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Un’interpretazione restrittiva della fattispecie di demansionamento

La sentenza 4000/08 (pubblicata nell’arretrato del 23 febbraio 2008) affronta la delicata quanto frequente ipotesi del demansionamento.
Tre lavoratori agivano per ottenere la declaratoria di illegittimità dell’assegnazione a mansioni diverse e dequalificanti rispetto a quelle di assunzione. L’organo giudicante dichiarava il diritto di uno all’inquadramento nella qualifica superiore, ma rigettava le domande proposte dagli altri lavoratori.
In sede di appello la sentenza veniva riformata. Veniva respinta la domanda di superiore inquadramento proposta dal primo lavoratore, ma, ritenendo che nel passaggio dalle mansioni di guardia giurata a quelle di operaio vi fosse stata una dequalificazione dei tre lavoratori, veniva dichiarato il loro diritto alla conservazione delle mansioni da ultime assegnate, ovvero all’assegnazione a mansioni equivalenti.
La Suprema Corte, a seguito di ricorso del datore di lavoro, cassa tuttavia la pronuncia, basando l’argomentazione su due autonomi rilievi. In primis ritiene in linea di massima giustificata una eventuale dequalificazione, in presenza di contesti aziendali che obblighino la soppressione di posti di lavoro o passaggi alle dipendenze di diversi datori di lavoro. In secondo luogo, con considerazione che per vero sembrerebbe preliminare alla precedente, si rilevava che la natura dequalificante delle mansioni successivamente assunte non poteva essere desunta dalla prevalente manualità e dalla minore retribuzione delle nuove mansioni. Sottolineava al contrario la Cassazione che il trasferimento ad un diverso settore lavorativo, lungi dal configurare necessariamente una dequalificazione, poteva rappresentare occasione per un ampliamento del bagaglio professionale.

QUANDO IL MUTAMENTO DI MANSIONI È DEQUALIFICANTE?
Come è noto, a seguito della modifica dell’art. 2103 c.c. da parte dell’art. 13 dello Statuto dei lavoratori, oggi la mobilità delle mansioni assegnate al lavoratore può svilupparsi solo in direzione orizzontale (mansioni equivalenti) o verticale (mansioni superiori), mentre è di regola esclusa la mobilità verso il basso. Per vero il legislatore non esplicita il concetto di “equivalenza di mansioni”, per cui spetta all’interprete individuare gli indici di tale equivalenza, per verificare se il mutamento di mansioni abbia effettivamente rispettato i limiti imposti dall’art. 2103 c.c..
La pronuncia de quo non svolge una funzione chiarificatrice in tal senso. È ben vero che l’equivalenza delle mansioni, che condiziona la legittimità dell’esercizio dello ius variandi, costituisce oggetto di un giudizio di fatto spettante al giudice di merito, tuttavia l’affermazione della Cassazione secondo cui “solo quando le nuove mansioni siano decisamente dequalificanti è possibile un giudizio di dequalificazione” appare francamente affetta da tautologia.
Abbandonata la speranza di una definizione chiarificatrice, si possono tuttavia accertare dei punti fermi procedendo a contrario. Si può infatti dedurre dalle argomentazioni della Suprema Corte, che non costituiscono elementi sufficienti a provare la dequalificazione, né la prevalente manualità, né la minore retribuzione delle mansioni affidate attraverso l’esercizio dello ius variandi.
Quanto all’elemento della manualità, si dirà in seguito della evoluzione che ha portato a far cadere la tradizionale concezione che riteneva infungibili (Meucci) le mansioni legate dalla comune matrice “manuale” (operaie e ausiliarie) e quelle accomunate dalla comune matrice “concettuale” (mansioni impiegatizie). Basti qui precisare che, caduta la predetta preclusione, non sembra più sufficiente il parametro dell’uso delle funzioni intellettive o di quelle manuali, od il maggiore o minore utilizzo di queste ultime, per effettuare un giudizio di equivalenza delle mansioni. Non è dotato di portata efficiente pertanto il rilievo, fatto nel caso di specie, che le mansioni di operaio sono dotate di maggiore manualità rispetto a quelle di guardia giurata, giacché l’osservazione non ha carattere dirimente.
Per quanto riguarda poi l’elemento retributivo, è ormai pacificamente riconosciuto che l’affermazione perentoria “senza alcuna diminuzione della retribuzione”, presente nell’art. 2103 c.c., vada riferita solo alla retribuzione compensativa delle qualità professionali intrinseche delle precedenti mansioni (Cass. n. 16106 del 2003). Rimangono pertanto comunque estranee a questa valutazione di equivalenza quelle componenti della retribuzione che venivano erogate per compensare le particolari modalità della prestazione lavorativa precedentemente svolta, in quanto caratteristiche estrinseche non correlate con le qualità professionali della prestazione stessa, suscettibili di non trovare riscontro nelle successive mansioni. Non è detto che il “valore aggiunto” che veniva attribuito a particolari condizioni di tempo e di luogo nella precedente prestazione, debba trovare corrispondenza anche nelle nuove mansioni.
Del resto, come la diminuzione della retribuzione non prova di per sé l’avvenuto demansionamento, così allo stesso modo, non basta che due posizioni siano retribuite in misura uguale (c.d. equivalenza retributiva), per poter affermare che le rispettive mansioni siano equivalenti. Una ricostruzione che si limitasse a valutare il persistere della medesima retribuzione per giustificare un mutamento di mansioni finirebbe con il disconoscere la funzione di sviluppo della personalità che l’ordinamento da sempre riconosce al lavoro e all’incremento professionale (si pensi al caso in cui il datore di lavoro privi in tutto o in parte il lavoratore delle proprie mansioni, impedendogli di sviluppare la propria professionalità, pur mantenendo invariata la prestazione retributiva).
A questo punto, stabilito che non costituiscono indici sufficienti a provare la dequalificazione, né la prevalente natura manuale, né la minore retribuzione delle mansioni successivamente svolte, resta da chiedersi in cosa effettivamente consista la dequalificazione, e quali ne siano gli indici.
Durante la vigenza del vecchio art. 2103 c.c. per la fungibilità delle mansioni veniva richiesta una affinità, tra le vecchie e le nuove mansioni, di carattere meramente oggettivo. Affinché la mutazione unilaterale delle mansioni da parte del datore di lavoro non risultasse pregiudizievole per il lavoratore, era necessario che quelle successivamente affidate fossero, in sé e per sé considerate, equivalenti alle precedenti.
In seguito, con l’affermarsi dell’idea che lo stesso lavoratore abbia il diritto, oltre che il dovere, di sviluppare la propria professionalità, essendo il luogo di lavoro una “formazione sociale ove si svolge la propria personalità” (art. 2 cost.), la nozione di equivalenza utilizzata dal nuovo art. 2103 c.c. viene invece coniugata in termini soggettivi, di professionalità. Il baricentro della disposizione diventa la protezione della professionalità acquisita dal prestatore di lavoro. Ne discende che l’art. 2103 c.c. ammette sì l’assegnazione del lavoratore a mansioni equivalenti, ma che sono tali solo quelle oggettivamente comprese nella stessa area professionale e salariale e soprattutto che, soggettivamente, si armonizzino con la professionalità già acquisita dal lavoratore nel corso del rapporto, impedendone comunque la dequalifìcazione o la mortificazione professionale (Cass., sez. un., 7 agosto 1998, n. 7755).
Peraltro, se il parametro è quello del mantenimento e lo sviluppo della professionalità acquisita, ne deriva che non ogni modifica quantitativa delle mansioni si traduce automaticamente in una dequalificazione professionale; spetterà al Giudice di merito, accertare, di volta in volta, se l’effettuata “sottrazione” di mansioni sia stata tale – per la sua natura e portata, per la sua incidenza sui poteri del lavoratore e sulla sua collocazione nell’ambito aziendale – da comportare un abbassamento del globale livello delle prestazioni del lavoratore, una sottoutilizzazione delle capacità dallo stesso acquisite e un consequenziale impoverimento della sua professionalità (Cass. Civ., 19 maggio 2000, n. 685611).
Concludendo: non conta il tipo di attività (manuale/intellettuale), non conta la retribuzione, non conta neppure l’aspetto quantitativo dell’attività eseguita, conta la professionalità acquisita, e, anzi, a dar conto della più recente giurisprudenza, di quella “acquisibile”. La Suprema Corte infatti, e lo dimostra anche in questa occasione parlando di “occasione per ampliare il proprio bagaglio professionale”, va optando per una nozione “dinamica”, o “potenziale”, della equivalenza di mansioni.
In questo senso, si può dire, rileva non solo quanto il lavoratore già fa, ma anche quello che sa fare. Ne consegue che come affermato dalla sent. Cass. Civ. n. 10091 del 2006, “l’esistenza, per così dire, di un “minimo comune denominatore” di conoscenze teoriche e capacità pratiche è condizione necessaria e sufficiente a consentire che il dipendente sia in grado di svolgere le nuove mansioni con la preparazione posseduta. Anzi, il fatto di mutare ramo di attività, operando in settori diversi della medesima area professionale, permette finanche al lavoratore d’incrementare ed arricchire il bagaglio di nozioni sviluppato nella fase pregressa del rapporto.”
Restano peraltro ancora poco chiari i limiti concreti perché possa parlarsi di equivalenza delle mansioni, e, in relazione a ciò, la questione, di non poco conto, se lo svilupparsi della professionalità del lavoratore debba essere funzionalizzata alle esigenze dell’individuo o dell’impresa. Tali problematiche appariranno tuttavia più chiare alla luce delle considerazioni del prossimo paragrafo.
Resta da specificare comunque che un orientamento siffatto, con l’ancorare la professione a parametri incerti e in via di evoluzione (dinamici, si dice), potrebbe essere giustificato anche dal fine pratico di evitare il dilagare di richieste di danno da demansionamento, nonché da evitare il proliferare di fenomeni di autotutela da parte del lavoratore che sia adibito a mansioni che ritiene inferiori e dequalificanti.

DEMANSIONAMENTO COME EXTREMA RATIO
Le due questioni, quella attinente all’individuazione delle mansioni equivalenti, cui si faceva cenno, e quella della giustificazione del demansionamento, cui si dedicherà il presente paragrafo, sono strettamente correlate.
Come si è detto, la nozione di professionalità è passata da una concezione statica, ad una dinamica, secondo una concezione che è stata supportata dalla stessa giurisprudenza .
Di regola anzi, la giurisprudenza ha mostrato di demandare alla contrattazione collettiva il compito di prevedere percorsi formativi, per creare questa professionalità potenziale, disciplinando il passaggio del prestatore verso nuove prestazioni, promiscue e vicarie a quelle precedentemente svolte.
Fin qui, si potrebbe dire, nulla di strano, e tuttavia la giurisprudenza si è spinta oltre. Con pronunce aspramente criticate dalla dottrina infatti (Cass., Sez. Un., n. 25033/2006, n. 5285/2007, n. 8596/2007, n. 25313/2007) la Suprema Corte ha finito con l’agganciare la professionalità alla realtà aziendale. Lo sviluppo della professionalità, e qui troviamo le risposte ai precedenti quesiti, non è stato più funzionalizzato al singolo lavoratore, ma alle esigenze dell’impresa.
La stessa sentenza delle Sez. Un. 25033/06, con l’affermare che attraverso clausole del contratto collettivo si possa legittimare “una fungibilità funzionale tra mansioni diverse al fine di sopperire a contingenti esigenze aziendali”, ha giustificato una valutazione della professionalità dei lavoratori non disgiunta dall’interesse dell’impresa a perseguire un efficace e produttivo assetto organizzativo.
Pari forza derogatoria è stata inoltre riconosciuta dalla giurisprudenza ai patti di declassamento, tanto che sono stati ritenuti legittimi patti di assegnazione a mansioni di minore rilevanza per improrogabili esigenze aziendali (Cass. 10187/02) , ovvero per la necessità di limitare le ricadute dannose derivanti da uno sciopero (Cass. 9709/02, che ha reputato non configurabile una condotta antisindacale nel comportamento del datore di lavoro che, in concomitanza di uno sciopero da parte delle organizzazioni sindacali, aveva assegnato a mansioni inferiori il personale rimasto in servizio).
Si è, addirittura, reputato consentito un mutamento in peius della mansioni a seguito di una deliberazione datoriale unilaterale, sul presupposto che il divieto di una siffatta variazione, non troverebbe applicazione nel caso in cui vi sia una sopravvenienza che non consenta la conservazione della precedente posizione lavorativa né lo spostamento a mansioni non pregiudizievoli della professionalità pregressa (Cass. Civ. 4790/04, la Suprema Corte aveva escluso l’applicabilità dell’articolo 2103 c.c. in riferimento alla posizione di un dipendente delle Poste Italiane che, originariamente inquadrato nel quarto livello con la qualifica di pittore, era stato poi addetto alle mansioni di portalettere, appartenenti alla medesima area funzionale, a seguito di ristrutturazione aziendale che aveva comportato la soppressione delle mansioni di pittore).
Ancora, travalicando il predetto confine tra attività manuali ed intellettuali, anche il passaggio da mansioni impiegatizie ad operaie veniva ammesso dalla Cassazione a fronte di esigenze organizzative (Cass. n. 25313/2007). In verità, in relazione al predetto confine tra attività impiegatizia ed operaia, vi è da fare una precisazione. Infatti attenta dottrina (Ghera) rileva che la caratteristica prevalenza, nell’una, dell’attività intellettuale, nell’altra, dell’attività manuale, è andata via via diluendosi nella realtà concreta, tanto che la distinzione tra categoria impiegatizia e categoria operaia finisce con l’essere meramente fittizia, non supportata da reali differenze nelle mansioni tra lavoratori. Proprio in questo senso del resto si spiega l’instaurazione di un nuovo sistema di classificazione professionale, non più fondato sulla separazione tra impiegati ed operai (inquadramento unico).
Comunque, a prescindere dalle predette considerazioni e tornando al punto, giova sottolineare che non si condivide la tesi dottrinale che condanna tout court un approccio alla problematica del demansionamento che faccia riferimento anche alla realtà aziendale. Certo è che vanno tenute ben distinte le ipotesi in cui il demansionamento sia legato genericamente a delle esigenze di impresa, o se tali esigenze effettivamente erano tali che avrebbero potuto legittimare un licenziamento.
Solo in quest’ultimo caso infatti può trovare accoglimento quella logica di bilanciamento che vede contrapposti, da un lato il diritto dell’imprenditore ad una razionale ed efficiente gestione delle proprie risorse, dall’altro il diritto del lavoratore a non vedere frustrato il proprio percorso professionale.
La conservazione del posto di lavoro è certo un minus rispetto alla garanzia offerta dall’art. 2103 c.c., per cui, in assenza dei requisiti per mantenere il posto di lavoro, tale presidio può essere speso a garanzia dell’interesse ad evitare il licenziamento. È condivisibile che le limitazioni dello ius variandi introdotte dall’art. 2103 c.c., nel testo di cui all’art. 13 della legge n. 300 del 1970, non vengano in considerazione nell’ipotesi in cui il trasferimento del lavoratore non consegua ad un atto unilaterale posto in essere dal datore di lavoro nel suo esclusivo interesse, ma costituisca piuttosto una misura precipuamente adottata nell’interesse del lavoratore di evitare la perdita del posto, nell’impossibilità – non altrimenti ovviabile – di una prosecuzione dell’attività lavorativa nella sede di origine.
Del resto è lo stesso legislatore che prevede ipotesi in cui, pur di garantire il posto di lavoro al prestatore, questi viene adibito a mansioni inferiori, si pensi alla disciplina relativa ai lavoratori divenuti inabili durante il rapporto lavorativo, che possono essere licenziati solo se risulti impossibile adibirli in mansioni disponibili in azienda, anche se non equivalenti, con la conservazione del trattamento della precedente qualifica(art. 1, co. 7, l. 68/1999), e – in modo ancora più significativo in considerazione di quanto interessa in questa sede – alla disciplina attinente i lavoratori esuberanti, il cui licenziamento può essere evitato proprio attraverso un accordo collettivo che permetta loro di essere adibiti a mansioni anche inferiori alle precedenti ai fini della conservazione nel posto di lavoro (art. 4, co. 11, D.Lgs 223/91).
Nel caso di specie peraltro il comportamento del prestatore di lavoro, che aveva partecipato a corsi di riqualificazione, viene considerato dalla Cassazione, in divergenza con quanto fatto dalla Corte d’Appello, come comportamento concludente, qualificabile come tacito assenso alla conclusione di un patto di declassamento. Si richiama pertanto l’orientamento giurisprudenziale (invero non unanime) sulla legittimità del cosiddetto. patto di declassamento come alternativa al licenziamento, per cui la modifica in peius delle mansioni del lavoratore non sarebbe illegittima quando sia stata disposta con il consenso del dipendente e per evitare il licenziamento, perchè, in tal caso, la sua diversa utilizzazione non contrasterebbe con le esigenze di rispettare la dignità della persona, configurandosi anzi come una situazione più favorevole di quella ispirata al mero rispetto formale della disposizione, che condurrebbe alla cessazione del rapporto.
Dunque, nonostante in realtà l’art. 2103 c.c., regolamentata l’adibizione a mansioni equivalenti o superiori, commini la nullità di ogni patto contrario, tale disposizione perde di vigenza in relazione al rischio, concretamente sussistente per il lavoratore, di perdere in toto il posto di lavoro. Ne consegue che il patto di declassamento mantiene la sua legittimazione, anche qualora la proposta sia avanzata dal datore di lavoro anziché dal lavoratore, purché ovviamente, come rileva Cass. n. 2375/2005, vi sia il consenso del lavoratore e sussistano le condizioni che avrebbero legittimato il licenziamento in mancanza dell’accordo.
Specificato che il patto di declassamento deve essere immune da vizi del volere (occorre che l’intento di porre fine al rapporto sia stato serio e giustificato, e non un espediente per ottenere prestazioni lavorative in elusione di una norma imperativa, o frutto di un comportamento doloso da parte del datore di lavoro), bisogna concludere considerando che nel caso di specie, anche in assenza di un consenso da parte del lavoratore, la mera tolleranza avrebbe potuto considerarsi sufficiente, bastando all’uopo anche un atto unilaterale del datore di lavoro.
Infatti, come riconosciuto espressamente dalla citata Cass. n. 25313/2007, riconosce che il principio della “cosiddetta ammissibilità del patto di dequalificazione al fine di evitare il licenziamento, è stato successivamente ampliato al fine di ritenere legittima anche l’assegnazione datoriale unilaterale a mansioni inferiori allo stesso fine , in caso di inabilità permanente alle mansioni, ed in mancanza di altre equivalenti”.

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