Tardiva ottemperanza del datore alla reintegra: è il lavoratore che deve provare danni distinti e ulteriori
Con la sentenza 26561/07 pubblicata su Diritto&Giustizia del 20 dicembre 2007, il Supremo Collegio ribadisce il proprio costante indirizzo in ordine all’onere della prova relativo al ritardo del datore di lavoro nell’ottemperare alla sentenza che ordina la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro.
In breve i fatti che caratterizzano la fattispecie esaminata dalla Corte di legittimità: istauratosi il giudizio, il Tribunale con sentenza del 6 maggio 2002 rigettava la domanda di parte attrice la quale chiedeva la condanna della Banca Nazionale del Lavoro al risarcimento del danno per il ritardo con il quale era stata reintegrata nel suo posto di lavoro. Sul gravame proposto dal lavoratore la Corte di appello di Messina in parziale riforma della sentenza resa dal Tribunale con pronuncia del 25 novembre 2003 statuiva che, il ritardo con il quale era stata disposta la reintegrazione, costituiva causa di un danno esistenziale, risarcibile ai sensi dell’art. 2043 c.c. Per la Cassazione di tale decisione ricorreva la Banca Nazionale del Lavoro.
LA REINTEGRA DEL LAVORATORE EX ART 18 L. 300/1970
I rimedi predisposti dall’ordinamento, contro il licenziamento illegittimo sono da ricondursi a seconda delle diverse dimensioni aziendali. Ed invero, ai sensi dell’art. 18 Stat. Lav. nei confronti dei datori di lavoro, imprenditori e non imprenditori, che occupino più di quindici dipendenti nell’unità produttiva, oppure nell’ambito dello stesso Comune, ovvero che abbiano globalmente alle proprie dipendenze più di sessanta lavoratori si applica la tutela reale che consiste nell’obbligo del datore di lavoro e nel correlativo diritto del prestatore alla reintegrazione nel posto di lavoro.
Negli altri casi vige, invece, la tutela obbligatoria, per cui è lasciata alla volontà del datore di lavoro l’alternativa tra la riassunzione del lavoratore e il pagamento di una penale.
Da quanto detto, emerge che nel caso in cui il datore di lavoro occupi più di 15 dipendenti nella sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo in cui è avvenuto il licenziamento o nello stesso comune, il datore di lavoro è obbligato a reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro, nonché al risarcimento del danno subito dal lavoratore a causa del licenziamento.
Qualora invece le dimensioni dell’impresa non raggiungono i limiti anzidetti non ha luogo la disciplina di cui all’art. 18 Stat. Lav., bensì la normativa di cui alla legge 604 del 1966 così come modificata dalla legge 108 del 1990.
In quest’ottica, giova ricordare che la reintegra nel posto di lavoro è una delle maggiori novità che sono state introdotte con l’art. 18 Stat. Lav. per quanto attiene alla pronuncia di inefficacia, nullità o annullamento del licenziamento illegittimo.
Questo provvedimento può essere pronunciato in varie forme ed in diverse situazioni.
L’ipotesi classica alla quale si riconnette la previsione dell’art. 18 Stat. Lav. è costituita dal rito del lavoro. Difatti com’è noto, la domanda di reintegra introduce un petitum ulteriore e conseguente rispetto alla domanda giudiziale che ha lo scopo di far dichiarare l’illegittimità del licenziamento.
La reintegrazione si configura così, sia come sanzione del licenziamento illegittimo sia come obbligo di fare che, in quanto tale è infungibile ed incoercibile.
Di qui, si ritiene che il legislatore si è mantenuto nell’ambito di una tutela risarcitoria intesa come forma di coazione indiretta.
Contenuto dell’ordine di reintegrazione è dunque l’integrale riammissione in servizio del lavoratore licenziato imponendo al datore di lavoro di tenere tutti i comportamenti attivi e passivi che appaiono necessari.
Tuttavia occorre puntualizzare che, il lavoratore il quale abbia ottenuto l’ordine giudiziale di reintegra non è tenuto ad attivarsi per offrire la prestazione, ma può attendere l’invito del datore di lavoro a riprendere servizio. In questo senso però il lavoratore deve obbedire entro trenta giorni a pena di risoluzione del rapporto, salvo certamente un giustificato motivo di assenza.
Oltre all’ordine di reintegra è necessario, peraltro, ai fini di una esaustiva disamina, dar conto dell’obbligo del datore di lavoro di risarcire il danno subito dal lavoratore, con una indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento a quello dell’effettiva reintegra per cui non incorre alcun rapporto di alternatività tra reintegra e obbligo di risarcire il danno.
Si è così previsto che, quando non sia possibile per volontà del datore di lavoro l’esecuzione della prestazione, ai sensi dell’art. 18 Stat. Lav. co. 4 il datore di lavoro sia tenuto al pagamento di un’indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto e comunque non inferiore a cinque mensilità, a titolo di risarcimento del danno per il periodo che va dal licenziamento fino all’effettiva reintegrazione.
In tale senso la disposizione di cui all’art. 18 Stat Lav., originariamente distingueva nettamente da un lato, il periodo tra il licenziamento illegittimo e la sentenza di reintegrazione in servizio, per il quale prevedeva un regime sanzionatorio, e dall’altro il periodo successivo all’ordine del giudice, per il quale disponeva fino all’effettiva reintegra, il pagamento delle retribuzioni.
Quanto detto portava a due conseguenze. In primo luogo la detraibilità dell’aliunde perceptum o percipiendum era limitata al regime risarcitorio ante sentenza. In secondo luogo in caso di riforma o cassazione della sentenza di reintegra, si ammetteva la ripetizione del datore di lavoro solo di quanto pagato a titolo risarcitorio per il periodo precedente l’ordine di reintegrazione.
Attualmente, invece, il testo dell’art. 18 Stat. Lav. novellato dalla legge 108/1990 prevede un indistinto regime risarcitorio dal licenziamento illegittimo sino all’effettiva reintegrazione. Tutto ciò implica quindi che è possibile sostenere la detrazione dell’aliunde perceptum e percipiendum anche per il periodo successivo alla sentenza di reintegrazione.
La pronuncia di reintegrazione nel posto di lavoro e peraltro immediatamente esecutiva ex lege. Ci si chiede però come debba essere eseguito il provvedimento giudiziario, nel senso che la sentenza mira senz’altro a realizzare una tutela effettiva dei diritti del lavoratore illegittimamente licenziato. Diventa perciò indispensabile nel caso di non spontanea esecuzione da parte del datore di lavoro indagare sulle modalità con cui le statuizioni del giudice possono essere realizzare per l’appunto coattivamente. Tuttavia in relazione a questo aspetto sono sorti non pochi problemi. Infatti, originariamente l’art. 18 Stat. Lav. prevedeva l’immediata esecutività della condanna alla reintegrazione, ciò nonostante la disposizione in parola non conteneva alcun indicazione circa le modalità di attuazione della condanna.
E per di più nemmeno nell’art. 28 Stat. Lav. è prevista alcuna regola di esecuzione dell’ordine del giudice, applicandosi difatti l’art. 650 c.p. per il caso in cui il datore di lavoro non ne dia spontanea esecuzione.
Le ipotesi invece in cui l’ordine di reintegrazioni viene emanato in via cautelare, rientrano nelle previsioni di cui all’art. 669 duodecies che rinvia alle disposizioni date dal giudice della cautela. Nondimeno, si osservi che l’art. 18 Stat. Lav. consolida la tutela del rappresentante sindacale in quanto prevede un astreinte a carico del datore di lavoro che non esegua l’ordinanza di reintegrazione emanata in corso di causa.
Dalle premesse suesposte risulta quanto mai chiaro che l’ordine di reintegrazione è finalizzata a trovare concreta attuazione. Ed invero l’ultimo comma dell’art. 18 Stat. Lav. rappresenta per l’appunto uno strumento di coercizione indiretta, atto ad indurre il datore di lavoro ad ottemperare all’ordine di reintegrazione del rappresentante sindacale. La situazione sin’ora descritta non si verifica invece per quanto concerne il rito ordinario infatti non esistono disposizioni di astreintes o di altre misure coercitive indirette. A fronte di tale situazione di fatto si è posto quindi il problema relativo ad una sua esecuzione coattiva diretta. Ed invero per quanto attiene alla condanna al risarcimento dei danni subiti dal lavoratore illegittimamente licenziato nulla quaestio in quanto in caso di inottemperanza il lavoratore potrà far riferimento agli strumenti per l’esecuzione coattiva delle prestazioni a contenuto pecuniario. Una medesima tutela non esiste invece per quanto concerne l’esecuzione dell’ordine di reintegra disposto dal giudice.
L’unico espediente processuale si può rinvenire nelle modalità ordinarie per l’esecuzione coattiva degli obblighi di fare e di non fare previsti dagli artt. 612 ss. Sul tema dottrina e giurisprudenza si sono confrontate in un ampio dibattito tra chi riteneva configurabile un’eseguibilità se non altro in forma specifica almeno parziale dell’ordine di reintegra. (Proto Pisani) Altra parte della dottrina invece propendeva contrariamente per l’assoluta inconfigurabilità dell’eseguibilità in forma specifica sul presupposto del principio del nemo ad factum precise cogi potest e l’infungibilità delle prestazioni dovute dal datore di lavoro. Conseguentemente non era invocabile la disposizione di cui all’art. 612 ss. al fine di realizzare l’esecuzione forzata in forma specifica di tali prestazioni. (Mandrioli).
Ebbene la soluzione maggiormente seguita anche dalla giurisprudenza è stata per l’appunto quest’ultima e quindi rimane fermo che il datore di lavoro essendo comunque obbligato al risarcimento del danno potrà ritenere conveniente reintegrare il lavoratore piuttosto che servirsi delle sue prestazioni.
LA REINTEGRAZIONE COME “CONDANNA IN FUTURO”
La sentenza con la quale il giudice ordina al datore di lavoro di reintegrare il lavoratore è di mero accertamento, infatti in conseguenza dell’accertamento dell’invalidità del licenziamento, subentra la necessità di eliminare gli effetti di tale illecito a far data da quando si è verificato e la situazione ritorni in linea con gli obblighi derivanti dal rapporto di lavoro, che a fronte della dichiarazione di invalidità del licenziamento continua.
È indubbio quindi che la pronuncia del giudice, non rappresenta la ricostituzione del rapporto di lavoro ma la cessazione del comportamento illecito del datore di lavoro e pertanto, l’eliminazione degli effetti di tale comportamento illecito.
Orbene, è opinione corrente come ribadito dalla sentenza che qui si commenta che il legislatore abbia inteso regolare con l’art. 18 Stat. Lav., la misura del danno subito dal lavoratore per effetto della sua incolpevole inattività tanto per il periodo precedente la sentenza che per quello successivo, ma se da un lato non vi è la possibilità di detrarre l’aliunde perceptum dall’altra il lavoratore può pretendere eventuali danni patrimoniali superiori alla misura della retribuzione.
Tuttavia quanto all’inattività del lavoratore per il periodo successivo alla sentenza che abbia ordinato la reintegrazione è stato osservato dalla giurisprudenza consolidata a cui si è uniformata la pronuncia in esame, la non configurabilità di questa fattispecie in relazione all’art. 2103 c.c.
Ed invero la disposizione di cui all’art. 2103 c.c. presuppone l’attualità in fatto e in diritto del rapporto lavorativo ed una dequalificazione intervenuta nel corso dello stesso.
L’ordine di reintegrazione, invece, presuppone la persistenza del rapporto e l’inidoneità del licenziamento illegittimo a produrre il suo effetto estintivo (Vallebona).
LE CONSEGUENZE DERIVANTI DAL RITARDO NELLA REINTEGRA NEL POSTO DI LAVORO
Il legislatore come si è detto definisce con puntualità le conseguenze del licenziamento illegittimo sino all’effettiva reintegrazione.
Tuttavia secondo il diritto comune, la qualificazione risarcitoria impone al lavoratore l’onere di provare il danno subito.
Peraltro, la commisurazione legale dell’indennità alle retribuzioni perdute è ritenuta suscettibile di prova contraria, ovvero si detrae dal risarcimento parametrato alla retribuzione quanto il lavoratore abbia guadagnato altrove (cd. aliunde perceptum) utilizzando il tempo reso libero dal licenziamento secondo il principio della “compensatio lucri damno”.
Nondimeno dall’indennità legalmente predeterminata va detratto anche il danno che il lavoratore avrebbe potuto altresì evitare usando l’ordinaria diligenza ex art. 1227 c.c. intesa nel senso di quanto avrebbe potuto guadagnare attivandosi magari per la ricerca di una nuova occupazione in relazione alla situazione del mercato del lavoro.
La pronuncia in parola sembra aderire nel senso sin’ora descritto, sempre che il lavoratore dimostri l’esistenza del pregiudizio subito In assenza di tale prova differentemente il lavoratore ha diritto soltanto all’indennizzo.
L’ONERE DELLA PROVA IMPOSTO AL LAVORATORE E LA CONFIGURABILITÀ DEL DANNO ESISTENZIALE
La prova dei danni distinti ed ulteriori rispetto ai ricordati pregiudizi economici contemplati per l’appunto dall’art. 18 co. 4 Stat. Lav. incombe quindi sul lavoratore ai sensi dell’art. 2697 c.c.
Orbene, tutto ciò considerato senz’altro l’inottemperanza alla sentenza che abbia disposto la reintegrazione è suscettibile di cagionare al lavoratore un danno esistenziale.
Sul punto si ricorda che, come sostenuto recentemente dalla Sezioni Unite con la pronuncia del 24 marzo 2006 n. 6572, “il danno esistenziale è autonoma e legittima categoria dogmatica giuridica in seno dell’articolo 2059 codice civile; esso si fonda sulla natura non meramente emotiva ed interiore (propria del cosiddetto danno morale), ma oggettivamente accertabile del pregiudizio attraverso la prova di scelte di vita diverse da quelle che si sarebbero adottate se non si fosse verificato l’evento dannoso; richiede una specifica allegazione e prova, anche per presunzioni”.
A differenza, del danno psichico, che è una patologia e quindi rientra nell’ambito del danno biologico, il danno esistenziale si manifesta in rinunce ad attività quotidiane di qualsiasi genere, in compromissioni delle proprie sfere di esplicazione personale, insomma in quel non facere che costituisce il presupposto delle perdite di utilità quotidiane.
Tale voce di danno come sostenuto chiarito anche dalle Sezioni Unite con la pronuncia 24 marzo 2006 n. 6572 è oggettivamente accertabile attraverso l’allegazione, a cura esclusiva del soggetto danneggiato, di precise circostanze comprovanti l’adozione di scelte di vita diverse da quelle che sarebbero state seguite in assenza dell’evento dannoso. Ne consegue, pertanto, che è onere esclusivo del lavoratore provare che il pregiudizio.
CONCLUSIONI
Nel caso oggetto, invece, della presente trattazione il Supremo Collegio ha invece rilevato che il quarto comma dell’art. 18 della legge 300 del 1970, come modificato dall’art. 1 della legge n. 108 del 1990, regolamenta il risarcimento del danno subito dal lavoratore dal giorno del licenziamento sino a quello della reintegrazione e, quindi anche per il tempo successivo alla sentenza che abbia accertato l’inefficacia o l’invalidità del recesso. Orbene, è indubbio quindi che l’inottemperanza all’ordine di reintegrazione contenuto nella sentenza comporta l’obbligo per il datore di lavoro di corrispondere la retribuzione e, trattandosi per tale periodo di una condanna in futuro, l’ammontare del risarcimento fissato per legge copre tutti i pregiudizi economici derivanti dall’inattività lavorativa. È ammessa in ogni caso la possibilità per il lavoratore di chiedere il risarcimento di danni ulteriori fermo restando l’onere in capo a quest’ultimo di darne la prova con le modalità di cui all’art. 414 c.p.c.
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