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L’oggetto del patto di famiglia e problemi riconnessi alla tutela successoria

  1. L’oggetto dell’attribuzione del disponente

La ratio ispiratrice del patto di famiglia è di ausilio all’interprete nella ricerca della soluzione preferibile da dare ai molteplici problemi che il nuovo istituto reca con sé.  Anzitutto, è chiaro che per poter costi­tuire l’oggetto di un valido patto di famiglia, l’azienda ceduta debba essere al servizio di un’attività d’impresa effettivamente svolta e, quindi, già iniziata e non ancora cessata: la suddetta ratio consiste infatti nell’assicurare la continuità di imprese operanti, non certo ad assicurare il mero trasferimento di beni produttivi ma inutiliz­zati[1].  Ciò, peraltro, non significa che il disponente debba necessariamente essere un imprenditore in senso tecnico – giuridico, ossia ai sensi dell’art. 2082 c.c.  È bensì vero che in tali termini si esprime il testo dell’art. 768­ bis c.c., ma è altrettanto vero che la ratio del nuovo istituto sembra pienamente realizzata anche nell’ipotesi in cui il cedente non sia qua­lificabile come imprenditore, come avverrebbe, per es., qualora egli, pur essendo proprietario dell’azienda, l’abbia concessa in affitto (o in comodato) ad un terzo soggetto[2]. Se è vero che la ratio del patto di famiglia consiste nell’assicurare la continuità dell’attività d’impresa svolta con l’azienda di cui trattasi; se è vero, insomma, che l’attribuzione all’assegnatario di un titolo giuridico che lo legittimi ad utilizzare l’azienda ricevuta è stretta­mente funzionale ad evitare che la caduta in comunione ereditaria possa determinare lo smembramento del complesso produttivo e la conseguente cessazione della attività d’impresa con quel complesso svolta (ciò che appunto determinerebbe gli alti costi sociali, più volte ricordati, che si vogliono viceversa evitare), non sembra possibile per­venire ad altra soluzione.

Se, infatti, nell’ipotesi che si sta considerando, fosse precluso al proprietario non imprenditore di disporre della sua azienda mediante patto di famiglia, si perverrebbe all’aberrante risultato[3] di non po­terne evitare la caduta in comunione ereditaria ogni qualvolta il suddetto proprietario morisse prima che sia cessato l’affitto (o il comodato)[4].

Non v’è chi non veda che si tratterebbe, però, di una conclu­sione in aperto e stridente contrasto con la ratio dell’istituto e, quindi, potenzialmente incostituzionale perché irragionevole e, co­munque, perché causa di ingiustificate disparità di trattamento tra situazioni analoghe[5].

Deve quindi ritenersi che il legislatore abbia impiegato nell’art. 768 – bis c.c. il termine imprenditore soltanto perché ha tenuto pre­sente l’ipotesi statisticamente più ricorrente quella, appunto, in cui il disponente sia anche colui che con l’azienda ceduta svolgeva l’attività d’impresa, non già perché ha voluto impedire che possa fare ricorso al nuovo istituto anche chi (pur proprietario dei beni aziendali) imprenditore non sia.

In altre parole, il termine imprenditore va inteso non già in senso proprio, bensì quale mero sinonimo di titolare dell’azienda[6]: tale soluzione si impone[7] sia perché perfettamente conforme alla ratio dell’istituto, sia perché idonea a superare i dubbi di legittimità costituzionale poc’anzi messi in evidenza.

  1. Il trasferimento dell’azienda e la compatibilità con le disposizioni in materia di impresa familiare

L’art. 768 – bis c.c. che, come traspare dalla rubrica, ambirebbe a delinearne la nozione[8] definisce il patto di famiglia come il contratto con cui l’imprenditore trasferisce, in tutto o in parte, l’azienda, e il titolare di partecipazioni societarie trasferisce, in tutto o in parte, le proprie quote, ad uno o più discendenti.

Come già precedentemente rilevato, la figura contrattuale novel­lamente introdotta nel seno del codice civile si caratterizza pertanto per la specialità nel senso di specificità ­del suo oggetto: il patto di famiglia deve infatti necessariamente com­portare il trasferimento totale o parziale di un’azienda[9] o di partecipazioni societarie.

La prima ipotesi (trasferimento d’azienda) presuppone che il disponente eserciti in forma individuale l’attività d’impresa, mentre la seconda (trasferimento di partecipazioni societarie) postula che l’impresa sia esercitata in forma collettiva, attraverso una strut­tura societaria. In quest’ultimo caso, il dispo­nente non può alienare direttamente l’azienda (appartenendo essa esclusivamente alla società), ma soltanto la partecipazione in sua mano che (indirettamente e pro quota) la rappresenta.  Se è certo che il trasferimento programmato dal disponente (nel lessico dell’art. 768 – bis c.c., rispettivamente, l’im­prenditore e “il titolare di partecipazioni societarie”) deve necessariamente avere ad oggetto un’azienda o partecipazioni sociali, assai ampio tuttavia è lo spettro delle questioni problematiche che – in assenza di un’espressa soluzione legislativa – interpellano l’inter­prete.

Quantomeno laconico, e quindi fonte di ulteriori incertezze, è, inoltre, l’inciso “compatibilmente con le disposizioni in materia di impresa fami­liare e nel rispetto delle differenti tipologie societarie”.

I dubbi interpretativi, infine, non risparmiano neanche uno dei possibili oggetti del patto di famiglia, dibattendosi animatamente, nel silenzio della legge, su quali siano – se tutte o soltanto alcune – le partecipazioni societarie idonee ad essere trasferite con tale contratto.

Può pertanto concludersi – con riferimento all’oggetto del patto di famiglia – che l’unico punto non problematico della no­zione contenuta nel novello art. 768-bis c.c. riguarda il concetto di trasferimento – totale o parziale – di azienda[10].

Le considerazioni sin qui svolte impongono di soffermarsi sulla fattispecie del trasferimento totale o parziale di azienda, ed in particolare sulla configurazione dell’oggetto ceduto

La questione può essere così formulata: quand’è che la cessione di un insieme di beni è definibile come trasferimento d’azienda (sì da comportare l’automatica produzione degli effetti che la legge ricon­nette a tale fattispecie, e di cui agli artt. 2112 e 2557 ss. c.c.)? Poiché l’alienante e l’acquirente possono sce­gliere se cedere l’intera azienda, oppure l’azienda meno qualche bene, ovvero alcuni beni soltanto, ma qualificabili nel loro insieme come ramo d’azienda, o, infine, di limitare il trasferimento a singoli beni individualmente considerati, si pone il problema di verificare, volta per volta, se possa o no trovare applicazione la disciplina che la legge ri­collega alla circolazione di un complesso aziendale.  Più precisamente, posto che ­quella disciplina sarà sempre applicabile nella prima ipotesi sorge il problema di verificare se essa possa trovare applicazione negli altri due casi poc’anzi richiamati. Ebbene, è opinione ormai ampiamente consolidata che l’esclusione di alcuni beni dall’azienda ceduta non impedisce che il negozio di cessione possa ugualmente es­sere qualificato come trasferimento d’azienda, beninteso all’impre­scindibile condizione che i beni esclusi non siano, in concreto, essen­ziali a configurare in questi termini il compendio ceduto. Nello specifico tali, cioè, che la loro mancanza finirebbe per compromettere l’unità economica e funzionale di quella data azienda, la quale cesserebbe pertanto di essere tale[11].

Ne consegue, in definitiva, che il disponente ben potrebbe esclu­dere dal patto di famiglia l’attribuzione di qualche bene già impiegato nell’azienda ceduta, ma soltanto entro i limiti tratteggiati, oltre­passati i quali la fattispecie posta concretamente in essere non po­trebbe più essere qualificata come patto di famiglia, venendo a far di­fetto il suo necessario e imprescindibile oggetto (l’azienda)[12].

Di quanto appena detto bisogna tenere conto anche ai fini della corretta interpretazione dell’art. 2558 c.c., il quale, in deroga alla re­gola generale fissata dall’art. 1406 c.c. in tema di cessione del con­tratto, prevede un’ipotesi di successione automatica ex lege dell’ac­quirente dell’azienda nei contratti stipulati per l’e­sercizio dell’azienda stessa, che prescinde dal consenso del con­traente ceduto.

Tale successione, peraltro, è sì un effetto naturale della cessione dell’azienda, ma non anche un effetto necessario, restando sempre salva la possi­bilità di pattuire diversamente.

Ebbene, l’ampia formula contratti stipulati per l’esercizio dell’azienda, impiegata dall’art. 2558 c.c., è idonea ad abbracciare sia i cc.dd. “contratti aziendali” in senso stretto (quelli, cioè, che hanno per oggetto il godimento, da parte dell’imprenditore, di beni azien­dali non in sua proprietà) sia i cc.dd. “contratti d’impresa” (che non hanno ad oggetto il godimento di beni aziendali, ma attengono ai rapporti tra imprenditore e – rispettivamente – fornitori, utenti ecc.).

La possibilità di diversa pattuizione è, in realtà, pienamente libera solo con riguardo ai “contratti d’impresa”, mentre per quanto concerne i “contratti aziendali” incontra lo stesso limite cui è subordinata la possibilità di escludere dalla cessione dell’azienda il trasferimento della proprietà di singoli beni aziendali.

Non potrà, quindi, essere escluso dal trasferimento il con­tratto che assicura all’imprenditore il godimento di un bene che, “in rapporto a quella data impresa, appaia essenziale alla organizzazione aziendale”, sì che, senza di esso, il restante complesso di beni perda il carattere di azienda[13].

Verificandosi quest’ultimo caso, non si potrebbe più configurare un trasferimento d’azienda, con conseguente invalidità del patto di famiglia.

In conclusione, qualora il disponente sia coniugato in regime di comunione legale dei beni, bisognerà distin­guere le ipotesi nelle quali l’azienda rientri tra i beni in comunione immediata – nel qual caso per la stipula del patto di famiglia sarà necessario (ai sensi e per gli effetti degli artt. 180 e 184 c.c.) il con­senso del coniuge -, dalle diverse ipotesi nelle quali l’azienda sia, al­ternativamente, destinata alla comunione de residuo o qualificabile come bene personale del disponente, nei quali casi si potrà prescin­dere dal predetto consenso.

Guardando poi la questione dal lato dell’assegnatario (o degli as­segnatari), il quesito se l’azienda ricevuta per patto di famiglia rientri o no in comunione legale (beninteso, nell’ipotesi in cui l’assegnatario sia coniugato e soggetto a tale regime) sembra dover ricevere risposta negativa, perlomeno finché a tale contratto si riconosca natura donativa – pur se modale – o anche natura di liberalità non donativa. Nel primo caso, l’edittale previsione della lett. b) dell’art. 179 c.c. consentirebbe senz’altro di affermare la personalità dell’acquisto[14]. Alla medesima conclu­sione si deve peraltro pervenire anche nel secondo caso, perlomeno alla luce del consolidato orientamento della giurisprudenza, secondo il quale la disposizione appena richiamate troverebbero applicazione anche alle liberalità non donative[15]; e d’altronde, lo stesso testo dell’art. 177, lett. b), c.c., legittima tale conclusione, giacché, se è vero che nella sua prima parte si parla soltanto di “donazione”, è altret­tanto vero che nella seconda parte si discorre più ampiamente ­di “atto di liberalità”.  È del tutto chiaro, infine, che le questioni da ultimo analizzate si ripropongono esattamente negli stessi termini – meritando pertanto le medesime soluzioni – nel caso in cui il patto di famiglia abbia ad oggetto non l’azienda nella sua interezza, ma soltanto un suo ramo.

Le medesime ragioni appena esposte consentono di ritenere che possa assumere la veste di disponente anche il proprietario che abbia concesso la propria azienda in usufrutto: dal che automaticamente si ricava che oggetto di disposizione del patto di famiglia può essere anche la sola nuda proprietà dell’azienda.

Nessun dubbio poi che, nel caso di pluralità di assegnatari, il diritto trasferito a ciascuno di essi possa consistere in una quota di comproprietà dell’azienda: il testo dell’art. 768-bis c.c. sembra apertamente autorizzare tale conclusione, quando afferma che l’azienda può essere trasferita “ad uno o più discendenti”.

Si potrebbe discutere, invece, se al disponente sia consentito attribuire all’assegnatario il diritto di usufrutto[16].

Sembra pacifico, a tal riguardo, che il disponente possa contemporaneamente assegnare la nuda proprietà dell’azienda ad un di­scendente e il diritto di usufrutto ad altro discendente: così operando, egli perverrebbe, infatti, non solo a designare chi deve avere l’immediato controllo dell’attività produttiva, ma pure ad assicurare “la continuità dell’impresa anche per più generazioni”[17], pienamente realizzando, in tal modo, la ratio dell’istituto.

Non è, però, pacifico se il disponente possa attribuire il solo usu­frutto dell’azienda, riservandosi la nuda proprietà[18] (ipotesi, peral­tro, che è presumibile credere di assai raro riscontro pratico).

Si potrebbe opporre, infatti, che tale operazione contrasta sia col testo dell’art. 768 – bis c.c. sia con la ratio dell’istituto.

Sotto il primo profilo, si potrebbe osservare che il termine “trasferimento”, impiegato, rimandi naturaliter al diritto di proprietà e sia inido­neo ad abbracciare anche l’ipotesi della costituzione del diritto di usufrutto.

Sotto il secondo aspetto, si potrebbe rilevare che tale di­ritto non con­sente una definitiva sistemazione delle vicende relative alla titolarità dell’azienda, non favorendo la stabilità nel tempo dell’attività d’im­presa.

Entrambe le predette obiezioni sembrano però superabili. Quanto al profilo testuale, si può replicare che, nel linguaggio giuridico, il termine “trasferimento” rimanda istintivamente al con­cetto dogmatico di acquisto a titolo derivativo, il quale – per co­mune opinione – è idoneo ad abbracciare non soltanto l’ipotesi del­l’acquisto derivativo – traslativo, ma anche quella dell’ acquisto deriva­tivo – costitutivo: quel termine, pertanto, ben lungi dal precludere in via assoluta l’attribuzione del solo usufrutto sull’azienda, rappresenta semmai un possibile argomento in senso contrario.

Per quanto riguarda poi il preteso contrasto con la ratio dell’istituto, si deve rilevare che, se è vero che il fine avuto di mira dalla nuova legge – evitare lo smembramento del complesso produttivo, così assicurando la continuità della correlata attività di impresa – è pienamente realizzato soltanto con l’assegnazione della proprietà dell’azienda, ciò non toglie che esso sia soddisfatto in qualche misura, seppure minima, anche dall’attribuzione del diritto di usufrutto.

Que­sto, infatti, comunque garantirebbe al suo titolare un titolo giuridico idoneo ad utilizzare il compendio aziendale, così evitando – perlo­meno per tutta la sua durata[19] – che la caduta in comunione eredi­taria della nuda proprietà dell’azienda possa comportare la cessazione della correlata attività d’impresa.

Si consideri, inoltre, che il disponente potrebbe non volere o non essere in grado di spingersi oltre l’usufrutto, fino ad attribuire la pro­prietà dell’azienda: si pensi, per es., all’ipotesi in cui egli fosse tratte­nuto da motivazioni d’ordine (lato sensu) morale, che lo dissuadano dal fare discriminazioni definitive tra i figli[20] e gli consentano di operare tutt’al più una discriminazione, per dir così, solo temporanea, appunto attribuendo l’usufrutto ad uno dei figli e lasciando che la nuda proprietà dell’azienda cada in successione ere­ditaria.

Ebbene, in queste (e altre consimili) ipotesi, l’alternativa che ver­rebbe concretamente a prospettarsi al disponente sarebbe non già quella tra attribuire la proprietà o l’usufrutto dell’azienda, ma quella tra stipulare un patto di famiglia o non stipularne alcuno.

In tali casi, ritenere che l’attribuzione mediante patto di famiglia del solo usufrutto sia giuridicamente impossibile, condurrebbe, in de­finitiva, a rendere del tutto irrealizzabile la ratio sottesa al nuovo isti­tuto. Mentre ritenere ammissibile quella attribuzione ne consenti­rebbe, all’opposto, la realizzazione, seppure soltanto in misura mi­nima.

Ne consegue che deve propendersi per la validità di un patto di famiglia avente ad oggetto l’attribuzione del solo usufrutto dell’a­zienda, considerato anche che il termine “trasferimento”, impiegato dall’art. 768-bis c.c., è pienamente compatibile con tale conclusione.

Sembra, infine, pacifico che il patto di famiglia non possa avere ad oggetto l’attribuzione di un diritto personale di godimento (a ti­tolo di affitto o di comodato) sull’azienda[21], in quanto il concetto di trasferimento non può estendersi oltre l’area dell’acquisto deriva­tivo – costitutivo, il cui perimetro non eccede la sfera (della: costitu­zione) dei diritti reali “minori”.

L’art. 768-bis c.c. richiede che il trasferimento dell’azienda debba avvenire “compatibilmente con le disposizioni in materia di impresa familiare”.

Non sembra potersi attribuire a tale inciso altro significato che quello di sta­bilire una “gerarchia tra norme”, nel senso che la disciplina dell’im­presa familiare deve prevalere, se incompatibile, su quella del patto di famiglia.

Tanto premesso, il problema principale che si pone al riguardo è se il diritto di prelazione di cui al comma 5 dell’art. 230 – bis c.c. sia o no configurabile anche con riferimento ad un trasferimento di azienda programmato per mezzo di un patto di famiglia.

È evidente, infatti, che, se si risponde affermativamente al predetto quesito, tale trasferimento non potrebbe avere luogo qualora il prelazionario ex art. 230 – bis c.c. esercitasse il suo diritto, giacché le regole sul patto di famiglia sono recessive rispetto a quelle dettate in materia di impresa familiare.

La soluzione di tale problema è strettamente dipendente dalla posizione che si intenda assumere in ordine alla questione se il diritto di prelazione discendente dall’esi­stenza di un’impresa familiare sussista soltanto riguardo ai trasferi­menti a titolo oneroso ovvero anche con riferimento a quelli a titolo gratuito[22].

Se si propende per quest’ultima soluzione, l’esercizio della prela­zione sarà possibile anche in presenza di un trasferimento di azienda programmato per mezzo di un patto di famiglia.

Se, viceversa, si pre­sceglie la prima alternativa, non si porrà alcun problema di interfe­renza  tra l’acquisto dell’assegnatario e un inesistente diritto di prela­zione ex art. 230 – bis c.c.

E proprio in quest’ultima direzione sembra an­dare la maggior parte dei primi commentatori della nuova legge, i quali il più delle volte sostengono che il patto di famiglia sfugga alla prelazione prevista in tema di impresa familiare, giacché questa non riguarderebbe i negozi a titolo gratuito[23]. Non manca però chi ritiene che l’’nciso che si sta commentando non possa avere altro si­gnificato che quello di attribuire ai soggetti indicati dall’art. 230 – bis c.c. il diritto di prelazione ivi previsto, e ciò proprio al fine di fugare i dubbi che attraversano la dottrina in ordine all’estensione di tale di­ritto anche agli atti a titolo gratuito[24].

Al medesimo risultato qualche autore perviene reputando irrile­vante la questione dell’estensione agli atti a titolo gratuito del diritto di prelazione, e osservando che questo diritto sorgerebbe in ogni caso, giacché il comma 5 dell’art. 230 – bis c.c. ne prevede la nascita non solo per l’ipotesi del trasferimento, ma anche per quella della di­visione ereditaria.

In tale prospettiva, se anche si dovesse opinare che la prelazione in questione non operi per gli atti a titolo gratuito, ciò non basterebbe ad escluderne la nascita relativamente al patto di fa­miglia, poiché questo sarebbe equiparabile alla divisione ereditaria. In conclusione se e nella mi­sura in cui si ritenga che il rapporto di impresa familiare possa configurarsi pure nel caso di prestazione lavorativa svolta in favore di una società com­posta da familiari[25], ne deriverebbe che, dandosi questa ipotesi, an­che il patto di famiglia avente ad oggetto partecipazioni societarie re­sterebbe subordinato al disposto dell’art. 230 – bis c.c.

In tal caso, insomma, l’assegnazione delle partecipazioni dovrebbe avvenire non nel rispetto delle differenti tipologie societarie, ma anche compatibilmente con le disposizioni in materia di impresa familiare, con la conseguente riproposizione delle questioni poc’anzi menzionate.

  1.  Il trasferimento delle partecipazioni societarie

L’art. 768 – bis c.c. testualmente dispone che con il patto di famiglia il titolare di partecipazioni societarie trasferisce, in tutto o in parte, le proprie quote, ad uno o più discendenti.

Il testo della disposizione, non pone alcun espresso limite al tipo di partecipazioni deducibili quale oggetto del patto di famiglia, ragion per cui dovrebbe concludersi che qualsiasi tipo di partecipazione, nessuno escluso, possa essere trasferito me­diante tale negozio. Ciò nondimeno, l’opinione forse prevalente tra i primi commen­tatori della nuova legge ritiene di poter enucleare dalla ratio dell’isti­tuto un limite, seppure inespresso, alla circolazione delle quote societarie mediante patto di famiglia[26].

In tale prospettiva, si osserva che il nuovo istituto mira a realizzare una riallocazione consensuale del controllo dell’impresa, favorendone la continuità gestionale in previsione del trapasso generazionale. È pur vero che tale ratio è ravvisabile, nei lavori preparatori, essenzialmente con riferimento all’al­tro possibile oggetto del patto di famiglia ma essa, in assenza di altre diverse indicazioni, dovrebbe intendersi senz’altro estesa anche all’ipotesi qui in esame, nella quale l’impresa è esercitata collettivamente, mediante una strut­tura societaria.

Se ne deduce che il campo delle partecipazioni trasferibili ex artt. 768 – bis ss. c.c. andrebbe ristretto soltanto a quelle che, “per loro na­tura, assicurano un “potere di gestione” in capo al re­lativo titolare”, sì da risultare utili e strumentali al governo dell’im­presa (collettiva) societaria, la cui continuazione si vuole assicu­rare[27]. Conclusione, questa, corroborata dall’ulteriore considerazione, se­condo cui, in mancanza di tale utilità o strumentalità, cesserebbe la stessa ragion d’essere della deroga alle regole di diritto comune, “ri­solvendosi la partecipazione sociale in un “investimento” ma non certo in un “bene produttivo”; ragion per cui “una deroga estesa al di là della categoria dei beni qualificabili realmente come “produt­tivi” sarebbe certamente incostituzionale per disparità di trattamento rispetto agli altri beni[28].

Secondo tale ricostruzione, sarebbe allora possibile dedurre ad oggetto del patto di famiglia le quote di società semplici e di società in nome collettivo che attribuiscono al loro titolare il potere di amministrazione della società, con esclusione di quelle che tale potere non attribui­scono[29].

Inoltre, con riferimento alla società in accomandita semplice, nes­sun dubbio potrebbe sorgere in ordine alla deducibilità in patto di famiglia della partecipa­zione dell’accomandatario[30], mentre tale possibilità dovrebbe essere esclusa per la quota dell’accomandante salvo forse il caso previsto dall’art. 2320, comma 2, c.c., che ricorre allorquando il contratto sociale consente agli accomandanti di dare autorizzazioni e pareri per determinate operazioni, se ed in quanto si ritenga che tale ingerenza sia sufficiente ad attribuire natura gestionale alla partecipa­zione sociale[31].

Venendo alle società di capitali e restando sempre nell’ambito della prospettiva qui in esame, si è ritenuto, in relazione alla società a responsabilità limitata, che le relative quote possano costituire idoneo oggetto di un patto di famiglia soltanto allorché si tratti di partecipa­zioni maggioritarie o anche allorché si tratti di partecipazioni bensì minoritarie, ma che attribui­scano al socio, ai sensi del comma 3 dell’art. 2468 c.c., un diritto par­ticolare di amministrazione, e sempre che il mantenimento di tale di­ritto sia assicurato anche al discendente assegnatario della quota[32]. Per la società per azioni, si è altresì ritenuto che sia possibile il trasferimento, mediante patto di famiglia, delle sole partecipazioni di controllo o di riferimento[33], fermo però restando che la ricorrenza di una situazione di controllo di fatto non po­trebbe essere accertata dal notaio rogante, e dovrebbe essere dichia­rata dalle parti, sotto la loro personale responsabilità. Diversa, infine, dovrebbe essere la conclusione relativa alle so­cietà in accomandita per azioni, per le quali sembra in ogni caso pos­sibile la cessione della quota del socio accomandatario, anche se mi­noritaria, considerato che egli sarebbe comunque titolare di indubbi poteri gestionali, ai sensi dell’art. 2455 c.c.[34].

Diffusa, però, è anche la contrapposta opinione, che ritiene trasferibile ogni tipo di partecipazione sociale, quand’anche non attribu­tiva di facoltà gestionali: e ciò o facendo leva sulla mera lettera dell’art. 768 – bis c.c.[35], che nessun espresso limite pone; o argomentando, in aggiunta, che l’apparente irrilevanza, ai fini della gestione dell’impresa sociale, di partecipazioni irrisorie rispetto al capitale so­ciale o istituzionalmente prive del potere di amministrazione “po­trebbe essere smentita da eventuali patti intercorrenti tra i soci ed afferenti sia pure indirettamente sulle sorti dell’azienda gestita in forma collettiva”.

Oppure sostenendo che l’avviamento, e gli in­teressi ad esso legati al valore e al funzionamento concreto dell’im­presa, inerisce a tutte le partecipazioni” (comprese quelle che non diano facoltà gestionali); ovvero, ancora, ipotizzando che scopo della riforma sarebbe anche quello di favorire la capitalizzazione delle imprese, di guisa che andrebbe garantita la più ampia facoltà di di­sposizione di ogni tipo di partecipazione al capitale di rischio “al fine di accrescerne il grado di appetibilità (anche) per proprio accentuare la forza dell’impresa di attrarre investimenti”[36]; oppure, infine, opi­nando che la ratio della disciplina sia quella di evitare la frammenta­zione (non solo dei beni direttamente produttivi, quali le aziende, ma) anche dei beni solo indirettamente produttivi, quali sarebbero (secondo tale tesi) tutte le partecipazioni societarie[37].

L’evidente complessità della questione come si evince in dottrina[38], ha portato a varie tesi.

La tesi più liberale, la quale ammette, senza limiti di sorta, la deducibilità nel patto di famiglia di ogni tipo di partecipazione societa­ria, presenterebbe il pregio di assicurare nel massimo grado il bene della certezza del diritto, giacché precluderebbe in radice ogni questione di validità del patto di famiglia, così assicurando la stabilità dell’assetto di interessi con esso programmato. La contrapposta opinione sembra però più coerente con la ratio dell’istituto, seb­bene crei non irrilevanti problemi di incertezza, perlomeno qualora si volesse ritenere che la partecipazione possa essere trasferita ai sensi e per gli effetti degli artt. 768 – bis ss. c.c. anche quando assicura un controllo (non necessariamente solo de iure, ma pure) semplice­mente de facto. In tal caso, infatti, non si potrebbe certo chiedere al notaio ro­gante di compiere com­plesse indagini volte ad accertare la concreta ricorrenza di una fatti­specie di controllo di fatto, ragion per cui il pubblico ufficiale do­vrebbe necessariamente affidarsi alle dichiarazioni delle parti.

Le predette incertezze potrebbero peraltro essere fugate, qualora  si rite­nesse che oggetto del patto di famiglia possano essere esclusivamente quelle partecipazioni che un tale potere attribuiscono istituzional­mente e de iure, e cioè, per quanto detto precedentemente: le quote di società semplice, di società in nome collettivo e quelle dei soci ac­comandatari di s.a.s., che attribuiscano ai loro titolari il potere di am­ministrazione.

L’eventuale accogli­mento del criterio apena enunciato non precluderebbe in alcun modo che possano costituire oggetto del patto di famiglia anche quelle quote di s.r.l. o quelle partecipazioni in s.p.a. che tali diventino se sommate alle quote o alle partecipazioni azionarie già possedute dall’assegnata­rio. Tale conclusione infatti, assicurando a quest’ultimo il pieno con­trollo dell’impresa societaria, sarebbe perfettamente coerente con la supposta ratio dell’istituto[39].

L’art. 768 – bis c.c. statuisce che il trasferimento delle partecipazioni sociali tramite patto di famiglia debba avvenire “nel rispetto delle differenti tipologie societarie”.

Vi è un consenso sufficientemente ampio tra i primi interpreti della nuova legge nel ritenere che tale formula sia posta a presidio di quell’insieme di regole che subordinano il trasferimento delle partecipazioni societarie alla sussistenza di determinati presupposti[40], nonché all’osservanza delle regole pubblicitarie che disciplinano l’opponibilità ai terzi del predetto trasferimento[41].

Per quanto concerne le società di persone, ciò significa che, costituendo la cessione delle quote una modifica del contratto sociale, sarà indispensabile per poter opporre alla società e agli altri soci il trasferimento posto in essere col patto di famiglia il consenso una­nime di tutti i componenti della compagine societaria, necessario ex art. 2252 c.c. e superfluo solo allorquando sia stata pattuita nell’atto costitutivo la libera trasferibilità delle quote, ovvero quando si tratti di cessione di quota del socio accomandante di s.a.s, per la quale è sufficiente, ai sensi dell’art. 2322 c.c., il consenso anche dei soli soci che rappresentano la maggioranza del capitale.

Con riferimento alle società di capitali, nelle quali la partecipazione è, in linea di massima, liberamente trasferibile, il suddetto in­ciso sta a significare che il patto di famiglia sarà inopponibile alla società sia qualora lo statuto sociale vieti il trasferimento delle quote o delle azioni, sia qualora non vengano rispettati i limiti discendenti da even­tuali clausole di gradimento o di prelazione[42]. Resta, per concludere, da ricordare che anche per le partecipazioni societarie sorge il problema della comunione legale dei beni. A ragione della sua ben nota complessità, il tema non può, in questa sede, essere affrontato funditus, dovendosi necessariamente fare rin­vio alle trattazioni specifiche. Secondo l’opi­nione prevalente, le quote di s.n.c. e quelle del socio accomandatario di s.a.s. cadrebbero in comunione de residuo, di talché il loro titolare ben po­trebbe disporne senza il consenso del coniuge; mentre, sempre secondo l’opinione prevalente, le partecipazioni a società di capitali ca­drebbero in comunione immediata, di talché colui che ne fosse dive­nuto titolare in costanza del regime di comunione dovrebbe disporne solo col consenso del coniuge, fermo peraltro restando che, trattan­dosi di beni mobili, la mancanza di tale consenso comunque non in­fluirebbe sulla validità dell’ atto di disposizione, comportando sol­tanto, ai sensi dell’art. 184 c.c., l’obbligo di indennizzare la comu­nione[43].

Dal lato dell’assegnatario, infine, non può esservi dubbio che le quote ricevute per patto di famiglia non cadono in comunione e re­stano di sua esclusiva spettanza.

3.1 Le attribuzioni di cui al patto e la vicenda successoria del disponente.

È oramai divenuta opinione consolidata tra i commentatori della novella[44] l’affermazione secondo cui l’ultimo comma della norma in commento costituisce la più rilevante novità introdotta dalla novella, giacché disattiva i meccanismi operativi di tutela dei diritti dei legitti­mari o coeredi insiti negli istituti della (azione di) riduzione e della collazione. In mancanza, il patto di famiglia non avrebbe alcun mo­tivo di essere utilizzato perché rimarrebbe esposto all’aggressione da parte dei legittimari lesi o pretermessi anche in qualità di coeredi. Si è detto che l’intera normativa sul patto di famiglia si regge su queste parole contenute nella norma che si commenta; senza di essa il patto di famiglia sarebbe perfet­tamente inutile, come lo sarebbe conseguenzialmente tutta la sua di­sciplina, per cui essa costituisce la norma di chiusura dell’intero (mi­cro)sistema del patto di famiglia[45]. In particolare, si afferma che essa apporterebbe due deroghe al vigente sistema normativo in tema di divisione e successione eredita­ria (necessaria), e segnatamente: a) una prima deroga all’arto 737, comma 2, c.c. ai sensi del quale la dispensa dalla collazione produce effetti nei limiti della sola quota disponibile; b) una seconda deroga all’art. 557, comma 2, c.c. ai sensi del quale i legittimari (loro eredi o aventi causa) non possono rinunziare al diritto di chiedere la ridu­zione delle disposizioni testamentarie e delle donazioni lesive della porzione di legittima finché sia in vita il donante, né con dichiara­zione espressa né prestando il loro assenso alla donazione[46].

Inoltre, si ritiene[47] che la norma in parola prenda in considerazione, escludendola, l’operatività degli istituti ci­tati con esclusivo riferimento alla futura successione del disponente, e non di altri soggetti, ancorché contraenti o partecipanti al patto di fa­miglia.

Orbene, la prima difficoltà che si incontra nell’interpretare il comma in questione nasce quando si passi ad individuare concreta­mente quali siano le assegnazioni esenti da riduzione e collazione. La norma citata, difatti, si limita a stabilire soltanto che quanto ricevuto dai contraenti non è soggetto a collazione e riduzione. La generica formulazione dell’inciso consentirebbe all’interprete, pertanto, di ritenere che l’ultimo comma dell’art. 768-quater c.c. sia applicabile indistintamente a tutte le assegnazioni che sono state og­getto del patto di famiglia.

In particolare  e per interpretazione quasi unanime[48] sa­rebbero esenti da riduzione e collazione non solo a) le assegnazioni dell’azienda o delle partecipazioni societarie dall’imprenditore o dal titolare delle partecipazioni societarie al discendente o ai discen­denti ma altresì b) quanto ricevuto dai non assegnatari dell’azienda o delle partecipazioni societarie dal discendente assegnatario o dai di­scendenti assegnatari a titolo di liquidazione delle loro quote di legit­tima ex art. 768-quater, comma 2, c.c. e ciò sia per le somme di da­naro sia per quanto eventualmente ricevuto in natura ai sensi dell’ul­timo periodo della norma citata; non di meno sarebbero esenti da ri­duzione e collazione anche c) le (eventuali) assegnazioni effettuate ai sensi dell’art. 768-quater, comma 3, c.c. dall’imprenditore o dal titolare delle partecipazioni societarie ai non assegnatari e ciò sia quando le stesse vengano effettuate contestualmente nel patto di fa­miglia, sia quando siano disposte con contratto successivo collegato.  Il termine contraenti contenuto nella norma in commento, difatti, non potrebbe essere interpretato rigidamente come riferito soltanto all’imprenditore o al titolare delle partecipazioni societarie e al di­scendente assegnatario, in virtù del fatto che solo costoro sarebbero qualificabili come contraenti in senso stretto.

Sul punto è stato messo in evidenza[49] che il legislatore della riforma ha utilizzato i termini partecipanti e contraenti come sinonimi tra loro, e per di più che gli stessi soggetti non assegnatari vengono pro­miscuamente qualificati a volte come partecipanti (art. 768-quater, comma 2, prima proposizione, c.c.; ivi, comma 3, prima proposi­zione) e altre volte come contraenti (artt. 768-quater, comma 2, se­conda proposizione, c.c.; 768-septies, n. 2, c.c.) nonché che gli stessi assegnatari vengono qualificati anche come partecipanti (art. 768­quinquies, comma 1, c.c.) o beneficiari del contratto (art. 768-sexies, comma 1, c.c.). In altre parole, il legislatore in alcuni casi accomuna assegnatari e non assegnatari sotto la comune definizione di con­traenti (artt. 768-quater, comma 2, seconda proposizione, c.c.; 768­septies, n. 2, c.c.) o anche di beneficiari del contratto (art. 768-sexies, comma 1, c.c.) o, ancora, di partecipanti (art. 768-quinquies, comma 1, c.c.).

Pertanto, il termine contraenti, non risultando riferito in via esclusiva ad una (sola) determinata categoria di soggetti o di parti del patto di famiglia, non potrebbe ritenersi preclusivo di un’interpreta­zione più ampia, che ricomprenda nel suo alveo anche i c.d. non as­segnatari. Sennonché, dato l’assunto surriferito secondo cui l’esenzione da collazione e riduzione dovrebbe operare nell’ambito esclusivo della successione del disponente, non vi è chi non veda come siffatta inter­pretazione, se può ben adattarsi alle ipotesi suddescritte alla lettere a) e c) – quest’ultima mal si concili con l’ipo­tesi di cui alla lettera b), a meno di non voler ritenere che si sia vo­luto fare riferimento (anche) alla successione degli assegnatari, il che, francamente, non avrebbe alcunché senso.

In merito a ciò si è detto[50] che, al fine di garantire il massimo grado di stabilità dell’ assetto di interessi realizzato con il patto di fa­miglia, si è voluto conferire il medesimo grado di stabilità non solo all’assegnazione dell’azienda o delle partecipazioni societarie in fa­vore del discendente assegnatario, ma anche alle altre attribuzioni operate in favore dei legittimari non assegnatari a titolo di liquida­zione, anche quando le stesse pervengano a costoro direttamente dal discendente assegnatario e, quindi, non siano ricollegabili ad un atto dispositivo del disponente. Quindi, anche al fine di incentivare la partecipazione al patto di famiglia dei non assegnatari, si sarebbe operata una duplice deroga ai principi generali in materia divisoria e successoria, e, segnatamente, a quello secondo cui è soggetto a ridu­zione e collazione solo ciò che si è ricevuto dal defunto per dona­zione direttamente o indirettamente, assegnando eccezionale rile­vanza, ai fini dell’esenzione da collazione e riduzione, ad attribuzioni ricevute non direttamente dal disponente, né per atto di liberalità.

Tuttavia, la norma in questione non parrebbe per nulla applicabile alle assegnazioni sub b), e non perché le stesse debbano essere assoggettate a riduzione o a collazione, bensì perché esse sono totalmente fuori dal suo raggio d’applicazione che prende in considerazione solo l'(in)operatività di detti istituti con esclusivo riferimento alla successione del disponente, a meno di non voler aderire all’idea, espressa in dottrina, che le assegnazioni da parte del discendente assegnatario ai legittimari non assegnatari integrino delle liberalità indirette attuate dal disponente per il tramite del discendente.

Se lo scopo della norma in esame era quello di dare stabilità defi­nitiva alla regolamentazione negoziale scaturente dal patto di famiglia, specie per quanto riguarda i successivi profili successori e divisori conseguenti alla morte del disponente[51] il legislatore avrebbe potuto percorrere altre strade o, quanto meno, formulare la norma in modo più coerente sul piano sistematico. Infatti, si sarebbe potuto stabilire che al momento dell’apertura della successione del disponente non si deve più tenere conto in alcun modo di quanto è stato oggetto del patto di famiglia, se non ai limitati fini di cui all’art. 768-sexies c.c. nell’ipotesi in cui vi siano legittimari sopravvenuti.

E, difatti, proprio dalla lettura di alcuni passaggi delle relazioni ai vari disegni di legge e dai lavori parlamentari, si trae la netta percezione che il legislatore avesse in mente soltanto le ipo­tesi sub a) e sub c), quando provvedeva a specificare che i beni asse­gnati non potranno essere oggetto di collazione o riduzione[52]. I beni assegnati, non possono che essere quelli oggetto del trasferimento dal disponente all’assegnatario e dal primo ai legitti­mari non assegnatari, e mai quelli trasferiti dall’assegnatario a quest’ultimi, giacché ne rimarrebbero fuori le liquidazioni in danaro di cui al comma 2 della norma in esame, che non sono tecnicamente assegnazioni. Ciò a meno di non voler rinvenire anche qui un’ulte­riore atecnicismo del legislatore, ed adottare di conseguenza una in­terpretazione estensiva del termine in questione, il che però porte­rebbe a svuotarne il reale significato tecnico, giacché ne legittime­rebbe l’utilizzo eccessivo a seconda delle tesi che si vogliono so­stenere volta per volta.

Sulla base di queste precisazioni si può cercare di dare un più congruo significato al comma in esame sgombrando il campo anche da alcuni equivoci che la generica ed omnicomprensiva formula legi­slativa può aver ingenerato negli interpreti. Si può provare a spiegare preliminarmente cosa abbia voluto intendere il legislatore quando ha affermato che quanto ricevuto dai contraenti non è sog­getto a riduzione.

3.2 Collazione, riduzione, riunione fittizia e imputazione ex se

L’azione di riduzione il legittimario leso nel suo diritto di legittima da disposizioni testamentarie o donative può agire giudizialmente per ottenere la riduzione delle disposizioni lesive (artt. 554 e 555 c.c.): la lesione della legittima si verifica sia nel caso in cui il legittimario abbia ricevuto meno di quanto gli competa per legge sia, ovviamente, quando non abbia ricevuto alcunché ov­vero sia stato totalmente pretermesso.

Il sistema di tutela della legittima non opera ex lege ma solo su iniziativa di parte, giacché le disposizioni lesive della legittima non sono affette da nullità, ma possono essere solo dichiarate inefficaci ex nunc nei confronti del legittimario vittorioso in sede giudiziale, di guisa che, fino a quando non sia intervenuta la pronuncia di accogli­mento della domanda di riduzione, le disposizioni testamentarie o le donazioni lesive della quota di legittima esplicano a pieno la loro efficacia[53].

Secondo i primi commentatori della novella, sarebbe proprio a questa regola che si verrebbe a porre deroga da parte della nuova di­sposizione contenuta nell’art. 768-quater, ultimo comma, c.c.

In altre parole, l’effetto preclusivo legale previsto non sarebbe imposto di imperio dalla norma ma verrebbe a prodursi solo in quanto pur sempre riconducibile a quell’atto di autonomia privata in cui si sostanzia la decisione dei legittimari di accettare la liquidazione ovvero di rinunziarvi e al quale sarebbe sotteso, pertanto, ancorché per implicito, la rinuncia all’ azione di riduzione.

Sennonché nella norma in questione sembra essere disciplinato un vero e proprio effetto legale di esenzione dalla riduzione che prescinde del tutto da qualsiasi ancorché implicita manifestazione di volontà del legittimario non assegnatario[54].

A dire il vero, il senso concreto della disciplina ivi prevista si può comprendere a pieno solo se si coordina la norma in esame con il successivo art. 768-sexies, comma 1, c.c.

In tale ottica, il dettato normativo sta ad indicare che i beni oggetto del patto di famiglia – e, secondo l’interpretazione qui proposta, se­gnatamente, il trasferimento dal disponente all’assegnatario e le even­tuali assegnazioni del primo ai legittimari non assegnatari – non fanno più parte ex lege di quel donatum rilevante ai sensi dell’art. 556 c.c. (e dell’art. 737, comma 1, c.c.); quindi, in altre parole, la norma derogata non sarebbe l’art. 557, comma 2, c.c., bensì l’art. 556 c.c.

Il che consente, inoltre, di ritenere del tutto superate, poiché sterili, le dispute relative al punto se le stesse assegnazioni debbano es­sere prese in considerazione o no ai fini della c.d. riunione fittizia (art. 556 c.c.), e se siano o no assoggettate all’obbligo di imputazione ex se di cui all’art. 564, comma 2, c.c.

Ai sensi di quest’ultima norma, difatti, ogni cosa che, secondo le regole contenute nel Capo II del titolo IV di questo libro (Della colla­zione) è esente da collazione, è pure esente da imputazione e, pertanto, se l’art. 768-quater, ultimo comma, c.c. sancisce che quanto ricevuto dai contraenti a titolo di patto di famiglia non è soggetto a collazione, lo stesso non sarà neanche soggetto all’ obbligo di imputazione ex se.

Inoltre, siccome l’imputazione delle liberalità in conto presuppone la riunione fittizia alla massa, ciò che è esente da imputazione è escluso anche dalla riunione fittizia, e, viceversa, ciò che è oggetto dell’una è in­cluso anche nell’altra[55].

Quanto al non assoggettamento a collazione di ciò che i contraenti hanno ricevuto debbono valere, in linea di massima, le consi­derazioni sin’ora esposte, seppure con alcune differenziazioni.  Infatti, la collazione è un istituto afferente alla disci­plina della divisione ereditaria, avente ad oggetto le donazioni e gli altri atti di liberalità compiuti in vita dal de cuius, che vengono in considera­zione quando si debba procedere allo scioglimento della comunione ereditaria.

Esso consiste nell’obbligo che grava ex lege su determinati soggetti di conferire nell’asse ereditario, in natura o per imputazione, tutto quanto hanno ricevuto dal defunto per atto di donazione, direttamente o indirettamente, salvo il caso in cui siano stati dispensati dal defunto dall’obbligo di collazione (art. 737, comma 1, c.c.): la dispensa dalla collazione tuttavia non produce effetto se non nei limiti della quota disponibile (art. 737, comma 2, c.c.).

L’art. 768-quater, ultimo comma, c.c., stabilendo che quanto ricevuto dai contraenti non è soggetto a collazione, disciplina un’ipotesi le­gale di esenzione (dell’assegnazione) dalla collazione che sarebbe, tuttavia, errato qualificare, invece, come s’è da alcuni proposto, quale ipotesi di dispensa ex lege dalla collazione[56], giacché la qualifica di dispensa compete solo a quell’atto o negozio a causa di morte accessorio alla liberalità donativa, che è esclusivamente di natura vo­lontaria e che, pertanto, può promanare solo dalla volontà del de cuius.

Il fenomeno non è nuovo giacché, proprio all’interno del Capo II, dedicato alla collazione, il codice civile prevede espressamente al­cune ipotesi tipiche di donazioni o liberalità dirette o indirette che sono esenti ex lege da collazione[57].

Pertanto, si può ragionevolmente sostenere che l’art. 768-quater, ultimo comma, c.c., nella parte in cui detta che quanto ricevuto dai contraenti in sede di patto di famiglia non è soggetto a collazione, entri a far parte a pieno titolo di quel coacervo normativo che disci­plina le ipotesi legali di esenzione da collazione di cui si è fin qui detto e, non un’ipotesi di dispensa ex lege dalla collazione.

L’art. 768-quater, ultimo comma, c.c., pertanto, dispone una deroga all’operatività del dettato normativo di cui all’art. 737, comma 1, c.c., in conformità a quanto avviene nei succitati articoli e non, come si afferma, all’art. 737, comma 2, c.c.

Anche qui l’effetto non poggia su quell’atto di autonomia privata in cui si sostanzia la decisione dei legittimari di accettare la liquida­zione ovvero di rinunziarvi e a cui è sottesa, ancorché per implicito, la rinuncia ad avvalersi della collazione. Infatti,  la norma in questione pare predisporre un effetto legale vero e proprio di esenzione dalla collazione che dovrebbe prescindere del tutto da un’implicita manifestazione di volontà del legittimario non assegnatario, perché altrimenti non si spiegherebbe, anche qui, come mai l’esenzione stessa valga altresì per i legittimari sopravve­nuti[58].

Il senso concreto della disciplina prevista si comprende a pieno solo se si coordina la norma in esame con il successivo art. 768-se­xies, comma 1, c.c. In tale ottica, allora, il dettato normativo sta ad indicare che i beni oggetto del patto di famiglia non fanno più parte ex lege di quel donatum rilevante ai sensi dell’art. 737, comma 1, c.c.

In conclusione, ci si deve domandare in quale momento il patto di famiglia consegua definitivamente il suo effetto legale tipico fonda­mentale, ovverosia l’esenzione da collazione e riduzione relativamente ai beni che ne sono stati oggetto e, segnatamente, per i beni assegnati al discendente.

A tal proposito si deve tenere distinta l’ipotesi del patto di famiglia semplice da quello complesso e, in entrambi i casi, a seconda che alla morte del disponente vi siano o no legittimari sopravvenuti.

Nell’ipotesi di patto di famiglia semplice, questo, al momento della sua conclusione, acquisterà l’effetto legale citato, ancorché non in via assoluta giacché occorrerà attendere la morte del disponente per verificare, a quella data, la sussistenza o no di eventuali legitti­mari sopravvenuti. In tale ultimo caso, stando alla lettera della legge, non pare che vi siano dubbi sul fatto che l’effetto legale citato si acquisisca definitivamente solo quando sia intervenuta la soddisfazione totale del credito vantato dai legittimari sopravvenuti[59].

La diversa idea che la mera adesione all’accordo liquidativo da parte del legittimario non assegnatario, esprimendo il consenso alla conversione della sua quota di legittima in natura in un diritto al va­lore, sarebbe sufficiente a produrre l’effetto legale dell’esenzione da riduzione e collazione, sembra essere in contrasto con il dato testuale: per non tacer del fatto delle dirompenti conseguenze sulla stabilità del patto di famiglia che potrebbero conseguire in caso di successivo inadempimento da parte del soggetto debitore.  Anche qui, tuttavia, l’effetto legale si acquisisce non in via definitiva giacché occorrerà attendere la morte del disponente per verifi­care la sussistenza o meno a quella data di eventuali legittimari so­pravvenuti: in tale ultimo caso, stando sempre alla lettera della legge, non pare che vi siano dubbi sul fatto che l’effetto legale citato si ac­quisisca definitivamente solo quando sia intervenuta la soddisfazione totale del credito vantato dai legittimari sopravvenuti.

  1. I rapporti con il divieto dei patti successori

Per la trasmissione generazionale delle aziende esistono due strumenti: l’eredità e il patto di famiglia. La prima e fondamentale differenza tra queste due modalità di trasmissione del patrimonio sta proprio nella natura giuridica: il patto di famiglia è, un contratto, e infatti richiede la partecipazione e il consenso di più Parti contraenti. Invece, il testamento è tipico atto unilaterale, non abbisogna di nessun altro soggetto se non del testatore medesimo; anche il notaio, se eventualmente presente e per scelta del testatore, si limita a ricevere le estreme volontà di quest’ultimo, senza poterle né sindacare né modificare[60].

In materia di successione ereditaria, vi sono due principi cardine del nostro ordinamento, che limitano la facoltà di disporre al fine di tutelare alcuni diritti considerati inalienabili. La prima forma di limitazione consiste nella tutela degli eredi legittimari: ognuno può disporre, nel modo che ritiene più opportuno, dei suoi beni per il periodo successivo alla sua morte, come anche è libero di donare, nel corso della sua vita, alcuni o tutti i suoi beni. Ciò, però, nel rispetto dei diritti che la legge assegna, in modo assoluto, ai parenti più stretti, che vengono definiti dalla legge come eredi legittimari. Il nostro ordinamento prevede tale vincolo perché è contrario alla coscienza collettiva che tutti i beni del de cuius siano lasciati o donati a un soggetto estraneo, senza che nulla sia attribuito ai figli, al coniuge oppure agli ascendenti. Il meccanismo di tutela è quello previsto dagli artt. 553 e segg. cod. civ., in materia di riduzione delle disposizioni testamentarie, qualora eccedano i diritti disponibili dal de cuius , nonché lo strumento previsto dagli artt. 737 e segg. cod. civ., detto della collazione. Quest’ultimo istituto prevede l’obbligo di conferire ai coeredi tutto ciò che è stato donato, direttamente o indirettamente; ciò per evitare che il testatore, per eludere i diritti dei legittimari, si spogli di alcuni o di tutti i suoi beni effettuando delle donazioni e danneggiando così gli eredi legittimari, i quali si troverebbero a vantare dei legittimi diritti successori su un asse ereditario ormai svuotato. Mediante l’istituto della riduzione si prevede, invece, l’obbligo, a carico di chi ha ricevuto dal de cuius beni in eccesso, di restituire ai legittimari quanto loro spetta, al fine di ricostituire la loro quota di legittima. Questi istituti comportano una notevole instabilità dei rapporti giuridici, soprattutto se instaurati con le donazioni[61].

Il secondo principio fondamentale del diritto successorio è quello dell’assoluta libertà del testatore di modificare le sue disposizioni di ultima volontà in qualsiasi momento, fino a un attimo prima della sua morte. In sostanza, il principio della revocabilità del testamento è espressione di un più generale principio di libertà individuale, sancito dal nostro ordinamento come diritto irrinunciabile. Questo diritto, però, si scontra con le necessità di tipo aziendalistico insite nelle problematiche del trasferimento ereditario di un’azienda; infatti, il trasferimento di complessi aziendali non è semplice come quello che potrebbe essere il passaggio di proprietà di un immobile. L’imprenditore, se intende programmare l’avvicendamento dei suoi eredi nella gestione dell’impresa, avrà naturalmente l’esigenza di coinvolgerli in anticipo, renderli partecipi delle problematiche aziendali, in buona sostanza accompagnarli in un passaggio che richiede del tempo e molto impegno. A loro volta, gli eredi interessati al subentro generazionale dovranno applicarsi all’interno dell’impresa, onde essere pronti ad assumerne il comando nel momento dell’apertura della successione. Tutta questa pianificazione, che spesso richiede vere e proprie scelte di vita, contrasta però con la libertà di modificare il testamento, anche all’ultimo minuto. Potrebbe così accadere che l’anziano imprenditore, magari per un capriccio dovuto alla senilità, modifichi il testamento, estromettendo dall’impresa proprio gli eredi che fino a quel momento si sono dimostrati particolarmente interessati al passaggio generazionale.

La motivazione che ha spinto il legislatore a inserire la nuova disciplina dei patti successori è proprio l’intento di preservare l’intrinseca unitarietà dell’impresa e di garantire un passaggio generazionale il più indolore possibile, creando un’eccezione ai princìpi dell’illiceità dei patti successori.

L’art. 768 bis, cod. civ., definisce, infatti, il patto di famiglia come un contratto, col quale si identificano la figura del soggetto che intende destinare il proprio patrimonio, detto anche disponente, i soggetti destinatari della devoluzione di tale patrimonio, detti anche assegnatari , nonché coloro che non sono assegnatari ma titolari di un diritto di legittima sull’eredità[62].

In questo contratto, in estrema sintesi, il disponente assegna in tutto o in parte la propria azienda, ovvero le proprie partecipazioni sociali, a uno o più discendenti; non possono, dunque, aver accesso nel patto di famiglia altri tipi di beni, come per esempio immobili, arredi, oggetti d’arte, gioielli e così via, appunto perché l’interesse tutelato dalla nuova disciplina è la salvaguardia dell’integrità aziendale, cioè dei complessi produttivi (e possibilmente, anche dei livelli occupazionali), e non dei patrimoni in senso lato. Al contratto devono però partecipare tutti i legittimari, dunque anche coloro che non sono destinatari di azienda, rami d’azienda o partecipazioni sociali. Nel rispetto delle quote di legittima di questi ultimi, occorre che gli assegnatari dei beni provvedano a liquidare gli altri partecipanti al contratto, salva la loro rinuncia, con il pagamento di una somma corrispondente al valore delle quote a loro riservate in qualità di legittimari[63].

La norma chiave del nuovo istituto è, infatti, contenuta nell’ultima frase dell’art. 768 quater che dispone quanto ricevuto dai contraenti non è soggetto a collazione o a riduzione . L’importanza di questa norma risiede nel fatto che i terzi possono finalmente fare affidamento sul patrimonio, se assegnato mediante patto di famiglia in quanto, appunto, non può essere assoggettato alle azioni di reintegrazione delle quote di legittima che rendono instabili i rapporti dei donatari o degli eredi. Circa la forma del contratto, l’art. 768 ter dispone che esso deve essere concluso per atto pubblico, a pena di nullità; questa particolare forma è prevista anche per darne opportuna conoscenza ai terzi, affinché possano fare affidamento sui rapporti giuridici creati in virtù del patto di famiglia.

Nel contratto può essere previsto che gli eredi legittimari possano essere liquidati non con somme in denaro, ma con assegnazione in natura , cioè di beni il cui valore sia imputato alle loro quote di legittima.

  1. La deroga prevista dall’art. 768 bis

Il fatto che l’articolo 768 bis c.c. -intitolato “nozione” qualifichi imprenditore il trasferente dell’azienda e solo questo può suscitare il dubbio che lo stesso sia una condizione di applicabilità della disciplina[64].

In realtà emerge da subito l’uso improprio del termine imprenditore come emergente dalle disposizioni di cui all’art 768 quater (che qualifica imprenditore tout court il partecipante al patto di famiglia) e 768 sexies (ove e la morte del solo imprenditore che viene disciplinata).

Dunque si può concludere per il carattere atecnico con cui viene assunto dal legislatore il termine imprenditore.

Ne deriva giocoforza l’applicabilita della novella anche alle ipotesi in cui il trasferente possegga l’azienda ma non sia qualificabile come imprenditore.

L’articolo 768 bis c.c. non qualifica la natura del trasferimento. Trattasi certamente di negozio a titolo gratuito. Il patto in oggetto dunque non solo dovrà rispettare le regole tipologiche della società ma anche le singole discipline adottate volta per volta dalle società nell’ambito della loro autonomia normativa.
C’e da chiedersi se nel caso concreto possano trovare applicazione le regole che disciplinano la cessione per atto tra vivi ovvero quelle dettate per il trasferimento mortis causa.

Ciò rileva dal momento che tra le due fattispecie variano le regole, i limiti e le condizioni previste. Il patto di famiglia, pur costituendo deroga ai patti successori, ha effetti che per la società e gli altri soci hanno valenza immediata restando il profilo successorio limitato e solo a particolari effetti ai partecipanti[65]. Ne deriva che dovranno essere rispettate anche le eventuali norme statutarie che disciplinano il trasferimento per atto tra vivi.

  1. L’impugnazione del legittimario pretermesso

Il legittimario pretermesso, in ogni caso, potrà impugnare il patto facendone accertare l’inefficacia o nullità; è discutibile la possibilità di una ratifica ex post che, comunque, dovrebbe rivestire la forma solenne. Ma il percorso ermeneutico è ancora estremamente scivoloso.

Il patto di famiglia costituisce il terreno di scambio di diverse prestazioni, volte a ripristinare gli equilibri economici e giuridici scossi dal disponente: gli assegnatari dell’azienda o delle partecipazioni societarie, infatti, devono liquidare gli altri partecipanti al contratto con il pagamento di una somma, (o trasferendo beni in natura), corrispondente al valore delle quote ereditarie riservate ai legittimari.

I beni assegnati con lo stesso contratto agli altri partecipanti non assegnatari dell’azienda, secondo il valore attribuito in contratto, sono imputati alle quote di legittima loro spettanti, (768 quater, II); l’assegnazione può essere disposta anche con successivo contratto che sia espressamente dichiarato collegato al primo, (necessaria, quindi, anche l’expressio causae), e purché vi intervengano i medesimi soggetti che hanno partecipato al primo contratto o coloro che li abbiano sostituiti.

Trattandosi di collegamento negoziale le vicende a monte travolgeranno quelle a valle, (simul stabunt simul cadent).

La terminologia del legislatore non è delle più inequivoche.

Dalla lettera della disposizioni normative sembrerebbe potersi distinguere tra assegnatari-contraenti e non assegnatari-partecipanti: la distinzione non convince poiché anche i partecipanti sono veri e propri contraenti. L’interpretazione in tal senso risulta obbligata alla luce anche della necessità di evitare norme illogiche e contrastanti: ad es. l’ultimo comma ex art. 768 quater: “quanto ricevuto dai contraenti non è soggetto a collazione o a riduzione”[66]. Si prevede, inoltre, che “i contraenti possono convenire che la liquidazione, in tutto o in parte, avvenga in natura”: ritenere che i partecipanti non siano parte sostanziale del contratto equivarrebbe e lasciare la scelta della commutazione in capo al solo disponente ed assegnatario.

  1. L’art. 768 quinquies e l’impugnazione per vizi del consenso

Il patto di famiglia può essere impugnato per vizi del consenso ai sensi degli artt. 1427 ss. c.c. (art. 768-quinquies, comma 1). A prima vista appare incomprensibile il motivo per cui sia stata introdotta una disposizione di tal genere, posto che la disciplina sui vizio del consenso sarebbe certamente stata applicabile al patto di famiglia indipendentemente da una esplicita previsione[67].

Peraltro, allo scopo di impedire che il contratto possa essere impugnato a distanza di anni con evidente pregiudizio soprattutto con riguardo all’interesse allo svolgimento dell’attività d’impresa è stata previsto, in deroga al comma 1 dell’art. 1442 c.c., che l’azione si prescriva nel termine di un anno (art. 768-quinquies, comma 2); termine che, alla luce della previsione di cui al comma 2 dell’art. 1442 c.c., decorre dal momento in cui è cessata la violenza ovvero è stato scoperto l’errore o il dolo.

La disciplina, invece, appare incomprensibile se valutata con gli occhi della coerenza del sistema laddove stabilisce che costituisce motivo di impugnazione ai sensi dell’art. 768-quinquies l’inosservanza delle disposizioni del primo comma dell’art. 768-sexies (art. 768-sexies comma 2); vale a dire della previsione che sancisce il diritto del coniuge e degli altri legittimari che non abbiano partecipato al contratto di chiedere, al momento dell’apertura della successione dell’imprenditore, ai beneficiari del contratto stesso il pagamento della somma prevista dal secondo comma dell’art. 768- quater, aumentata degli interessi legali[68].  Il previsto annullamento di quest’ultimo a cagione dell’inadempienza dei beneficiari del medesimo nei confronti dei legittimari sopravvenuti si rivela pertanto incoerente e sproporzionato, soprattutto se si considera che la pronuncia di annullamento potrebbe intervenire nei casi tutt’altro che infrequenti di longevità dell’imprenditore a distanza di decenni dall’avvenuta stipulazione del contratto dando luogo a delicate questioni di ordine restitutorio.

  1. Lo scioglimento del patto

Un intero articolo (768-septies c.c.) è dedicato allo scioglimento ed alla modifica del contratto, che può avvenire mediante un diverso contratto che possieda le medesime caratteristiche e gli stessi presupposti previsti per il patto di famiglia ovvero mediante recesso, purché sia espressamente previsto nel contratto e sia attuato mediante una dichiarazione agli altri contraenti certificata da un notaio. Si tratta di una norma che ricalca situazioni giuridiche soggettive già previste della disciplina generale sul contratto e che quindi, per quel che concerne la specifica portata precettiva, può essere apprezzata unicamente sotto il profilo delle modalità attraverso le quali il mutuo dissenso ed il recesso possono produrre effetti[69].

Premesso che l’esercizio del recesso da parte del disponente o dell’assegnatario dell’azienda produce lo scioglimento del contratto, ci si potrebbe domandare tenuto conto che la formulazione della norma sembrerebbe guardare al recesso anche come strumento di mera modifica del contratto se il recesso di un partecipante non assegnatario dell’azienda (o delle partecipazioni societarie) sia causa di scioglimento del patto di famiglia oppure comporti la mera modifica dello stesso. In considerazione del fatto che il patto di famiglia, sebbene contratto plurilaterale, non può essere collocato nell’ambito dei contratti con comunione di scopo e che la partecipazione al patto di famiglia di tutti coloro i quali sarebbero legittimari indispensabile per la validità del medesimo, deve ritenersi che il recesso produca necessariamente lo scioglimento del contratto. Se peraltro si considerano le problematiche conseguenze che dallo scioglimento di un contratto come il patto di famiglia possono scaturire e ciò sia in ragione della complessità dell’operazione che della peculiare natura dei beni che ne costituiscono l’oggetto si può essere indotti a guardare con sfavore un uso eccessivamente ampio della clausola di recesso, soprattutto se ad nutum. Alla luce delle finalità perseguite attraverso il patto di famiglia, il diritto di recesso potrebbe al limite rivelarsi opportuno se previsto a favore dell’imprenditore (o del socio) e sempre che subordinato alla ricorrenza di cause specifiche o, quanto meno, di una giusta causa[70].

  1. Il rito da seguire nelle controversie sul patto

Ai sensi dell’art. 768-octies c.c. “Le controversie derivanti dalle disposizioni di cui al presente capo sono devolute preliminarmente a uno degli organismi di conciliazione previsti dall’articolo 38 del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5”. La disposizione richiamata prevede, in relazione ai procedimenti in materia di diritto societario e di intermediazione finanziaria, nonché in materia bancaria e creditizia, la costituzione, da parte degli enti pubblici o privati, che diano garanzie di serietà ed efficienza, di organismi deputati, su stanza della parte interessata, a gestire un tentativo di conciliazione. Tali organismi debbono essere iscritti in un apposito registro tenuto presso il Ministero della giustizia. Il registro e le modalità di iscrizione sono regolate dal d.lgs. 23 luglio 2004, n. 222[71].

Il problema consiste nel comprendere il significato dell’espressione “sono devolute preliminarmente”. Si è rilevato in proposito che, secondo la Corte costituzionale[72], l’arbitrato deve essere una scelta e non un’imposizione legislativa. E’ noto del resto che, come più volte ribadito dalla Consulta, poiché la Costituzione garantisce ad ogni soggetto il diritto di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi, “il fondamento di qualsiasi arbitrato è da rinvenirsi nella libera scelta delle parti: perché solo la scelta dei soggetti (intesa come uno dei possibili modi di disporre, anche in senso negativo, del diritto di cui all’art. 24, comma primo, Cost.) può derogare al precetto contenuto nell’art. 102, comma primo, Cost. sicché la “fonte” dell’arbitrato non può più ricercarsi e porsi in una legge ordinaria o, più generalmente, in una volontà autoritativa”, con conseguente incostituzionalità delle norme che prevedano forme di arbitrato obbligatorio[73].

All’osservazione può però obiettarsi che altro è mediazione e altro è arbitrato. Inoltre, altro è mediazione preliminare all’instaurazione della causa (assimilabile al tentativo obbligatorio di conciliazione che si ha, ad esempio, nel rito del lavoro) e altro è arbitrato obbligatorio. Semmai la vera obiezione, sul piano dell’opportunità, investe la scelta di politica legislativa di demandare l’opera di mediazione in una materia caratterizzata da profili di esasperato tecnicismo nel campo del diritto successorio (ma anche di quello familiare e contrattuale in genere) a organismi di conciliazione propri del settore commerciale e societario.

Trattandosi comunque di diritti disponibili non sembra impossibile ipotizzare l’inserimento di clausole compromissorie che demandino la devoluzione delle controversie sorgenti dal patto di famiglia a collegi arbitrali a composizione notarile.

Lo svolgimento del procedimento di conciliazione secondo la norma in oggetto dovrà aver luogo nell’osservanza dei successivi articoli 39 e 40 del già citato d.lgs n. 5 del 2003, con la conseguenza, in particolare, che i contraenti, nell’atto pubblico con cui è concluso il patto di famiglia, avranno la facoltà di indicare specificamente l’organismo di conciliazione. Inoltre, il mancato preventivo esperimento della conciliazione, senza che sia rilevabile d’ufficio dal giudice, dovrà essere fatto valere dalla parte interessata nella prima difesa; la proposizione della domanda di conciliazione produrrà sulla prescrizione i medesimi effetti di quella giudiziale. Nel caso di successo del tentativo di conciliazione sarà redatto processo verbale che, previo accertamento della regolarità formale, andrà omologato dal presidente del tribunale nel cui circondario ha sede l’organismo di conciliazione. Il verbale acquisterà così l’efficacia non soltanto di titolo per l’iscrizione dell’ipoteca giudiziale, ma anche di titolo esecutivo sia per l’espropriazione forzata, sia per l’esecuzione forzata in forma specifica[74].

Atteso che l’articolo 768-octies c.c. non introduce direttamente novità nella specifica materia, in applicazione dell’articolo 1, lett. b), del d.lgs 5/2003, si deve ritenere che vada seguito il c.d. «rito societario» (artt. 1 ss., d.lgs. 5/2003) soltanto ove nella specie il disponente si sia servito del patto di famiglia per trasferire partecipazioni societarie. Al contrario, qualora l’imprenditore trasferisca “in tutto o in parte l’azienda”, pare applicabile esclusivamente il procedimento ordinario di cognizione[75].

Conclusioni

Il patto di famiglia, quale strumento rivolto a consentire consensualmente la designazione del soggetto cui affidare il controllo dell’attività economica, costituisce una novità di rilievo nel panorama italiano ed esprime un’idea di fondo assolutamente da condividere: la regolamentazione pattizia e preventiva rispetto al decesso dell’imprenditore o del socio delle sorti dell’azienda o della società mediante il coinvolgimento di tutti i componenti la famiglia nella veste di futuri legittimari.

Il legislatore, facendo del patto di famiglia una tipologia contrattuale ha conferito forza cogente ad uno strumento che la pratica e gli studi di management già conoscevano, ma che non aveva valore legale e si limitava ad essere un insieme di principi – guida e di regole chiare e condivise sui rapporti tra famiglia ed impresa finalizzati allo sviluppo di medio – lungo periodo di quest’ultima.

 Le ragioni alla base di un simile strumento erano e sono: l’aumento progressivo del numero di membri della famiglia proprietaria col passare delle generazioni e la diversità dei principi su cui si basano la famiglia (unità, fedeltà, mutua assistenza) e l’impresa (economicità, efficienza, produttività). Esso serviva e serve a chiarire nel tempo (anche creando una memoria storica che altrimenti andrebbe persa) le regole, le ragioni e i valori che i familiari osservano o debbono osservare nei rapporti con l’impresa e può rappresentare uno strumento di pressione morale nei confronti di coloro che adottano o vogliono adottare dei comportamenti devianti rispetto ad essi.


[1] Così Petrelli G., La nuova disciplina del “patto di famiglia”, in Riv. notar., 2006, I, p. 418; nello stesso senso Gazzoni F., Manuale di diritto privato, Napoli, 2006, p. 1008, p. 220.

[2] È evidente che in tale ipotesi la qualifica d’imprenditore spetterebbe esclusivamente all’affittuario (o al comodatario), l’unico che svolgerebbe attività d’impresa.

[3] Così Fietta G., Patto di famiglia, in CNN notizie. Notiziario di informazione del Consiglio Nazionale del Notariato, 14 febbraio 2006, p. 14; e, sulle sue orme, Petrelli G., op. cit., p. 419.

[4] Il problema rischierebbe di non trovare soluzione, almeno il più delle volte, neanche ricorrendo alla donazione – pur sempre possibile – giacché in tal caso (sussistendone i presupposti) non si sfuggirebbe né alla collazione né all’azione di riduzione.

[5] In quest’ultimo senso Petrelli G., op. loc. cit.

[6] Ciò in perfetta simmetria, del resto, con l’espressione utilizzata dallo stesso testo dell’art. 768-bis c.c. con riferimento all’altro possibile oggetto del patto di famiglia – le quote societarie -: in tal caso, infatti, la predetta disposizione qua­lifica il disponente appunto come “il titolare delle partecipazioni societarie” (a tal riguardo, Manes P., Prime con­siderazioni sul patto di famiglia nella gestione del passaggio generazionale della ric­chezza familiare, in Cont. imp., 2006, p. 558.

[7] E, d’altronde, i primi commentatori della nuova legge generalmente non dubitano che il proprietario che abbia concesso in affitto (o in comodato) l’azienda possa assumere le vesti di disponente: in tal senso, oltre a quelli già citati nelle note precedenti, si vedano i seguenti autori: Avagliano M., Patti di famiglia e impresa; (Relazione al Seminario di studi “Impresa e diritto di famiglia. Profili di comparazione e novità di diritto interno”, Cassino, 6 aprile 2006 in Familia 2006, fasc. 4-5, pagg. 803-837; Gazzoni F., op. cit., p. 220; G. Oberto G., Lineamenti essenziali del patto di famiglia in Famiglia e diritto, 2006, fasc. 4, pagg. 407-429.

[8] Il condizionale è d’obbligo, poiché da molti si dubita che la nozione espressa da tale disposizione sia, per così dire, “autosufficiente”, ritenendosi che essa debba essere integrata col disposto dell’art. 768-sexies c.c.: in tal senso, per tutti, Caccavale E., Appunti per uno studio sul patto di famiglia: profili strutturali e funzionali della fattispecie, in CNN notizie. Notiziario di informazione del Consiglio Nazionale del Notariato, 22 marzo 2006, p. 292.

[9] Può trattarsi di un’azienda sia commerciale che agricola: in tal senso, De martino A., Brevi note in tema di patti di famiglia, in www.personaedanno.it. p. 7.

[10] Non problematico, beninteso, non già in assoluto, bensì solo nel senso che le questioni e i problemi ad esso relativi non sono autonomamente e specifica­mente generati dalla nuova disposizione, ma restano limitati a quelli solitamente studiati e dibattuti in sede di teoria generale dell’a­zienda.

[11] Cfr., anche per ulteriori indicazioni, Campobasso G., Diritto delle società, Torino 2006 p. 144 s.

[12] Nella misura in cui sia assicurato il rigoroso rispetto dei limiti esposti nel testo, può essere condivisa l’opinione (espressa da G. PETRELLI, op. cit., p. 420) se­condo la quale “non sembrano sussistere limiti all’ autonomia privata nel configurare l’oggetto del trasferimento di azienda e le relative pattuizioni”; con l’ovvia precisa­zione, peraltro, che queste ultime (le pattuizioni) potranno validamente derogare ­nell’ambito della disciplina legale della circolazione dell’azienda (artt. 2112 e 2556 ss. c.c.) – soltanto alle norme dispositive, non anche a quelle imperative.

[13] Galgano F., Diritto civile e commerciale, III, L’impresa e le società, 1, Pa­dova, 1990, p. 89 s.

[14] In tal senso  Petrelli G., op. loc. cit.

[15] Per un riepilogo della questione v., per tutti, Beccaria G., I beni perso­nali, in Regime patrimoniale della famiglia a cura di F. Anelli e M. Sesta, in Tratt. dir. fam., diretto da P. Zatti, ID, Milano, 2002, p. 163 ss., cui si rinvia anche per le indicazioni di dottrina e giurisprudenza.

[16] Non può esservi, viceversa, dubbio alcuno circa l’impossibilità di attribuire ­mediante patto di famiglia, diritti reali di godimento sull’azienda diversi dall’u­susfrutto: e ciò o perché si tratta di diritti (quali la superficie, l’enfiteusi, l’abitazione e le servitù prediali) che, avendo necessariamente natura immobiliare, non possono avere ad oggetto l’azienda in quanto tale, oppure perché si tratta di diritti (come il diritto d’uso) aventi connotazioni difficilmente compatibili con la natura produttiva del bene (in tal senso, per tutti, Petrelli G., op. cit., p. 420). Ciò peraltro non impedisce che – almeno in ipotesi – nel compendio aziendale possano essere ricompresi i diritti reali di godimento (diversi dell’usufrutto) su alcuni dei (o anche su tutti i) beni immobili appartenenti all’azienda (si pensi, per es., ad un diritto di superficie su un terreno sul quale dovrà essere edificato un capannone industriale): in tal caso, com’è ovvio, il trasferimento dell’azienda comporterà anche il trasferimento di tale diritto.

[17] Così, per tutti, Petrelli G., op. loc. cit.

[18] Sembra negarlo – se ben s’intende il suo pensiero – Petrelli G.,, op. loc. cit., il quale consente l’assegnazione dell’usufrutto al discendente solo “a deter­minate condizioni”, ossia – come sembra di capire dallo sviluppo del discorso ­solo qualora (come détto or ora nel testo) il disponente attribuisca contemporanea­mente la nuda proprietà dell’azienda ad altro discendente. L’autore, però, non chia­risce perché l’attribuzione in questione non sarebbe possibile, ma dall’argomenta­zione utilizzata poco oltre per negare l’ammissibilità dell’assegnazione di un diritto personale di godimento, parrebbe potersi evincere che il motivo consista nella “na­tura temporanea del diritto di godimento […], certo non compatibile con l’obiettivo di assicurare stabilità e durata all’attività d’impresa”.

[19] Né vale opporre che, in tal caso, la programmazione operata dal dispo­nente col patto di famiglia potrebbe essere vanificata dalla premorienza dell’assegna­tario, la quale farebbe in ogni caso estinguere (ai sensi del primo comma dell’art. 979 c.c.) il diritto di usufrutto. Tale argomento, oltre a non essere in grado di con­trastare le argomentazioni esposte di séguito nel testo, finirebbe per provare troppo: anche nel caso di assegnazione della piena proprietà dell’azienda, infatti, la premo­rienza dell’assegnatario (pur non facendo estinguere il diritto di proprietà, comun­que) comporterebbe la vanificazione dell’assetto di interessi programmato dal dispo­nente. Si consideri inoltre che, qualora l’assegnatario dell’usufrutto premorisse al di­sponente, quest’ultimo – ritornato pieno proprietario – potrebbe pur sempre porre in essere un nuovo patto di famiglia, che tenga conto della mutata composi­zione della compagine familiare.

[20] Che l’attribuzione dell’azienda ad uno solo (o soltanto ad alcuni) dei di­scendenti possa essere avvertita dagli esclusi come espressione di un trattamento in­giustamente discriminatorio nei loro confronti, è profilo icasticamente accentuato da Atelli M., Prime note sul patto di famiglia, in Obbligazioni e contratti, 2006, p. 562, allorché afferma che le nuove norme costituiscono addirittura “un inno alla disegua­glianza in ambito familiare”.

[21] In tal senso, per tutti, Petrelli G., op. cit., p. 420; ma si tratta di opi­nione sostanzialmente unanime.

[22] Per una sintesi della questione cfr., per tutti, Balestra L., L’impresa fami­liare, in Regime patrimoniale della famiglia, Milano 2006, p. 720 s., ove copiosi riferimenti di letteratura.

[23] In tal senso, pur senza pretese di completezza: Balestra L., op. cit., p. 378; Petrelli G., op. cit., p. 415; Gazzoni F., op. cit., p. 217; Cognolato M., La nuova disciplina dei “patti di famiglia”: tratti es­senziali e principali problemi, in Studium iuris, 2006, p. 777.

[24] Rizzi G., Il patto di famiglia. Analisi di un contratto per il trasferimento dell’azienda, in Not., 2006, p. 440 ss.

[25] Per l’approfondimento di tale complessa questione, non si può fare altro, in questa sede, che rimandare alla letteratura specifica: e si veda, per tutti, Balestra L., L’impresa familiare, in Tratt. dir. fam., diretto da P. Zatti, III, Regime patrimo­niale della famiglia, cit., p. 405 ss., e VII, Aggiornamenti, Milano, 2006, p. 447 s., ove ampi ragguagli di dottrina e giurisprudenza.

[26] Tra coloro che aderiscono a questa impostazione non manca chi stigmatizza l’nopportunità dell’inclusione nel patto di famiglia anche delle partecipazioni societa­rie, e ciò essenzialmente per due ragioni: perché la recente riforma del diritto socie­tario, disponendo (con gli artt. 2355-bis e 2469 c.c.) la validità delle clausole succes­sorie, avrebbe risolto il problema della successione nelle quote o nelle azioni (ma per una critica v.  Balestra L., Prime osservazioni sul patto di famiglia, cit., p. 373 nota 26, che richiama a suo conforto il pensiero già espresso da Ieva M., Divieto di patti successori e tutela dei legittimari, in Riv. not., 2005, p. 936 s.); e perché tale previ­sione si presterebbe agevolmente ad operazioni fraudolente, realizzate facendo con­fluire in società beni della più varia natura, sì che la successiva assegnazione delle quote verrebbe, nella sostanza, a realizzare un’ anticipata successione su beni non produttivi, così eludendo la ratio avuta di mira dal legislatore..

[27] Bolano A., I patti successori e l’impresa alla luce di una re­cente proposta di legge, in Contr., 2006, p. 94; Baralis G., Il patto di famiglia: un delicato equilibrio tra “ragioni” dell’impresa e “ragioni” dei legittimari, in AA.VV., Patti di famiglia per l’impresa, cit., p. 224 ss.

[28] Così Petrelli G., op. loc. cit.; nel senso della possibile incostituzionalità della disciplina (se interpretata estensivamente), anche  Gazzoni F., op. cit., p.221.

[29] Si ricorda che, secondo il modello legale delineato dall’art. 2257 c.c. (che deve intendersi richiamato, per la s.n.c., dall’art. 2293 c.c.), tutti i soci di società semplice e di s.n.c. hanno automaticamente il potere di amministrazione, salvo di­versa pattuizione contenuta nell’ atto costitutivo.

[30] E, peraltro, come già visto con riguardo ai soci illimitatamente responsa­bili della società semplice e della società in nome collettivo (cfr. la nota precedente), anche per la società in accomandita semplice si ritiene, in virtù del doppio richiamo de­gli artt. 2315 e 2293 c.c, che il contratto sociale possa riservare il potere di amministrazione soltanto ad alcuni degli accomandatari, con esclusione degli altri. In tal caso, in coerenza con quanto precedentemente affermato, si dovrebbe concludere che oggetto del patto di famiglia possano essere soltanto le partecipazioni degli accomandatari amministratori, e non anche quelle degli acco­mandatari non amministratori.

[31] Per tale conclusione cfr. Petrelli G., op. cit., p. 416 s.

[32] Così Petrelli G.,, op. cit., p. 417.

[33] Per tutti, Petrelli G.,, op. loc. cit.; Delfini F., Il patto di famiglia intro­dotto dalla Legge n. 55/2006, in Contr., 2006, p. 512.

[34] Così, ancora, Petrelli G., op. cit., p. 418.

[35] Cfr. Lombardi G., e Maisto G., Il patto di famiglia: l’imprenditore sceglie il proprio successore, in Corr. giur., 2006, p. 720; Mascheroni A., L’ordinamento successorio italiano dopo la legge 14 febbraio 2006 n. 55, in AA.VV., Patti di famiglia per l’impresa, cit., pp. 22 e 28.

[36]  Caccavale C., op. cit., p. 294.

[37] Avagliano A.,  op. cit., p. 10 del dattiloscritto; sostanzialmente nello stesso senso, se ben si comprende, anche Tassinari F., Il patto di famiglia per l’im­presa e la tutela dei legittimari, in AA.VV., Patti di famiglia per l’impresa, cit., p. 155 s.

[38] Un certo accordo tra gli interpreti si riscontra soltanto nel ritenere che dovrebbero essere escluse dal patto di famiglia le partecipazioni relative a società im­mobiliari di comodo (per tutti, Petrelli G., op. cit., p. 421.

[39] Non può pertanto essere condivisa la critica all’opinione restrittiva mossa da Lombardi L., e Maisto G., op. cit., p. 720, nella parte in cui si fonda sulla affer­mazione che tale tesi condurrebbe ad escludere che possano costituire oggetto del patto di famiglia quelle partecipazioni a s.r.l. e s.p.a. che – pur di per sé non mag­gioritarie – tali diventino se sommate a quelle già nelle mani dell’assegnatario.

[40] Per tutti, Petrelli G., op. cit., p. 415. Il discorso che segue dà per pre­supposto l’accoglimento dell’opinione nettamente dominante, secondo la quale il patto di famiglia sarebbe un negozio inter vivos: conseguentemente, i limiti societari alla circolazione delle quote (e delle azioni), che vengono in rilevo, sono solo quelli relativi ai trasferimenti inter vivos e non anche quelli collegati alle successioni mortis causa.

[41] Per tutti, Avagliano M., op. cit., p. 12.

[42] Si ricorda, peraltro, che anche per le clausole di prelazione societaria si ripropone il problema se il diritto ad essere prefe­riti nell’acquisto delle azioni o delle quote possa estendersi anche agli atti liberali (la questione è discussa: cfr., per tutti, Campobasso G., op. ult. cit., p. 242,). Se si propende per la soluzione negativa, è evidente che non si porrebbe alcun problema di interferenza col patto di famiglia, avendo esso natura liberale, seppure eventualmente non donativa. Non vengono invece in rilievo, quali limiti alla circolazione delle azioni mediante patto di famiglia, eventuali patti parasociali di blocco, i quali – essendo privi di rilevanza “reale” e avendo mera efficacia inter partes – non potrebbero in alcun modo né comprometterne la validità né comportarne l’inopponibilità alla società.

[43] V., per tutti, Petrelli G., op. cit., p. 422.

[44] Notazione più che diffusa sulla quale cfr. Di bitonoto C., Patto di fami­glia: un nuovo strumento per la trasmissione dei beni d’impresa, in Soc., 2006, p. 807; Pischetola A., Prime considerazioni sul patto di famiglia, in Vita not., 2006, pp. 461, 470, 478, 480;  Zoppini A., Il patto di famiglia (linee per la riforma dei patti sulle successioni future), in Diritto privato, 1998, Padova, 1999, p. 264; Del prato E., Sistemazioni contrattuali in funzione successoria: prospettive di riforma, in Riv. not., 2001, p. 635; Balestra L., Prime osservazioni sul patto di fami­glia, in Nuova giur. civ. comm., 2006, II, p. 375.

[45] Cfr. disegno di legge n. 2799 del 2 ottobre 1997; disegno di legge n. 1353 del 23 aprile 2002; disegno di legge n. 3870 dell’8 aprile 2003 (tutti pubblicati in Appendice).

[46] Cfr. in dottrina Zoppimi A., op. loc. cit.;Pischetola A., op. cit., p. 462-

[47] Cfr. ex plurimis  Balestra L., op. cit., p. 377.

[48] In luogo di molti Balestra L., op. cit

[49] Cfr. ex plurimis I.Balestra L., op. cit.

[50] Cfr. in particolare Petrelli G., op. cit., p. 453.

[51] È questo il proclama delle Relazioni: Pastore al disegno di legge n. 2799 del 2 ottobre 1997; Pastore al disegno di legge n. 1353 del 23 aprile 2002; Buemi al disegno di legge n. 3870 dell’8 aprile 2003 (tutte pubblicate in Appendice).

[52] Cfr. Relazione Buemi alla Commissione Giustizia in sede referente del 23 settembre 2003..

[53] Regola fondamentale in questo contesto è quella contenuta nell’art. 557, comma 2, c.c., secondo cui i legittimari (loro eredi o aventi causa) non possono rinunziare al diritto di chiedere la ridu­zione delle disposizioni testamentarie e delle donazioni lesive della legittima finché sia in vita il donante, né con dichiarazione espressa né prestando il loro assenso alla donazione.

[54] Se non fosse così, non si spiegherebbe come l’esenzione stessa valga altresì nei confronti dei legittimari soprav­venuti, per cui, ove la si volesse seguire, la precedente interpretazione risulterebbe integrare una spiegazione parziale dell’ effetto previsto dalla norma.

[55] . E la coincidenza di disciplina dell’oggetto della riunione fittizia e della collazione si potrebbe argomentare anche dall’art. 809, comma 2, c.c. secondo il quale le liberalità non soggette a collazione nemmeno sono soggette alle norme sulla riduzione delle do­nazioni per integrare la quota dovuta ai legittimari. Pertanto, è anche esente da riunione fittizia tutto ciò che è esente da collazione.

[56] Così, tra gli altri, invece: Inzitari B.,, Ambito di applicazione soggettivo e oggettivo del patto di famiglia, relazione al convegno organizzato da Paradigma in Milano il 29 marzo 2006, p. 32.

[57] Ad esempio, l’art. 738 c.c. stabilisce che non sono soggette a collazione le donazioni di modico valore fatte al coniuge; l’art. 739 c.c. prevede che l’erede non debba conferire le donazioni fatte ai suoi di­scendenti o al coniuge anche se succedendo a costoro ne abbia con­seguito il vantaggio salva l’ipotesi in cui la donazione sia stata fatta congiuntamente a due coniugi di cui uno sia il discendente del do­nante nel qual caso la sola porzione a questo donata sarà soggetta a collazione rimanendone esente l’altra porzione; l’art. 742 c.c. detta che non sono soggette a collazione le spese di mantenimento e di educazione e quelle sostenute per malattia, né quelle ordinarie fatte per abbigliamento o per nozze (comma 1), le spese per il corredo nu­ziale e quelle per l’istruzione artistica o professionale che non ecce­dano notevolmente la misura ordinaria tenuto conto delle condizioni economiche del defunto (comma 2), le liberalità previste dall’art. 770, comma 2, c.c. (comma 3); l’art. 743 c.c. sancisce che non è sog­getto a collazione ciò che si è conseguito per effetto di società con­tratta senza frode tra il de cuius e alcuno dei suoi eredi purché si tratti di atto avente data certa; l’art. 744 c.c. riconosce come non sog­getta a collazione la res perita per causa non imputabile al donatario.

[58] Anche qui, un’interpretazione nel senso criticato risulterebbe integrare una spiegazione parziale dell’effetto previsto dalla norma.

[59] Nell’ipotesi di patto di famiglia complesso, quando si debba liquidare un legittimario non assegnatario, anche qui, stando alla let­tera della legge, non pare che vi siano dubbi sul fatto che l’effetto legale citato nasca solo nel momento in cui sia intervenuta la soddisfa­zione totale del credito vantato dal legittimario non assegnatario e ciò, sia nel caso in cui questa avvenga contestualmente, sia nella di­versa ipotesi disciplinata dal comma 3, secondo periodo, dell’ articolo in commento, quando l’adempimento avvenga con un contratto successivo collegato.

[60] Anzi, in tanti casi, è opportuno che gli eredi non siano a conoscenza del contenuto del testamento, che per questo motivo normalmente viene redatto in forma segreta perché venga pubblicato solo al momento dell’apertura della successione. Inoltre, proprio per la sua natura di atto unilaterale, il testamento può essere annullato, modificato, o sostituito con altro testamento in qualsiasi momento, anche a totale insaputa degli eredi e dei beneficiari del medesimo, che verranno a conoscenza delle disposizioni del de cuius solo dopo la sua morte.

[61] Per esempio, in materia di riduzione delle disposizioni testamentarie, l’art. 561 cod. civ., dispone l’obbligo di restituire gli immobili attribuiti a alcuni soggetti in violazione delle quote illegittime. Ma non solo: questo articolo dispone che gli immobili devono essere restituiti liberi da ogni peso o ipoteca di cui il legatario o il donatario può averli gravati. Questo significa che, in pratica, nessuna banca sarà disponibile a concedere un mutuo se in garanzia venisse offerto un immobile ottenuto per donazione; infatti, l’istituto finanziatore correrebbe il rischio di vedere cancellata la propria garanzia ipotecaria nell’ipotesi che il soggetto finanziato subisca un’azione di riduzione da parte di un altro erede legittimario. E c’è dell’altro: chi ha ricevuto in donazione un immobile potrebbe trovarsi nell’assoluta impossibilità non solo di ipotecarlo, ma anche di venderlo. Infatti, dispone l’art. 563 cod. civ., che, in caso di azione di riduzione, se l’immobile oggetto dell’azione è stato alienato a terzi, è possibile chiedere ai successivi acquirenti la restituzione degli immobili medesimi. Dunque, chi sarebbe disponibile a correre il rischio di acquistare un immobile con il rischio di doverlo restituire, anche a distanza di anni? Questa instabilità si trasmette, a catena, nei confronti degli eventuali acquirenti successivi. Cfr. Cfr Oberto G., Il patto di famiglia, Padova  2006.

[62] Si noti che la norma (art. 768 bis, cod. civ.) prevede che possano essere assegnatari solo uno o più discendenti; sicché non possono assumere la veste di assegnatari tutti gli eredi legittimari (come per esempio il coniuge o i genitori) ma solo i discendenti e, dunque, nipoti e pronipoti. Cfr Oberto G., Il patto di famiglia, Padova  2006.

[63] In questo modo, la devoluzione dell’azienda o delle partecipazioni societarie avviene nel rispetto delle quote di legittima e con il consenso degli altri eredi legittimari.

[64] Oberto G., Il patto di famiglia, Padova  2006.

[65] Cfr Tomaselli S., Il patto di famiglia : quale strumento per la gestione del rapporto gamiglia-impresa,  Milano 2006.

[66] Ritenere i partecipanti come non contraenti vorrebbe dire che le loro assegnazioni sono aggredibili successivamente all’apertura della successione ma non anche quelle degli assegnatari. Cfr Angrisani A., Il patto di famiglia e gli altri strumenti di successione dell’impresa, Torino 2007.

[67] È tuttavia possibile che il legislatore abbia semplicemente inteso ribadire l’applicazione della regola in ragione della peculiarità della situazione in cui il patto viene concluso, caratterizzata dall’esistenza di un conflitto tra i molteplici interessi facenti capo ai contraenti; per cui, conscio delle acredini che in ambito familiare spesso si determinano allorquando si tratta di procedere alla regolamentazione dei profili patrimoniali connessi ad un rapporto di parentela o di coniugio, si è implicitamente tradita la consapevolezza che nel procedimento di formazione della volontà possano, nel patto di famiglia più che altrove, riscontrarsi vizi della volontà. Cfr Angrisani A., Il patto di famiglia e gli altri strumenti di successione dell’impresa, Torino 2007.

[68] In tal modo si collega e in ciò già un’evidente stortura l’annullamento del contratto all’inadempimento di un’obbligazione; obbligazione peraltro scaturente non dal patto di famiglia ma da una fattispecie complessa, caratterizzata dal concorso di una pluralità di elementi uno soltanto dei quali consiste nella pregressa stipulazione del patto di famiglia. Cfr La Porta U.,  Il patto di famiglia , Torino 2007.

[69] Secondo MANES A., Prime considerazioni sul patto di famiglia nella gestione del passaggio generazionale della ricchezza familiare, cit., p. 565, la necessità di una previsione del recesso nel contratto opera solo con riferimento al recesso ad nutum, mentre deve ritenersi sempre consentito un recesso da parte del disponente per giusta causa.

[70] La Porta U.,  Il patto di famiglia , Torino 2007.

[71] Sulla disciplina della conciliazione stragiudiziale in materia societaria cfr. Minervini A., La conciliazione stragiudiziale delle controversie in materia societaria, in Società, 2003, p. 657 ss.; Brunelli C., Clausole compromissorie, dell’arbitrato e della conciliazione stragiudiziale in materia societaria, in Aa. Vv., La riforma delle società. Aspetti applicativi, a cura di Bortoluzzi, Torino, 2004, p. 421 ss.; Miccolis A., La conciliazione e la disciplina del nuovo processo introdotto con il D.Lgs. n. 5 del 2003, in Riv. dir. civ., 2004, II, p. 97 ss.; Sanzo e Migliaccio C., Della conciliazione stragiudiziale, in Aa. Vv., Il nuovo diritto societario, Commentario diretto da Cottino, Bonfante, Cagnasso e Montalenti, Bologna, 2004, p. 2998 ss. Sui provvedimenti attuativi cfr. Brunelli C., Gli organismi di conciliazione extragiudiziale in materia societaria, in Vita notar., 2004, p. 1734 ss.; Soldati C., Il decreto attuativo degli organismi di conciliazione del nuovo processo societario, in Contratti, 2004, p. 1074 ss.; Picaroni T., Note sui regolamenti di attuazione del D.Lgs. n. 5/2003 in tema di conciliazione stragiudiziale – DD. MM. 23 luglio 2004, nn. 222 e 223, in Società, 2004, p. 1424 ss.

[72] Cfr. da ultimo Corte cost., 8 giugno 2005, n. 221, con ampi richiami ai precedenti della stessa Corte in motivazione.

[73] V. Corte cost., 8 giugno 2005, cit.

[74] Cfr. Busani A., L’incertezza riguarda il rito da seguire nel processo successivo al tentativo fallito, in Guida al dir., 2006, n. 13 del 1 aprile 2006, p. 49.

[75] Così Busani A., L’incertezza riguarda il rito da seguire nel processo successivo al tentativo fallito, cit., p. 49.

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