 regolamento notarile costituiscono indubbiamente una delle categorie degli “atti espressamente proibiti dalla legge” di cui al n. 1 dell’art. 28 legge notarile ed, in ulteriore effetto, che l’ aver rogato un atto nel quale sia intervenuta, in rappresentanza di altra, persona non autorizzata “nel modo espressamente stabilito dalla legge” costituisce, per il notaio rogante, congiunta violazione dei predetti artt. 28 e 54 della legge e del regolamento notarile”.

[336] Cass. 2450/79; App. Roma 4.4.76, AC, 1977, 460; Stanizzi A., La responsabilità civile del notaio, in RaDC, 1980, 1142; D’Orsi V., La R.C. del professionista, Milano, 1981, 157; Vigotti A., La responsabilità del professionista, in La responsabilità civile, a cura di Alpa e Bessone, in Giur. sist. civ. e comm., fondata da BIGIAVI, IV, Torino, 1987, 237 – 268.

[337] Trib. Milano 11.4.83, BBTC, 1985, II, 100; Trib. Perugia 3.7.81, GM, 1983, 661

[338] Trib. Roma, 18.2.82 FI, 1983, I, 1114

[339] Trib. Bari 10.7.80, BBTC, 1981, II, 470; FP, 1980, I, 256

[340] App. Milano 13.5.66, ARC, 1967, 1034

[341] Trib. Firenze 24.2.66, RN, 1967, 459

[342] Cass. 243/63; Trib. Milano 10.10.63, ARC, 1966, 101

[343] Cass. 1313/48; Visintini G., La responsabilità civile nella giurisprudenza, Torino, 1967, 143

[344] Cass. 985/73

[345] Zingaropoli A., La responsabilità del notaio. Alla luce della Legge si semplificazione, Matelica, 2006.

[346] Tondo S., Responsabilità notarile nel controllo di legittimità degli atti, Milano, 1998.

[347] Molinari G., Nullità, art. 58 L.N. e altri argomenti, in Federnotizie, maggio 1999.

[348] Cass. 1 agosto 1959, n. 2444, in Foro it., 1960, I, p. 100; Cass. 26 ottobre 1962, n. 3063, in Riv. Not., 1963, p. 167; Cass. 11 marzo 1964, n. 525, in Riv. Not., 1964, p. 702.

[349] Cass. 25 ottobre 1972, n. 3255, in Riv. Not., 1973, p. 330; Cass. 21 aprile 1983, n. 2745, in Vitas Not., 1984, p. 1132.

[350] Degni A., Commento alla legge 16 febbraio 1913 n. 89 sull’ordinamento del notariato, Roma, 1913.

[351] Di contrario avviso è Finocchiaro (in VN, 1998, 713), per il quale “Il fare rientrare la fattispecie di cui all’ art. 54 reg. not. nella fattispecie di cui all’art. 51 n. 3 comporta la violazione del principio di legalità, in quanto non si tratta di fare rientrare in un precetto normativo di tipo generico (come ad esempio quello di cui all’art. 1361. not.) un precetto di tipo specifico, che non sia con il primo incompatibile (come nel caso di cui all’art. 54 reg. not.), ma di aggiungere al precetto (e quindi alla condotta) normativamente e specificamente previsto, un diverso precetto (e quindi condotta)”.

[352] Carnelutti F., La funzione giuridica del notaro, RN, 1951, 1.

[353] Zingaropoli A., La responsabilità del notaio. Alla luce della Legge si semplificazione, Matelica, 2006.

[354] Anche al fine dell’applicazione delle pene disciplinari di cui all’art. 138 della l. 16 febbraio 1913 n. 89, sull’ordinamento notarile, il divieto per il notaio di ricevere atti espressamente proibiti dalla legge, di cui all’art. 28 n. 1 del citato ordinamento, si riferisce non solo agli atti singolarmente e specificamente vietati, ma a tutti quelli comunque contrari a norma cogente, per ragioni formali e sostanziali, si da risultare affetti da inesistenza, nullità od annullabilità. Fra i predetti atti, pertanto, deve includersi l’accettazione da parte dei genitori di un’eredità devoluta la minore, senza l’autorizzazione del giudice tutelare, atteso che gli artt. 320 comma 3 e 322 c.c., nel testo fissato dalla l. 19 maggio 1975 n. 151, impongono inderogabilmente detta autorizzazione, sancendo, in difetto, l’annullabilità dell’accettazione. Cass. 21 aprile 1983, n. 2745, in Giust. Civ. Mass., 1983, fasc. 4

[355] Gli atti vietati dall’art. 54 reg. not. costituiscono una delle categorie degli atti espressamente proibiti dalla legge di cui all’art. 28 L.N. App. Napoli 11 luglio 1986, in Riv. Not., 1987, p. 557.

[356] Per un orientamento generale in tema di responsabilità civile del notaio v. soprattutto Di Fabio M., Manuale di notariato, Milano, 1981, 233 ss.; Protettì E., Di Zenzo C., La legge notarile, Milano, 1981, 8 ss.; Di Fabio M., Notaio (diritto vigente), voce in Enc. Del dir., XXVIII, Milano, 1978, 614; Baldassari A. e S., La responsabilità civile del notaio, Milano, 1993; Cavalaglio G., La responsabilità civile del notaio, VN, 1997, 497; Artioli Bonati D., Responsabilità civile del notaio, in Responsabilità civile e previdenza, 1999, I, 42; Triola R., La responsabilità del notaio, Milano, 1999.

[357] Di Fabio M., Manuale del Notariato, Milano, 1981.

[358] In giurisprudenza Trib. Ivrea 28.11.79, RN, 1980, 1657 che spiega nel seguente modo: “L’art. 58 L.N. elenca le ipotesi in cui l’atto notarile è nullo. L’art. 137, il notaio che abbia posto in essere un atto nullo i/iene punito con un’ammenda. Lo stesso art. 58 aggiunge poi che al di fuori lei casi indicati l’atto notarile non è nullo ma il notaio che contravviene alle disposizioni della legge viene punito con le pene sancite per tali violazioni. fra i casi non indicati indubbiamente rientrano le ipotesi di annullabilità del negozio; poiché nessuna pena specifica è prevista per il notaio che stipuli un atto annullabile, secondo l’interpretazione della Suprema Corte, egli dovrebbe essere punito a norma dell’art. 28, n. 1. Di modo che, per un atto nullo, il notaio, ex art. 137, sarebbe punito con l’ammenda, mentre per un atto annullabile il notaio incorrerebbe nella sospensione ex art. 138 legge notarile.”, ed anche Trib. Trapani 3.6.85, VN, 1987, 385.

[359] La sanzione della sospensione non avrebbe potuto essere prevista da una norma del regolamento d’attuazione, infatti l’art. 163 della L.N. dispone che “il Governo del Re è autorizzato a pubblicare per decreto Reale, udito il Consiglio di Stato, il regolamento per la esecuzione della presente legge, con facoltà di comminare le pena dell’ammenda fino a L. 50 per le contravvenzioni alle disposizioni del medesimo”.

[360] Concetto ripreso anche dalla Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 11128/97 al fine di operare una distinzione tra norme proibitive, la cui violazione provoca illiceità e norme imperative. I principi contenuti in questa sentenza, ripresi a breve distanza di tempo da Cass. n. 1766/98; Cass. n. 3560/1998; Cass. n. 4441/98, RN, 1998,717; Cass. n. 2591/98, rappresentano l’attuale orientamento consolidato.

[361] Nessuno mette in dubbio, infatti, che il notaio (come qualunque altro pubblico ufficiale) debba ispirare la sua attività al pieno rispetto della legge, ma ciò significa affatto che ogni violazione di tale obbligo, che sia causa di invalidità del negozio, debba essere punita con le sanzioni previste per la violazione dell’art. 28, specie in presenza nella stesa legge notarile di altre norme le quali puniscono con sanzioni meno gravi, specifiche violazioni che pure comportano l’invalidità del negozio. Cass. 11 novembre 1997, n. 11128, cit.

[362] Infatti La nullità per contrarietà all’ordine pubblico e al buon costume discende dall’articolo 1343. Sul punto vedi Triola, GC, 1969, I,2079; Trib. Ivrea 1979, RN, 1980, 1657; Trib. Trapani 1985, RN, 1985, 1268

[363] Non esiste alcuna assurdità, invece, come ad esempio sostiene Boero (La legge notarile commentata con la dottrina e la giurisprudenza, Torino, 1993, I), essendo perfettamente razionale giudicare, dal punto di vista della responsabilità disciplinare del notaio, meno gravi determinati vizi che comportano sì una nullità ma derivante da una violazione di carattere meramente formale, come ad esempio la mancata apposizione della sottoscrizione o dell’ora, rispetto ad altri di carattere sostanziale, sanzionati con l’annullabilità.

[364] Zingaropoli A., La responsabilità del notaio. Alla luce della Legge si semplificazione, Matelica, 2006.

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