Illecito imporre il periodo di prova all’ex dipendente che rientra in azienda con lo stesso ruolo
La sentenza in esame (Cassazione, Sezione lavoro, sentenza n. 138/08; depositata l’ 8 gennaio) trae origine da una fattispecie concreta assai diffusa nella prassi lavoristica. Il lavoratore, dopo un primo contratto di lavoro protrattosi per cinque anni e conclusosi per dimissioni dello stesso motivate con ragioni di famiglia, concludeva con il datore di lavoro – a distanza di circa quattro mesi dalla cessazione del primo rapporto – altro contratto di lavoro (a termine, di sei mesi) con medesima qualifica, e con patto di prova. Dopo quattro giorni e mezzo di lavoro tuttavia, in concomitanza con la partecipazione del lavoratore ad uno sciopero, lo stesso veniva licenziato. Il datore di lavoro motivava il licenziamento collegandolo al negativo esperimento del periodo di prova, allegando mancanza di motivazione e scarsa correttezza nei confronti dell’azienda da parte del prestatore di lavoro.
La Corte d’Appello, in riforma della sentenza di primo grado, dichiarava illegittimo il licenziamento. In primis infatti considerava illegittimamente apposto il patto di prova, in quanto non effettivamente sorretto dalla finalità di accertare le qualità professionali del lavoratore, che erano le stesse già verificate dal datore di lavoro nel precedente rapporto. In secondo luogo deduceva dalla genericità della motivazione, nonché dalla coincidenza del licenziamento con il predetto sciopero, la natura ritorsiva e discriminatoria dello stesso, con conseguente illegittimità anche sotto questo profilo.
Quanto all’aspetto risarcitorio, non avendo l’appellante riproposto in sede di gravame la domanda di nullità del contratto di lavoro a termine, la Corte accoglieva unicamente la domanda del lavoratore volta ad ottenere il risarcimento del danno commisurato alle retribuzioni maturate dalla data del recesso alla scadenza del termine apposto al contratto.
Impugnava la decisione il datore di lavoro, affermando che il patto di prova è sempre apponibile al contratto di lavoro, salvo l’accertamento dell’uso illecito dello stesso; che la prova di un fine illecito eventualmente perseguito con il patto di prova sarebbe comunque gravata sul lavoratore; che non era proprio onere dimostrare l’esito negativo dell’esperimento del suddetto periodo di prova, poiché incombe sul lavoratore che deduce l’uso illecito di un patto di prova l’onere di allegare e provare il positivo superamento dell’esperimento e quindi l’imputabilità del recesso ad un motivo diverso, essendo per il resto il datore di lavoro libero nella propria valutazione discrezionale. Sottolineava infine, per quanto qui di interesse, che la sentenza impugnata, motivando l’illegittimità del licenziamento pure su un suo presunto carattere ritorsivo/discriminatorio, aveva deciso su una domanda di nullità in realtà non formulata dal lavoratore stesso.
La Cassazione confermava la ricostruzione della fattispecie concreta effettuata in secondo grado, ribadendo che il patto di prova apposto al contratto di lavoro mira a tutelare l’interesse di entrambe le parti contrattuali a sperimentare la reciproca convenienza al contratto, sicché deve ritenersi illegittimamente apposto un patto in tal senso che non sia funzionale alla suddetta sperimentazione per essere questa già avvenuta con esito positivo nelle specifiche mansioni e per avere in precedenza il lavoratore prestato per un congruo tempo la propria opera per il datore di lavoro. Una volta ritenuta l’illegittimità del patto di prova pertanto concludeva per l’illegittimità del licenziamento in quanto motivato con il mancato superamento della prova, ritenendo a tal fine irrilevante l’affermata natura ritorsiva del licenziamento, in quanto la prima motivazione era di per sé sola sufficiente a giustificare l’illegittimità del licenziamento.
Ricorreva, in via incidentale, pure il lavoratore, visto il rigetto della domanda di applicazione della tutela reale proposta in via principale. Sosteneva infatti che anche in grado di appello era stata proposta domanda di reintegrazione e di risarcimento ai sensi dell’art. 18 St. Lav. E che quindi la domanda fondata sulla nullità dell’apposizione del termine doveva ritenersi riproposta.
Confermando anche su questo punto la sentenza impugnata, statuiva la Cassazione che il fatto di aver riproposto in appello la domanda di tutela reale non implicava affatto la riproposizione della nullità del termine apposto al contratto, in quanto anche nel rito del lavoro l’appello non ha effetto pienamente devolutivo.
PATTO DI PROVA E RECESSO AD NUTUM
Come noto, residuano nel nostro ordinamento solo alcune tassative ipotesi di licenziamento ad nutum. Una di queste riguarda i lavoratori in prova: la disciplina relativa al licenziamento, che mira a tutelare il lavoratore, non troverà applicazione per tutta la durata del periodo di prova pattuito e fino ad un massimo di sei mesi (art. 10, l. n. 604 del 1966). Pertanto ciascuna delle parti, durante il decorso del periodo previsto dai contratti collettivi o dalle pattuizioni individuali, potrà risolvere il rapporto facendo uso del diritto di recesso senza obbligo del preavviso o dell’indennità sostitutiva (art. 2096 c.c.), ma, soprattutto, il datore di lavoro non dovrà giustificare il recesso per valutazione negativa dell’esperimento del periodo di prova.
Si tratta di una disciplina che evidentemente costituisce una limitazione della tutela legale, soprattutto se si considera che la reciprocità dell’interesse allo svolgimento di un periodo di prova – si parla di cosiddetta prova bilaterale – è una mera fictio iuris. La necessità del lavoratore di valutare la convenienza all’occupazione nel posto di lavoro, in un mercato caratterizzato da un elevato tasso di disoccupazione, si configura come, a dir poco, formale. È evidente invece come il patto di prova sia, nella quasi totalità dei casi, unilateralmente imposto dal datore di lavoro, e supinamente accettato da lavoratore stesso.
Tuttavia il legislatore ha previsto questa disciplina per assicurare al datore di lavoro che la prestazione del lavoratore sia effettivamente confacente alle proprie necessità lavorative. L’apposizione al contratto di lavoro di una clausola di prova (che deve risultare da atto scritto) è infatti finalizzata all’accertamento della sussistenza nel prestatore di determinate qualificazioni tecniche ritenute necessarie al proseguimento del già intrapreso rapporto di lavoro.
La ratio giustificatrice dell’istituto dunque risiede proprio nella necessaria corrispondenza tra quanto offerto e quanto richiesto, analogamente a quanto accade per la vendita con riserva di gradimento (art. 1520 c.c.) o per la vendita a prova (1521 c.c.). Quale tra le due figure si avvicini maggiormente al patto di prova è discutibile, come si avrà modo di approfondire, sotto diversi punti di vista. Per quanto attiene alla struttura dei due istituti, giova ricordare che, mentre la vendita con riserva di gradimento è un contratto in itinere, che non si perfeziona finché la riserva non sia sciolta dal potenziale acquirente con comunicazione del gradimento al venditore, la vendita a prova è un contratto perfetto nei suoi elementi costituivi, anche se sospensivamente condizionato all’esito positivo della prova.
Sotto questo profilo dunque il patto di prova, in quanto elemento accidentale di un contratto di lavoro già perfetto, sembra avvicinarsi alla figura della vendita a prova, anche se non è pacificamente ad esso assimilabile. È dibattuta infatti la configurazione del patto come condizione sospensiva. Se parte della dottrina ritiene che il rapporto, per il momento provvisorio, diventi definitivo proprio in virtù del compimento del periodo di prova o del mancato recesso, altri ritengono al contrario che il patto di prova abbia la natura giuridica di una condizione risolutiva, di condizione sospensiva-risolutiva insieme, o addirittura di un termine finale incerto.
In ogni caso, ciò che accomuna le figure del patto di prova, della vendita con riserva di gradimento e della vendita in prova, è la volontà del legislatore di assicurare l’instaurazione di un rapporto o comunque la conclusione di un contratto che abbia ad oggetto una prestazione o un bene confacente alle esigenze del contraente. Il legislatore consente di far dipendere il perfezionamento del contratto, la verificazione o il mantenimento degli effetti, da una verifica sull’adeguatezza della prestazione o del bene.
Indipendentemente, quindi, dalle differenti costruzioni dogmatiche che la dottrina civilistica ha elaborato riguardo al patto di prova, la predetta clausola attribuisce al contratto di lavoro un quid proprium che non è ravvisabile in assenza della medesima. Fino allo scadere del periodo di prova il rapporto di lavoro viene funzionalizzato ad una esigenza di accertamento che viene riconosciuta al datore di lavoro stesso.
Tale differenza è stata ribadita in più occasioni dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale, prima nelle risalenti sentenze n. 204 del 1976 e n. 189 del 1980 e, più di recente, nella sentenza n. 172 del 1996, ove si è precisato pure che “la dichiarazione di recesso del datore di lavoro per esito negativo della prova non può essere propriamente qualificata come licenziamento ed è invece avvicinabile alla risoluzione del rapporto per scadenza del termine”, con ciò allineandosi alla predetta tesi che individua nel periodo di prova un termine finale incerto.
In linea generale è facile constatare che la giurisprudenza di legittimità considera distintamente le due fattispecie del recesso dal rapporto in prova e del licenziamento dal rapporto definitivo, pur avendo introdotto sempre maggiori possibilità di controllo delle ragioni del recesso, perché appunto la specialità del rapporto, consistente nel predetto accertamento riconosciuto al datore di lavoro, si proietta sulla facoltà di recesso dal rapporto stesso.
Del resto, come pure ha avuto modo di sottolineare la Corte Costituzionale, i principi generali di tutela della persona e del lavoro (artt. 2 e 35 Cost.) non si traducono nel diritto al conseguimento ed al mantenimento del posto, dovendosi piuttosto riconoscere garanzia costituzionale al solo diritto di non subire un licenziamento arbitrario.
Proprio in questa prospettiva, se da un lato si riconosce come costituzionalmente legittimo che il datore di lavoro, proprio in virtù della necessità di verificare in concreto la sussistenza nel prestatore di quelle qualità tecniche ritenute necessarie al proseguimento del rapporto di lavoro, possa recedere dal contratto senza obbligo di preavviso, senza giusta causa o giustificato motivo, in ogni momento, dall’altro però è necessario verificare che effettivamente il motivo del recesso sia collegato all’esito dell’esperimento del periodo di prova. In sostanza, anche se è riconosciuta questa facoltà di recedere al datore di lavoro, tale facoltà è pur sempre funzionalizzata alle suddette finalità di accertamento delle qualità della prestazione. Residueranno pertanto casi di licenziamento illegittimo, in quanto determinato da motivi illeciti o discriminatori.
Certamente l’assenza della necessità di motivare il “licenziamento” potrebbe facilitare l’elusione di questo vincolo funzionale tra recesso ed esito negativo del periodo di prova. Al proposito si discute se per gli invalidi obbligatoriamente assunti, il recesso per esito negativo della prova richieda una motivazione che, pur non integrando gli estremi di una vera e propria giustificazione, permetta comunque di escludere l’inammissibile incidenza sulla valutazione del datore di lavoro dell’eventuale minor rendimento dovuto allo stato di invalidità.
Analogamente, la Corte Costituzionale (sent. 192/1996) ha avuto modo di puntualizzare che il datore che risolve il rapporto di lavoro in prova con una lavoratrice di cui, all’atto del recesso, conosce lo stato di gravidanza, “deve spiegare motivatamente le ragioni che giustificano il giudizio negativo circa l’esito dell’esperimento, in guisa da consentire alla controparte di individuare i temi della prova contraria e al giudice di svolgere un opportuno sindacato di merito sui reali motivi del recesso, al fine di escludere con ragionevole certezza che esso sia stato determinato dalla condizione di donna incinta”.
Esclusi questi casi limite, sarà onere del lavoratore provare che il recesso è stato determinato da motivi illeciti o discriminatori. Ovviamente, non qualsiasi licenziamento effettuato nel periodo di prova, pur non collegato all’esperimento della prova, è, per ciò solo, illegittimo. Un recesso collegato ad un motivo estraneo all’esperimento della prova non costituisce di per sé solo motivo illecito ex art. 1345 c.c., né è a quest’ultimo equiparabile quanto all’idoneità ad inficiare il recesso come affetto dal vizio di nullità. Dunque, ove il recesso sia avvenuto per un motivo che si dimostra estraneo all’esperimento lavorativo (e in questo senso la prova, gravante sempre sul lavoratore, del positivo espletamento delle mansioni assegnate, costituirà base per una presunzione semplice che deduca la riconducibilità del recesso a motivi estranei all’esperimento della prova), ma che non è di per sé illecito, sarà il giudice a dover valutare la giustificatezza del recesso, in termini non dissimili dalla giusta causa e dal giustificato motivo di licenziamento in regime di recesso causale.
Nel caso in esame, pur in presenza di una motivazione, il recesso veniva definito, in sede di appello, “di natura ritorsiva e discriminatoria”. Tale conclusione, raggiunta evidentemente attraverso l’utilizzo del mezzo probatorio della presunzione semplice, si fondava sulla constatazione che la motivazione del datore di lavoro, formulata in modo generico, si riferiva ad una presunta mancanza di motivazione e scarsa correttezza nei confronti dell’azienda, non già con riferimento ad una concreta incapacità a svolgere le mansioni. In realtà è pacifico in giurisprudenza che il potere discrezionale del datore di lavoro che receda dal contratto durante il periodo di prova, è legittimamente esercitato, non solo quando l’accertamento e la valutazione investano direttamente gli elementi di fatto concernenti la capacità professionale del lavoratore, ma anche quando essi attengano il comportamento complessivo dello stesso, ossia la sua correttezza e il modo in cui si manifesta la sua personalità.
Tuttavia altri elementi indizianti, consistenti nella estrema brevità dell’espletamento del periodo di prova (due giorni e mezzo), nonché nella coincidenza del licenziamento con la partecipazione del lavoratore ad uno sciopero, inducevano l’organo giudicante ad affermare che il recesso era stato determinato in maniera esclusiva da un motivo illecito, in quanto ritorsivo avverso il diritto, costituzionalmente garantito, di sciopero.
In realtà la dichiarazione del carattere ritorsivo del licenziamento assume scarsa rilevanza all’interno della pronuncia in esame, in quanto, avendo la Corte d’Appello fondato l’illegittimità del recesso su due autonome ratio decidendi, la Suprema Corte ritiene di non doversi pronunciare sul punto, essendo sufficiente a sorreggere la decisione l’affermata illegittimità del patto di prova in sé e per sé considerato, che sarà oggetto del successivo paragrafo.
LA PATOLOGIA DEL PATTO DI PROVA
Come si è detto, il punto nevralgico toccato dalla sentenza in esame, che porta ad affermare l’illegittimità del licenziamento intimato dal datore di lavoro, riguarda l’illegittimità del patto di prova in sé e per sé considerato.
L’assunzione in prova è posta dall’ordinamento a conferma delle qualificazioni tecniche che si presuppongono già formalmente acquisite, ed è giustificata dalla obiettiva necessità di valutare in concreto le capacità lavorative del soggetto. Proprio in ragione di questa ratio giustificatrice, il patto di prova viene ritenuto non contrastante né con il principio d’eguaglianza né con la tutela del lavoro, né con i principi sulla giusta retribuzione, chè, anzi, la tutela della stabilità del posto di lavoro si rinviene nella circostanza per cui, compiuto il periodo di prova, ove nessuna delle due parti receda, o in ogni caso trascorsi sei mesi, il rapporto diventa definitivo.
È dunque proprio questo l’elemento specifico che individua la causa dell’assunzione in prova e la distingue dal contratto definitivo: l’accertamento di determinate qualificazioni tecniche del prestatore, necessarie allo svolgimento dell’attività per la quale intende essere assunto e la subordinazione del rapporto di lavoro alla condizione sospensiva (o risolutiva, o al termine incerto) che nessuna delle parti receda entro il termine fissato dalla legge.
Il legislatore dunque, nel prevedere questa disciplina, ha ritenuto la funzione economico sociale del patto di prova meritevole di tutela. Ma cosa accade se il patto di prova, pur astrattamente lecito, non sia in concreto funzionalizzato alle finalità previste dall’ordinamento?
È il caso della sentenza in esame, e di molte altre che si attestano sulla stessa posizione. Infatti, secondo l’orientamento costante della Corte di legittimità, il patto di prova apposto al contratto di lavoro è volto a tutelare l’interesse delle parti a verificare la reciproca convenienza del contratto, per cui deve ritenersi illegittimamente apposto un patto di prova che non sia funzionale alla suddetta valutazione, ad esempio perché questa sia già avvenuta con esito positivo nelle specifiche mansioni, o perché il lavoratore abbia gia pestato la propria opera per il datore di lavoro per un congruo tempo.
La questione va a coinvolgere le delicate problematiche della nozione di causa, di causa illecita e di contratto in frode alla legge. Si ripropone infatti la controversa tematica della definizione di causa come funzione economico sociale del negozio o come funzione economica individuale dello stesso, ossia il perenne dilemma tra causa in astratto e causa in concreto. Se l’impostazione tradizionale adottava una prospettiva oggettiva, incentrata sull’unità del contratto come strumento per il perseguimento di scopi riconducibili all’interno di schemi predisposti dall’ordinamento, è pur vero che parte della dottrina e della giurisprudenza odierne scalfiscono la definizione della causa come astratta ragione economico-giuridica del contratto.
In particolare, è già da tempo oggetto di critica la sovrapposizione tra i concetti di tipo e di causa, sovrapposizione che costituisce inevitabile conseguenza della ricostruzione effettuata dall’orientamento tradizionale. Se la causa viene individuata nella obiettiva funzione economico-sociale del contratto, essa finisce col coincidere con il tipo legale previsto dal legislatore. A questo punto non si vede quale utilità potrebbe avere il concetto di causa se riferito ai contratti tipici, confondendosi esso con la nozione illustrata dal legislatore di volta in volta, né si vede come potrebbe porsi un problema di illiceità della causa in presenza di contratti tipici, posto che il tipo legale non può essere, per definizione, contra legem. Neppure si spiegherebbe, e si rientra proprio nell’ambito lavoristico, come l’art. 2126 c.c. possa ipotizzare l’illiceità della causa di un contratto che, come quello di lavoro, è tipico.
Ecco allora spiegarsi il perché oggi dottrina e giurisprudenza prevalenti adottino una definizione di causa quale sintesi degli interessi che il negozio è volto a realizzare, quale funzione individuale della singola e specifica negoziazione, al di là del modello astratto utilizzato, senza dunque sovrapporre il concetto di causa a quello di tipo legale. La causa (concreta) andrà desunta dall’effettivo atteggiarsi degli interessi nel caso singolo.
È proprio questa l’operazione ermeneutica che veniva effettuata nel caso in esame in sede di appello, e che veniva poi confermata anche dalla Suprema Corte, al fine di verificare se il patto di prova, pur astrattamente lecito, fosse stato effettivamente funzionalizzato a finalità considerate meritevoli di tutela dall’ordinamento. Nel caso in esame la causa del patto di prova non poteva risiedere nell’accertamento della qualità della prestazione lavorativa, considerate in primis la durata del primo rapporto di lavoro (cinque anni) e la brevità dell’intervallo intercorso tra la conclusione del primo rapporto e la stipula del nuovo contratto di lavoro, in secondo luogo la circostanza che i due contratti avessero previsto l’inquadramento del lavoratore nel medesimo livello contrattuale.
Il sillogismo giuridico che fonda la presunzione che sta alla base della pronuncia è il seguente: se il lavoratore aveva già lavorato per lo stesso datore di lavoro, con le medesime mansioni, è illogico che la successiva assunzione fosse effettivamente volta a verificare le capacità professionali del lavoratore, in quanto erano sono state già precedentemente accertate. In questo senso l’identità delle mansioni tra il primo ed il secondo rapporto di lavoro assume un ruolo fondante.
D’altra parte, in molti casi, è proprio la stessa individuazione delle mansioni che assume un rilievo fondamentale rispetto al patto di prova. Infatti la Suprema Corte collega direttamente l’illegittimità del patto di prova anche alla mancanza della specifica indicazione delle mansioni in relazione alle quali l’esperimento deve svolgersi. Si ritiene che la mancanza di adeguata specificazione delle mansioni del lavoratore assunto in prova, non permettendo allo stesso di individuare i compiti concreti da svolgere, compiti in relazione ai quali dovrà essere valutato al termine della prova, renda invalido il relativo patto. Operando un’inferenza logica simile a quella precedentemente illustrata, la Cassazione ritiene illogica la funzionalizzazione di un periodo di prova all’espletamento di mansioni che non vengano neppure esplicitate al momento dell’assunzione. Logico allora desumere che il patto di prova sia stato in concreto sorretto da una diversa causa.
In relazione alla necessaria individuazione delle mansioni, si ripropone il parallelismo con i predetti istituti della vendita con riserva di gradimento e della vendita a prova, con la necessaria specificazione tuttavia che, mentre la vendita a prova comporta un accertamento della corrispondenza della cosa venduta ai requisiti pattuiti, nonché dell’esistenza delle qualità essenziali e dell’assenza di vizi, il patto di gradimento invece implica un semplice esame della cosa per controllare se sussistano le caratteristiche la cui presenza è ritenuta dalla parte necessaria per esprimere il proprio apprezzamento. In questo senso, tornando all’ambito lavoristico, l’affermata necessità di individuare le mansioni, affinché esse, e la professionalità per le stesse necessaria, costituiscano il parametro per l’espletamento della prova, sembra avvicinare il patto di prova alla figura della vendita a prova, più che alla vendita con riserva di gradimento.
L’organo giudicante dovrà verificare se in concreto sussistesse una necessità effettiva di accertare le qualità professionali e personali del lavoratore non in via generale ed astratta, ma in relazione allo svolgimento di determinate mansioni, quelle previste dal patto di prova. Corollario logico di questa affermazione è che – lo ha stabilito la Corte di Cassazione, sezione lavoro, nella sentenza del 5 dicembre 2007, n. 25301 – mancherà il requisito causale necessario a sorreggere il periodo di prova anche nel caso in cui il lavoratore venga in concreto adibito a mansioni diverse da quelle pattuite.
Nel caso di specie, pur mancando la prova del fatto che le mansioni svolte durante il patto di prova fossero le medesime di quelle svolte durante il primo rapporto di lavoro – né del resto il datore di lavoro aveva provveduto ad allegare elementi in senso contrario sul punto – la Cassazione desume l’identità di mansioni dall’attribuzione della medesima qualifica, rilevando anche che le mansioni proprie del livello contrattuale attribuito non implicavano una particolare specializzazione e dunque non potevano giustificare la previsione di un periodo di prova per il secondo contratto.
Analogo procedimento logico caratterizza la sentenza pronunciata da Cass. civ, sez. lav., 29 luglio 2005, n. 15960, in Giust. civ. Mass. 2005, fasc. 6, in cui veniva rigettato il ricorso proposto dalla datrice di lavoro, evidenziando l’identità delle mansioni svolte dalla lavoratrice nell’ambito di due rapporti di lavoro succedutisi nel tempo. Non essendo ravvisabile la necessità di verificare le qualità professionali e la personalità complessiva della lavoratrice, in quanto già accertate, si concludeva affermando la mancanza di causa del patto di prova.
La sentenza in esame per vero omette di pronunciarsi sul punto. La Suprema Corte afferma l’illegittimità del patto di prova, ma non specifica se tale illegittimità discenda dalla mancanza di causa, dall’illiceità della stessa, o se derivi direttamente dall’art. 1344 c.c. (contratto in frode alla legge). La prima soluzione è quella più facilmente abbordabile: manca in concreto quell’esigenza di verifica delle qualità professionali del lavoratore che costituisce la funzione propria del patto di prova, manca la causa in concreto. Tuttavia neppure l’illiceità della causa o la prospettazione di un contratto in frode alla legge, sono ipotesi prive di una loro plausibilità.
A riprova di ciò basterà prendere in considerazione quanto ha affermato la giurisprudenza in tema di contratto di formazione e lavoro. Tale tipologia contrattuale, che nasceva con la finalità di agevolare l’occupazione giovanile mediante un’esperienza di lavoro formativa, ha ormai, come è noto, un’applicazione soltanto residuale, essendo disapplicata nel settore privato. Essa tuttavia merita di essere qui menzionata, in quanto per quanto riguarda l’aspetto della funzionalizzazione del rapporto di lavoro ad una causa che si aggiunge a quella, diremo “generale”, di scambio prestazione lavorativa-retribuzione, essa presenta profili comuni al patto di prova. In sostanza, in entrambe le ipotesi, il contratto di lavoro deve essere necessariamente funzionalizzato ad una finalità che è ritenuta meritevole dall’ordinamento, e tale da consentire delle deroghe alla disciplina ordinaria del contratto di lavoro. Questa finalità specifica, che costituisce il quid proprium di questi istituti, consiste, nel caso di contratto di formazione e lavoro, nell’acquisizione di una determinata professionalità, nell’ipotesi di patto di prova, nell’accertamento della stessa. Qualora si rilevi, in concreto, l’assenza di tale finalità, per come è stato regolato il rapporto dalle parti, si porrà in termini analoghi il problema dell’assenza, dell’illiceità della causa, o della configurabilità di un contratto in frode alla legge.
Riconosce ad esempio la Suprema Corte che il contratto di formazione e lavoro stipulato nel corso di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato è affetto da nullità per illiceità della causa. Si sottolinea infatti che in tale ipotesi non può realizzarsi la funzione propria di tale contratto, mentre lo scopo obiettivo attribuito al negozio, con l’apposizione di un termine al rapporto di lavoro già in atto, deve essere riferito ad una finalità contraria alla legge, dato il carattere eccezionale e speciale dei contratti a tempo determinato. D’altra parte altra pronunce sostengono pure, secondo orientamento in parte difforme, che qualora il lavoratore sia già esperto, l’impossibilità di formarlo determina invece la nullità del contratto per frode alla legge (ove della circostanza le parti fossero consapevoli al momento della stipulazione), ovvero per difetto di causa.
Pertanto tutte e tre le ricostruzioni prospettate appaiono in linea di principio plausibili, pur con le dovute puntualizzazioni.
Innanzitutto, per quanto riguarda le ipotesi di illiceità e di frode alla legge, e dunque la contrarietà a norme imperative, non vi è dubbio che l’art. 1 della l. 604/1966, che subordina il licenziamento ai casi in cui siano presenti una giusta causa o un giustificato motivo, sia una norma imperativa.
Inoltre, per quanto attiene al negozio in frode alla legge, va precisato che, mentre l’opinione tradizionale riteneva necessario che oltre all’elemento oggettivo – costituito dall’aggiramento del divieto di legge- fosse anche necessario un intento fraudolento comune ad entrambe le parti -e sarebbe stato difficile sostenere che il lavoratore, il quale normalmente subisce supinamente il patto di prova, fosse spinto a sua volta da motivi elusivi- , oggi non è più così. Secondo la moderna dottrina, che come si è detto sposa la concezione di causa concreta, la valutazione dell’avvenuta elusione va effettuata in chiave esclusivamente oggettiva. Del resto in una visione di causa concreta è proprio lo scopo della complessiva operazione economica in quanto tale a balzare in primo piano, cosicché l’ipotesi di frode alla legge tenderà ad essere riassorbita in quella di illiceità della causa, con cui, in ogni caso, ha in comune la sanzione comminata dall’ordinamento, che è quella della nullità.
Peraltro, e si tratta di puntualizzazione valida per tutte le ipotesi prese in considerazione, sia che si prospetti la mancanza di un elemento costitutivo, e dunque si parli di inesistenza, sia che si opti per una ipotesi di nullità per illiceità della causa o ai sensi dell’art. 1344 c.c., il vizio va comunque riferito esclusivamente al patto di prova, non certo al contratto di lavoro in sé e per sé considerato. Giova al proposito sottolineare che l’illiceità della causa del contratto di lavoro cui si riferisce l’art. 2126 c.c. non può essere ravvisata nella mera contrarietà a norma imperativa, ma occorre, in ogni caso, l’incompatibilità di tali elementi del contratto con i principi di ordine pubblico strettamente intesi, ovvero con norme imperative che di per sé stesse attengano all’ordine pubblico. Pertanto, come è accaduto nel caso di specie, il contratto spiega i suoi effetti di ordine patrimoniale quando non contrasti con i principi giuridici ed etici fondamentali dell’ordinamento, in conformità con i principi costituzionali di tutela del lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni (art. 35 Cost.) e del diritto del lavoratore ad una retribuzione proporzionata alla qualità e quantità del lavoro (art. 36 Cost.), i quali possono trovare resistenza solo in altri valori tutelati anch’essi da principi costituzionali.
Come è noto del resto, la condizione e il termine (e dunque, qualunque sia la qualificazione data al patto di prova), sono elementi accidentali del negozio, che possono mancare o venire a mancare senza che venga meno il contratto, in virtù del principio della conservazione del negozio giuridico ex artt. 1367 e 1424 c.c..
In ogni caso dunque – e pur senza intaccare la validità del contratto di lavoro – come affermato dalla Suprema Corte, il patto di prova a prescindere dalla ricostruzione giuridica che si voglia adottare, in quanto non funzionalizzato all’accertamento delle qualità professionali del lavoratore, era stato illegittimamente apposto. Proprio per questo lo stesso licenziamento, in quanto motivato con il mancato superamento del periodo di prova, era da considerarsi a sua volta illegittimo.
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